Il mistero del letto di Odisseo

Giuseppe Lampis

C’è un grande segreto
nel letto ben fatto
che io fabbricai.

(Odissea XXIII, 188)

 

Odisseo conosce bene l’arte della lavorazione del legno. Quasi si potrebbe affermare che l’eroe sia impensabile senza questa capacità. Le sue opere di legno intervengono a caratterizzare aspetti tipici della sua persona e della sua azione, fanno tutt’uno con la sua figura.

La padronanza dell’arcaica arte premetallica e paleolitica è collegata con la sua capacità di ordire inganni.

odisseoOdisseo è innanzitutto colui che concepisce e costruisce il cavallo di Troia. Colui che evade dalla prigionia del Ciclope accecandolo con un palo aguzzo di cui ha indurito la punta alla viva fiamma. Colui che per evadere dall’isola fatata e fatale di Calipso si fa da solo una barca con una perizia che la farà reggere fino all’ultimo alla tempesta.

Infine Odisseo è colui che sposando la misteriosa Penelope ha segretamente predisposto il talamo nuziale sul ceppo ben radicato in terra di un ulivo secolare elevando poi attorno a esso la stanza di pietra.

Anche quest’opera, la prima in ordine di tempo delle abilità riconosciutegli, appartiene alla sua personalità tipica di orditore di intelligenti e audaci congegni. Lo si scopre alla fine del racconto, allorché Penelope chiede ad alta voce alle ancelle di portare fuori il letto dalla sua stanza per fare riposare l’eroe stanco della strage vendicatrice. In verità Penelope, che legittimamente dopo tanti anni si mostra diffidente di poterlo più riconoscere alla vista, gli tende una trappola, un enigma, un indovinello. Anche Penelope è intelligente e scaltra, anche lei, la donna che tesse e disfa, che manovra ordito e trama a piacimento nei due sensi dell’essere e del nulla rispettivamente di giorno e di notte, affine allo sposo, a lui perfettamente simmetrica nel mondo in cui la donna tesse e l’uomo lavora il legno.

Penelope e Odisseo hanno in comune il segreto del letto nuziale. Non è l’unico segreto, un altro patrimonio riservato alla loro intelligenza è il mistero dell’arco composto con le corna di un ariete, arco che nessuno dei giovani prìncipi pretendenti al trono riesce a tendere e che unicamente lo sposo irriconoscibile sa usare da maestro.

Quando tutto è finalmente risolto, i due ritornano sul letto di ulivo. Letto inamovibile, piantato in terra saldo e eterno.

Che cosa vuol dire tutto ciò?

Gli etnologi potrebbero spingerci a pensare all’uso degli uomini dei primordi di abitare sulle piante per trovare riparo dalle insidie dell’ambiente. Le belve si arrampicano sugli alberi trascinando nelle fauci la loro preda su un ramo inaccessibile per sottrarsi ai concorrenti affamati.

Abitare una pianta: siamo davvero risospinti in epoca lontanissima, a un costume e a un rito perduti in età storica. L’ultima volta che ritroviamo uomini organizzati in abitazioni sollevate su legni è con i palafitticoli delle terremare agli inizi dell’età del ferro. Naturalmente si conoscono i giochi dei bambini che fingendosi primitivi si costruiscono una capanna nascosta in un’insellatura dei rami alti d’una pianta nel bosco.

Ma nel caso di Odisseo e Penelope c’è il segreto, nessuno sa come stanno le cose, la disposizione del talamo è nota soltanto a loro due (Odissea XXIII, 110).

Questo carattere fa pensare piuttosto a un altro sfondo: alla fuga degli sposi nel folto della foresta per celebrare la propria unione lontani dal mondo.

Per capire, dobbiamo seguire la traccia principale e cioè che si tratta del letto di nozze. Sembra si alluda al costume di un’età perduta, costume che prevede che solo i giovani sposi debbano conoscere dove unirsi. Solo loro, in quanto in quella sacra occasione essi sono usciti dal mondo comune e se ne tengono lontani. I due hanno raggiunto il giardino segreto dell’inizio e lì sono gli unici abitanti. I due sono i primi uomini sulla terra, immersi nella foresta selvaggia e intatta. Nel «folto del fogliame», in segreto.

Si può davvero trovare tutto ciò nel racconto del talamo dell’Odissea? Possiamo, in proposito, ripensare alle atmosfere de Il crudo e il cotto di Lévi-Strauss senza allontanarci troppo dal clima greco arcaico?

In effetti, Odisseo si salva sempre con il legno, il suo rapporto con il legno è sostanziale. Il cavallo risolve la guerra definitiva, la zattera lo riporta nel mondo dei vivi, il palo aguzzo lo libera dal mostro sanguinario e precivile. E il letto, in che senso lo salva?

Quel letto è la sua vita. Tutta la sua avventura gira attorno al ritorno alla casa e alla sposa, al ritorno al mondo di colei che porta il nome di Penelops, «Faccia di anatra selvaggia». Eppure sarebbe ancora troppo poco individuare il movente del viaggio nel solo desiderio di una lunga notte d’amore.

Troppo poco, nonostante che gli eroi del ciclo troiano appaiano ossessionati dal premio della donna, e nonostante che la grande guerra iniziatica si scateni, in ultima analisi, proprio per aggiudicarsi il possesso di un’eminente Signora di rango divino, una figlia del Sole, Helene.

Odisseo ha incontrato fra le più belle e affascinanti donne del mondo, ognuna gli ha offerto privilegi e transumanamenti, Calipso, Circe, Nausica, ed egli – un «piccolo uomo», secondo lo scherno del Ciclope – da ognuna è desiderato appassionatamente.

Ma l’amore che lo trascina e individua si rivolge a una dèmone speciale, carica di potere primordiale, con il nome di un’antica dea uccello.

Sotto questo aspetto, dunque, il ritorno è davvero una regressione in seno alla foresta degli inizi. Il movente è formidabile, ha la forza trascinante di un istinto animale. Di un’età dell’oro in cui gli animali sono dèi.

Non potevano competere con quel movente le alternative incontrate lungo la via, perché l’istinto di morte è più forte. Odisseo vuole morire. Penelope è la morte. La vita con Penelope è la condizione umana, mortale, la vecchiaia: in definitiva, la morte.

Tuttavia il racconto lascia trasparire che quella morte ha una sua perfezione. Il letto di nozze è nelle antiche tradizioni anche letto funebre ma questo letto di ulivo non è l’equivalente di una pira funebre che consuma. L’ulivo è la pianta sacra ad Atena.

Atena è la costante salvatrice di Odisseo, a lui soltanto aveva tolto la nebbia dagli occhi affinché potesse riconoscere gli dèi nel turbinio della battaglia. Infine è lei a preparare il ritorno del naufrago, a presiedere alle nuove nozze, ad aiutare e proteggere gli sposi distendendo su di loro una notte più lunga.

Atena, la dea uccello.

La grande dea dell’eterna giovinezza, la fanciulla nata senza madre, è la prima, la prima autentica. L’eroe si perfeziona nel rapporto con la potenza di Atena, essa è la donna alla quale egli resta sempre fedele e legato in modo essenziale.

Penelope non si esprime, nel caso finale di Odisseo, nella forma della grande madre uccello facente e disfacente, bensì nella forma di Atena, la salvatrice, la protettrice. Essa è ora la dea dell’ulivo.

La dea dell’albero della vita. Il viaggio di Odisseo è coronato dall’incontro definitivo con la parte vitale della donna.

Quell’albero, quel letto di nozze, sta piantato saldamente nella terra, non si può spostare, si tiene alle potenze terragne senza che da esse possa venire tagliato via, e nel tempo stesso è sacro ad Atena, è reso sacro da Atena. Una forza benevola, profondamente conoscitrice delle formidabili potenze ctonie e della loro tensione distruttiva, accoglie l’eroe e lo garantisce, lo immunizza e lo ripara nell’incontro più pericoloso di tutti.

Odisseo ha cercato la prova suprema. Nell’atto finale, ancora una volta, e per la volta più significativa, al suo fianco sta la dea della guerra e dell’intelligenza.

Nel poema aedico si è forse perduto il senso dell’ultima trappola in cui il viaggiatore eroico va a parare. La parte finale dell’Odissea, quella dell’eroe oramai di nuovo in patria, viene percepita come un’avventura a lieto fine ancorché travagliata.

Le cose non stanno così. Dovremmo uniformarci di più al sentire di Odisseo stesso, il quale si guarda bene dal precipitarsi e si maschera e cambia profondamente aspetto e mette in campo il meglio del suo repertorio di esperto delle malizie altrui. Ivi comprese le malizie della moglie, la tessitrice.

Itaca rappresenta un’insidia micidiale, addirittura più pericolosa delle altre che si è lasciato alle spalle.

Avrebbe potuto soccombere alla prova dell’arco, l’esito non era affatto scontato. Avrebbe potuto non ricordare bene la costituzione del letto, tutto sarebbe sfumato proprio nel passo finale e l’intero viaggio si sarebbe rivelato una beffa atroce: in fondo andò così al suo simile, al suo modello, a Gilgamesh.

Però Atena ha vigilato, consigliato, protetto. Non c’è eroe salvo senza la dea che salva.

Odisseo doveva saperlo, credo, fin da giovane, allorché si mise all’opera attorno a quell’ulivo sulla collina. Sapeva che bisogna tenersi alla terra, e che per non cadervi dentro occorre il preventivo favore di una dea speciale, nella quale la femminilità si sia trasformata e trasfigurata da madre onniavvolgente in sollecita amante guerriera.

Nella vicenda di Odisseo non appare alcuna alternativa tra civiltà della madre e civiltà dell’eroe. La vera madre non vuole uomini dappoco e imbelli, al contrario promuove figli coraggiosi e audaci, figli della intelligenza e dello spirito belluino.

Giuseppe Lampis

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Note

  • Dell’episodio del cavallo si riferisce nell’Odissea: nel racconto di Menelao a Telemaco giunto alla sua reggia per avere notizie del padre (IV, 271 e ss.), l’aedo dei Feaci canta la fine di Troia (VIII, 492 e ss.), Achille negli inferi che ricorda (XI, 523 e ss.). L’Iliade non ne parla dato che la sua azione si conclude prima della caduta della città, con la morte di Ettore.
  • Ampiamente nel II libro dell’Eneide nel quadro della dolorosa rievocazione degli eventi da parte di Enea alla regina cartaginese Didone.
  • Per la zattera con la quale l’eroe lascia Ogigia, l’isola di Calipso, vedi Odissea V, 243 e ss.
  • Per il palo – di legno di ulivo – con il quale viene accecato Polifemo, vedi Odissea IX, 319 e ss.
  • Per l’enigma del letto, vedi Odissea XXIII, 170 e ss.

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