Eracle “Melampygos” e la risata liberatoria

(da átopon Vol. V)

“Dal pianto al riso”
Seminario dell’Istituto MYTHOS di Psicologia Analitica e Psicoantropologia Simbolica

Giuseppe Lampis

Raccontano i mitografi che i Cercopi erano due fratelli briganti che la madre aveva messo in guardia dall’incontrare un eroe detto Melampygos (deretano nero). Una volta stavano derubando Eracle addormentato sul ciglio della strada allorché questi li sorprese e, dopo averli sopraffatti, li appese per i piedi alle due estremità di un bastone che si caricò sulle spalle. E ciò, verosimilmente, per portarli alla regina Onfale, presso la quale egli stava servendo in schiavitù e che gli aveva ordinato di liberare il paese da quei briganti. Da quella posizione, essi si accorsero del deretano nero di Eracle, capirono il presagio della loro madre e scoppiarono a ridere trasmettendo il riso all’eroe che li lasciò liberi. In seguito, continuarono a fare i briganti, finché Zeus non li trasformò in scimmie e li trasportò alle due isole di Procida e Ischia, da allora denominate Arcipelago delle scimmie, in greco Pitecuse.

 

Il ritorno di Eracle vittorioso dopo la conquista di Troia, città dell’oltremondo, era stato ostacolato dalla gelosa Era che gli aveva suscitato contro una tempesta dopo essere riuscita a addormentare con l’aiuto di Ypnos (il Sonno, fratello di Thanatos , la Morte) lo sposo infedele Zeus, padre e protettore dell’eroe.

melampygos
Metopa raffigurante Eracle e i Cercopi

Al risveglio Zeus irato appese a una corda d’oro, fuori dell’Olimpo, la terribile sposa ai cui piedi aveva messo due pesi. Il Sonno, colpevole di aver messo fuori causa il signore degli dei, sfuggì a mala pena al castigo rifugiandosi nelle braccia di sua madre, la Notte, che lo stesso Zeus non osa affrontare per antico rispetto.

Eracle, spinto dal naufragio a Cos, fu costretto a soggiornare presso la misteriosa regina Onfale come tributario, servo ossequiente e docile. Questa fu in tutta evidenza una delle tante prove che l’eroe dovette affrontare e merita di essere ricordata e raccontata di nuovo, anche se non si annovera nel ciclo delle più famose fatiche.

La misteriosa regina Onfale già in forza del suo nome ( Onfale , femminile di onfalòs, in greco significa ombelico), che indica le più intime profondità del ventre e simboleggia nelle culture antiche il centro del grande corpo vivente del mondo1, richiama l’essere lontano, primordiale che possiede tutte le infinite e originarie potenze del grande vivente. La regina dal nome di etèra appare dunque come la personificazione della matrice del mondo e si presenta pertanto come uno dei molti travestimenti della ctonia genitrice primordiale, onnicapiente.

La vicenda di Eracle dunque richiama la prova della simbolica discesa agli inferi, con cui si confrontano tutti gli eroi greci, e la tematica, costante in tutte le tradizioni, del ritorno al centro, alle oscure profondità delle origini.

Eracle infatti, raggiunta Onfale e divenutone lo schiavo, vestiti gli abiti di lei, si occupa del lavoro tipico della regina della casa, fila la lana e esercitando tale arte nobilissima2 acquista i caratteri e il potere della regina, grande tessitrice, signora delle trame e degli orditi. Al tempo stesso, la regina veste la pelle di leone dell’eroe e ne assume la parte. Come nelle ierogamie, lo scambio dei ruoli porta alla nascita di un essere nuovo perfettamente androginico, di potenza straordinaria.

Aquesto punto si apre un racconto nel racconto, un altro corridoio nel labirinto, e forse proprio quello dal quale si esce.

Eracle viene coinvolto in un’altra strana impresa, apparentemente poco eroica: la regina Onfale lo invia nel territorio della sua giurisdizione a catturare due briganti, i Cercopi, «quelli con la coda», scimmioni senza legge che aggredivano e depredavano i viandanti.

Questi esseri, raffigurati di bassa statura con una testa sproporzionata rispetto al corpo, una sorta di nani, mobilissimi, osceni, fallici, avidi, ladri, abitano presso le Thermopylai , «porte del caldo», sorgenti calde che evocano l’ingresso nell’accogliente ventre degli inferi. Come i Cabiri, nati direttamente dalla terra, ne abitano ancora le cavità.

Giunto alle Termopili Eracle ristorato si addormenta restando tuttavia, da eroe, padrone di sé e abbastanza sveglio da sorprendere e catturare i due Cercopi con le mani nel sacco, mentre stanno tentando di portargli via le armi, forse la clava-martello o la bipenne.

Eracle ha così assolto al compito assegnatogli dalla regina Onfale; appende i due prigionieri per i piedi ad un bastone e li carica sulle spalle. Ma questi scoppiano in una fragorosa risata e continuano a ridere sempre più forte dal momento che, in quella strana e invertita positura, sbattendo la faccia sul deretano di Eracle3 vedono che è nero e ricordano che la madre li aveva avvertiti di stare alla larga dall’incontro con un tale, detto per l’appunto «deretano nero», dal quale avrebbero potuto ricevere spiacevoli sorprese. Il loro riso irrefrenabile contagia lo stesso Eracle che comprende che cosa stia accadendo e, ridendo, li lascia andare liberi.

Ormai i due briganti dopo l’incontro con il misterioso Melampygos sono liberi sia dal vincolo recente sia da quello più lontano che pesava su di loro attraverso la profezia materna: il loro destino è così compiuto e, liberati, sono tramutati in scimmie.

Eracle del resto mostra molti caratteri che in definitiva lo apparentano ai due briganti come ai Cabiri del corteo primordiale, figli della terra. Anch’egli si collega con le terme, le acque calde sotterranee che risalgono dal basso, che Athena, sua protettrice, fa sgorgare accanto a lui affinché, bagnandosi in esse, egli trovi miracoloso ristoro dopo i travagli delle sue fatiche. Egli è figlio della “mortale” Alcmena (figlia di Perseo, incarnazione del sole, desiderata dallo stesso Zeus e sposa di Radamanto nell’aldilà ) che possiede poteri che precedono, per molti versi, quelli della stessa Era. Questa, gelosa, costrinse Alcmena a ritardare il parto di Eracle e, inoltre, volle ripartorire l’eroe, il quale, al culmine dell’intero processo di trasformazione, porterà appunto il suo nome ( Era -cle) e sarà assunto nel fuoco tra gli dei e premiato con la giovinezza eterna.

Già nell’infanzia, a pochi mesi dalla nascita, Eracle con la sua prima impresa (strozzò a mani nude i serpenti inviatigli da Era nella culla per soffocarlo) manifestò di essere divinità con caratteri fortemente ctoni, quali quelli dei serpenti, e più constrictor di loro stessi.

È da notare che in ciò Eracle, a differenza degli dei olimpici che per lo più non hanno un’infanzia ma si presentano perfettamente adulti, è invece accomunato al padre degli dei che avrebbe avuto un’infanzia a Creta, dove la madre Rea lo aveva affidato ai Cureti per sottrarlo alla voracità di Crono. Tale storia si intreccia con quella del fanciullo divino Dioniso, anche se non appare facilmente comprensibile come un dio indoeuropeo della folgore e del tuono sia andato a coincidere con un bambino divino allevato in una grotta mediterranea. Anche Eracle dispone di queste stesse armi formidabili: la bipenne (che sta per la folgore, il vajra indù, arma che, come il martello del germanico Thor, sintetizza la bipolarità delle due potenze complementari, la vita e la morte), sua preda della guerra contro le Amazzoni, che consegna a Onfale, venerata signora del centro.

Certamente dunque Eracle possiede una dimensione dionisiaca, non solo perché soffre e muore, riuscendo tuttavia a uscire dalla morte (e infatti le sue prove esemplari sono tutti modi eroici di vincere le potenze della morte), ma perché è fanciullo e da fanciullo è già se stesso4 e ancora per la sua poco olimpica caratteristica di andare soggetto ai raptus della follia e infine proprio per quella facies oscena che risalta dall’epilogo del nostro racconto.

Dal momento che i briganti catturati da Eracle e appesi a rovescio lo riconoscono e ridono coinvolgendolo nella risata, ottenendo così di essere liberati e trasformati in scimmie (come peraltro era previsto fin dall’inizio nel loro nome5), possiamo dire che l’eroe ha portato dietro le spalle e poi ha allontanato sotto forma di scimmie ciò che gli apparteneva già dall’inizio e che per questo ne aveva provocato il riso, un riso che si affaccia nel mito come una parte essenziale della sua impresa.

Il sottofondo iniziatico dell’intervento delle scimmie non è ignoto agli studiosi.

La scimmia rappresenta il rovescio oscuro e potente dell’uomo; se si prende in considerazione il versante che unisce l’uomo all’angelo, la scimmia si può collocare sul versante opposto. L’uomo sta su una corda tesa, come diceva Nietzsche, tra l’uomo superiore e la scimmia. La scimmia imita l’uomo non perché ripete goffamente, come uno specchio deformante, i suoi gesti, ma perché porta alla vista una realtà che solitamente non si vede, alla quale l’uomo è analogo. Per tali motivi, essa indica l’aspetto negativo della dispersione nel molteplice6 e della dissipazione del cuore nelle passioni mondane, ma anche l’aspetto positivo dell’uomo che si apre ( op. cit. , p. 177) all’invenzione culturale.

Presso gli Egizi, scimmie divino-demoniche poste a guardia delle porte dell’aldilà sottopongono il morto ad interrogatorio.

Un mito dei Guarayu della Bolivia, esaminato da Claude Lévi-Strauss7, riferisce che «sulla via che conduce al Grande Avo i morti devono subire anche la prova del solletico da parte di una scimmia dalle unghie aguzze. E debbono resistervi ». Del resto «quasi tutti i miti [amerindi] attribuiscono al riso conseguenze disastrose, la più frequente delle quali è la morte. Solo alcuni l’associano a eventi positivi: l’acquisizione del fuoco da cucina, l’origine del linguaggio» ( op. cit., p. 177).

In effetti, nella visione antropologica degli arcaici, il riso, segnando la perdita improvvisa del controllo della unità delle molte anime che compongono l’individuo, come nella follia e nelle possessioni violente, rappresenta un rischio di dispersione, di un vero e proprio scoppio, con fuga e sottrazione dell’anima vitale.

Eppure la scimmia non è avversaria dell’uomo.

Per i Kayapo-Goretiré, uno strano essere dal corpo umano con ali e piedi da pipistrello «appeso a un ramo per i piedi» op. cit ., p. 165, sott. mia) scese e fece amicizia con l’uomo facendogli il solletico.

La scimmia, piuttosto, rappresenta un trait d’union tra l’uomo e il giaguaro ( op. cit. , p. 177) che incarna il dio della vita e della morte e può svolgere tale ruolo di mediazione proprio perché ha la facoltà di trasformarsi sia nell’uno sia nell’altro. Il giaguaro incarna la potenza cosmogonica del sole che presiede alla universale vicenda con il suo duplice volto mortifero e vitale, ambiguamente oscuro e luminoso, sole di mezzanotte e sole di mez-zogiorno.

Presso i Maya la scimmia sta direttamente per il sole, e come tale è gemella del dio della morte, il sole di mezzanotte.

Anche in Egitto il babbuino divino sta per il sole, il potente Ra . Ha forma di scimmia anche Thot il dio dei geroglifi, la sacra scrittura, vera trama strutturale del cosmo, tracciata e costituita dal sole, tessitore e disegnatore sia del mondo visibile che di quello invisibile.

La scimmia riveste anche presso altre culture (nell’India dell’epopea Ramayana , in Cina, in Tibet, nel cristianesimo), su cui non possiamo ora soffermarci, un ruolo divino-demonico a causa del carattere preminentemente ambiguo, mimetico, di confine: agile, spontanea, avida, lussuriosa, sfrenata, è simbolo della mutevolezza, in senso positivo come in senso negativo.

Nella scimmia, esemplarmente buffonesca, si sono dunque concentrati i caratteri ben noti di quel secondo creatore che è il briccone divino o trickster .

Spesso il briccone divino viene impersonato da un animale e in particolare da quelli capaci di trasformazioni e spostamenti. La stessa cosa si rileva a proposito delle molteplici anime che abitano l’uomo e lo fanno vivere, cosicché allo studioso delle culture arcaiche si presenta un quadro ideologico nel quale si immagina che l’uomo sia in grado di passare dal suo mondo terreno quotidiano a un altro lontano e invisibile, ma più reale e più importante, mediante il potenziamento e la valorizzazione della parte di sé (o dell’anima che la abita) a ciò deputata.

Possiamo dunque dire in sintesi che l’uomo è anche una scimmia, e che nell’uomo c’è anche, e strutturalmente, una scimmia. Da ciò consegue che questo animale finisce per essere pensato come un rovescio, un qualcosa che sta dietro, un altro, un aldilà, tutti peraltro connaturati e inscindibili, e presenti anche se a prima vista non si vedono. Rappresenta la faccia nascosta dell’uomo, quel versante che partecipa di un mondo oscuro e invisibile.

Nelle culture tradizionali, la scimmia incarna una delle anime vitali pensate come un doppio: fra le molteplici anime esterne, volatili e capaci di entrare in contatto con le cose lontane, rappresenta quella più terragna, vitalistica, umbratile. In epoca cristiano-medioevale, quando viene fissata una dicotomia etico-metafisica tra bene e male, incarnerà quella demoniaca.

Nel caso di Eracle Melampygos , l’interpretazione della scimmia fa da premessa, necessaria ancorché insufficiente. Infatti, essa deve servire a chiarire il sorgere della catarsi finale della risata e soprattutto il significato riposto di quel nome attribuito all’eroe. In breve, le scimmie (i Cercopi che assalgono Eracle addormentato), si pongono come una delle anime dell’eroe, o meglio come una rivelazione della parte oscura di sé che si risveglia manifestandosi all’eroe.

Eracle, catturando le scimmie e scoprendo chi effettivamente esse siano, scopre qualcosa di importante che lo riguarda e dunque si abbandona con loro a una clamorosa risata liberatoria.

Avviciniamoci al nucleo semantico del racconto.

I due briganti sono simili a fiere nutrite direttamente dalla natura e vivono una vita selvatica e precivile, legati nel tempo stesso alla terra e al caso. E il caso è il dio più primitivo, perché l’assoluta mancanza in esso di gerarchie, o meglio la compresenza di tutte le gerarchie possibili, ne fa la vera totalità confusionale unitaria che precede ogni determinazione. I briganti Cercopi, che scorrazzano nel regno della regina Onfale, sono in effetti dei bricconi ermetici, tributari del caso, come il fanciullo Hermes, il principe divino dei ladri. Ma anche Eracle è ermetico, viaggiatore oltremondano, fanciullo divino, ambiguo o androginico, insieme umano e ferino. E nel contempo è anche un eroe civilizzatore, amico degli uomini che egli, in quanto capace di superare le grandi prove del confronto con la morte e con il dolore, può aiutare a istituire l’ordine civile.

La prova di Eracle si conclude con l’episodio dei due briganti catturati e appesi a faccia in giù alle sue spalle: mediante la loro vicenda l’eroe vede ciò che sta dietro alle sue spalle e se ne appropria. L’episodio spiega il soprannome di Eracle, Melampygos («deretano nero»), che evoca la terra, madre e nutrice nera, perché nere sono le sue viscere, il sottosuolo, denso, scuro e senza mai luce, come l’incontro e il rapporto di perfetta simmetria dell’eroe con la regina Onfale (ombelico).

La faccia volta davanti, che per noi moderni guarda al futuro, nelle culture africane invece viene intesa come rivolta in direzione del passato, del regno della morte, dove si trovano i predecessori e gli antenati. Di conseguenza, nel verso che per noi guarda dietro, per loro c’è il vero futuro, quelli che devono ancora venire, i neonati, i giovani. Le donne africane, nonché le asiatiche, legate ancora a questa tradizione, portano simbolicamente il bambino dietro alle spalle, luogo che, nelle culture arcaiche, equivale al dentro e alla matrice.

L’epilogo dell’episodio, osceno e di forte comicità elementare, introduce in un campo del massimo interesse, nel quale si appalesa il valore catartico e liberatorio del ridere, ma anche il suo strettissimo e sostanziale rapporto con le prove tipiche dell’eroe il quale deve saper sostenere la discesa agli inferi tornandone vivo.

Il rapporto tra comico, osceno e inferi è stato già ben colto dagli studiosi. Il ritorno delle maschere, la risalita dei morti, instaurano il tempo del rovesciamento, al quale appartengono il riso liberatorio, i Saturnali, il carnevale, la rottura delle regole della dura pratica civile quotidiana e il riassorbimento nel regime caotico nel quale torna il tempo del grembo confusionale, dell’indistinzione infinita e ogni individuo viene abolito.

La scoperta comica dei due ladroni, appesi a quello strano braccio orizzontale del loro signore8, riceve un ulteriore insolito getto di luce trasversale da quello che si riteneva fosse un momento essenziale dei riti di omaggio al diavolo: l’ osculum al suo deretano da parte delle streghe e degli stregoni9.

Il corto circuito della risata scatta non tanto per il fatto che i due, dondolando, saranno andati molto probabilmente a sbattere muso e bocca sulle natiche di Eracle, ma per l’incontro tra ciò che si vede (di norma) e ciò che (sempre di norma) non si vede: tra viso e deretano. Nell’episodio l’irrompere in primo piano di un nascosto inizialmente impresentabile provoca un effetto comico elementare, irresistibile e trascinante.

I due ridono perché, in definitiva, si scoprono a loro agio e non si sentono prigionieri di una forza estranea e minacciosa. Il loro vero signore, annunciato dalla loro stessa madre, li costringe a rendergli omaggio; essi capiscono il rito e la festa tocca il culmine.

L’avvento di una scoperta inattesa fa ridere; anzi, a ben vedere, a far ridere è l’avvento di una realtà attesa, la quale pur incombendo si teneva fuori dalla vista e della quale si ignoravano i percorsi.

Ciò che fa ridere e che all’improvviso libera le tensioni, è il fatto che l’invisibile, o il nascosto, rendendosi visibile, impone il suo significato, rovesciando le limitate prospettive ordinarie.

Giuseppe Lampis

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NOTE:

1) In varie culture l’ombelico- onfalòs si presenta come un monumento di pietra oggetto di culto. Tale si trova in Mesopotamia, tale in Grecia (a Delfi per Gea, a Pafo per Afrodite), tale in Sardegna (presso la ziqurrat di Monte d’Accoddi): una grande pietra ovoidale (l’uovo iniziale del cosmo) con sopra inciso il firmamento uranico, una sorta di sintesi tra l’interno della prima madre e la sua superficie esterna convessa, notturna, stellata, popolosa di mondi infiniti. 

2) Il sole sovrano fila i suoi raggi e tesse il mondo, come un ragno la sua tela dal centro (e infatti l’universo viene pensato come un vivente); come Penelope, maga di famiglia di maghe; come la forza divina che tesse il velo della maya. Nelle società tradizionali al possesso dell’arte segreta della filatura e della tessitura viene sempre associata la gestazione: in Grecia, la vita si dipana e interrompe come un filo per l’azione delle Moire, supreme ordinatrici. 

3) Si può ammirare una metopa del tempio di Era a Paestum nella quale si vede l’eroe che li porta appesi a testa in giù con un bastone tenuto in spalla a bilanciere 

4) Ciò è tipico delle forze primordiali e terragne, legate alle profondità della terra. Anche Hermes, insieme pietra e uccello (figlio dell’uovo), è un dio puer.

5) ) Il mito del toponimo dell’arcipelago campano funge solo da scolio posteriore, attribuendo a Zeus quanto in effetti fu opera di Eracle e comunque le analogie tra Zeus e Eracle sono fortissime 

6) Claude Lévi-Strauss, Le cru et le cuit, Paris 1964; tr. it., Il crudo e il cotto, Milano 1980/III ed., pp. 165-166, (p. 166, sott. mia). 

7) La mente incostante che passa continuamente da un pensiero all’altro viene spesso paragonata a una scimmia, nel buddhismo. Proprio tale “turbinio” dell’immaginazione è ciò che lo yoghi cerca di frenare e disciplinare. Cfr. Ananda K. Coomaraswamy, Time and Eternity, 1989, tr. it. Tempo ed eternità , Milano 1996, p. 50, n. 6 

8) Va segnalata la simmetria della triade formata da Eracle e le due scimmie ladrone con quella del Cristo crocefisso tra i due ladroni. Per valutare lo sfondo di siffatte similitudini resta utile tenere presente il rapporto simbolico tra i bracci della croce: le direzioni (cosmiche) che essi indicano non si limitano infatti a quelle giacenti sulla superficie piana e frontale, ma si proiettano altresì nei versi anteriore e posteriore della profondità, come per i diametri delle circonferenze inscritte in una sfera, disposte in modo che intersecandosi formino angoli retti al centro. 

9) Forma criptica e degradata in cui riaffiora l’antica devozione al Male, del quale – in tal caso – si riconosce la potenza divina. Le religioni monoteiste proibiranno di sacrificare al male, il quale era oggetto di culto e di adorazione perché si riteneva che la sua potenza irriducibile testimoniasse della sua divinità. 


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