Estetica e psicoanalisi (da àtopon Vol. II)

Comunicazione tenuta al XII Congresso
dell’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica (I.A.A.P.)
Chicago, 25-29 Agosto 1992

(il testo in inglese presentato al Convegno è disponibile a questo link)

Maria Pia Rosati

La psicologia analitica può trovare nel collegamento tra funzione trascendente ed estetica una possibilità di apertura che la aiuti ad allontanarsi da un modello scientifico riduzionista di stampo positivista. Ciò, del resto, conforme allo spirito che ha caratterizzato la ricerca di Jung, il quale ha avvertito l’insufficienza e la pericolosità di un’ermeneutica, quale quella freudiana, tendente a ridurre la plurivoca complessità della psiche e del suo senso profondo riconducendola, all’interno di un modello esplicativo totalizzante ed univoco, a pulsioni biologiche considerate come istanze ultime.

Con Jung infatti la psicoanalisi ha affermato la sua vocazione di disciplina ermeneutica instauratrice, che ciò muove alla ricerca del senso, senza mai pretendere di esaurirlo, ma rimanendo sempre aperta alla possibilità dinamica e trascendente del simbolo.

musaAl contrario del rapporto tra psicoanalisi e cosiddette scienze sperimentali, che si è rivelato sterile e riduttivo, il rapporto tra psicoanalisi ed opera d’arte ci sembra più fecondo in quanto strettamente connesso con la funzione dinamica di continua apertura del simbolo. Per tale ragione riteniamo possa essere di grande interesse riuscire a guardare al modello offerto dall’opera d’arte che, per la sua finalità senza scopo, per la sua irriducibilità a strumento e per il suo inviarci sempre all’indeterminato, offre una possibilità di apertura ontologica.

In una comunicazione ad un convegno tenutosi in Italia nel trentennale della morte di Jung (C. G. Jung 1961-1991. La scuola di Psicologia Analitica in Italia “ la funzione ermeneutica dello psicoanalista”) abbiamo affermato che lo psicoanalista si trova oggi soprattutto a contatto con la sofferenza psichica prodotta dallo spaesamento della vita quotidiana in cui il particolare domina sull’Universale, in cui l’interesse del singolo prevale sulla ricerca del senso del tutto ed in cui gli strumenti e le tecniche sono più significativi della meta da raggiungere. In tale contesto è di fondamentale importanza che il processo analitico non enfatizzi l’aspetto tecnico, ma si preoccupi di avere quella dignità ontologica che è propria del processo della vera creazione artistica.

Artista è infatti colui che si fa interprete del destino dell’uomo. Anticamente questo compito era definito “Ufficio sacro”. Tale concezione è ampiamente diffusa nel mondo greco.

Per Omero la sacralità dell’arte, soprattutto del canto dell’aedo è sottolineata dal fatto che in esso, alfine, sono risolte (nel senso etimologico di scioglimento e di fine) le sciagure umane.

Platone nel Fedro, uno tra i più belli e importanti dialoghi, vede nella divina follia che invade o inspira il poeta, una forza purificatrice capace di risanare e liberare da ogni male. Questa concezione è ancor meglio spiegata nel Simposio in cui viene sottolineato che la funzione propria dell’Uomo, come di ogni vivente, è quella di generare introducendo così l’immortalità nella vita mortale. E si genera non solo con il corpo, bensì anche con l’anima. Ma dice Platone: «è impossibile che ciò avvenga nel disarmonico e disarmonico è il brutto rispetto a tutto il divino; armonico invece il bello… E per quando la creatura gravida si avvicina al bello, diventa gaia e nella sua letizia s’effonde e partorisce e genera. Ma quando al contrario si appressa al brutto, si abbuia e nella sua tristezza si contrae e non genera; ma non potendo generare il feto soffre. Donde appunto nella creatura gravida e ardente di desiderio, grande è l’ansia per ciò che è bello, giacché esso libera chi lo possiede dalle gravi doglie del parto. Perché […] l’amore non è amore del bello [… ]ma di generare e partorire nel bello [… ] è desiderio di immortalità nel bene e [… ] amore è amore di immortalità » (Simposio, 206).

È d’altra parte a tutti nota la teoria aristotelica dell’arte come catarsi, come momento positivo dell’educazione dell’Uomo alla conoscenza e alla virtù (Poetica, 9, 1451 b1) in quanto viene rappresentata la realtà umana quale potrebbe essere secondo quelle strutture ideali che, invece, nelle vicende reali della vita quotidiana rischiano di confondersi e di perdersi.

Ancora più evidente il rapporto della poesia con il sacro nel mondo biblico ove accanto ai profeti tutto il popolo di Israele, in quanto popolo eletto, attraverso il canto esprime la speranza di salvezza e di liberazione. Perché il canto è espressione della sapienza, che è parola di Dio, il vero Autore, il vero Creatore e quindi il vero Poeta.

Abbiamo qui una concezione estetica che conferisce all’arte dignità e peso metafisico e che riconosce al bello la funzione ontologica di colmare l’abisso tra ideale e reale e ne fa uno dei caratteri costitutivi dell’essere.

Questa concezione è presente in Plotino per cui il merito dell’arte è di non limitarsi a produrre le cose sensibili, ma di aiutare l’uomo nel cammino (una sorta di “processione” prosodosaporroiaperilampsis) verso le cose ideali, modello degli enti naturali, che sono la vera realtà e la vera Bellezza. Per cogliere questa Bellezza non dobbiamo soffermarci alle apparenze dei corpi, che sono soltanto immagini e tracce della vera Bellezza, perché rischieremmo che l’anima nel tentativo di afferrare ciò che è fugace e temporaneo, e dunque pura ombra, si trovi ad essere anch’essa compagna delle Ombre.

«Come si vedrà questa bellezza inestimabile che rimane, per così dire, nell’interno del santuario e non procede verso l’esterno perché i profani la vedano? Colui che può vada dunque e la segua nella sua interiorità abbandonando la visione degli occhi e non si rivolga verso lo splendore dei corpi come prima. è necessario infatti che colui che vede la bellezza dei corpi non corra ad essi, ma sappia che essi sono immagini e tracce e ombre e fugga verso quella “Bellezza” di cui essi sono immagini Se si corresse loro incontro per afferrarli come fossero realtà, si sarebbe simili a colui che volle afferrare la sua bella immagine riflessa nell’acqua – come una favola, mi pare, vuol dimostrarci – ed essendosi piegato troppo verso la corrente profonda disparve» (Plotino, Enneade I, 8).

Dobbiamo invece, trasformando la vista corporea, ridestare quella facoltà che ognuno possiede, ma che pochi adoperano. Ma come ridestare questa vita interiore? come aiutare l’anima a vedere il Bello? innanzitutto attraverso la capacità di guardare in sé stesso. E le parole di Plotino ci danno un’immagine efficacissima del lavoro che la psiche dovrebbe compiere e nella quale potrebbe essere aiutata con lo strumento dell’analisi. Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro»(Enneade I, 9).

Non è qui il caso di fare una storia dell’estetica e delle concezioni dell’arte. Ma è comunque importante sottolineare la grande distanza tra una concezione arcaica quale quella omerica e biblica in cui è affidato all’artista un alto magistero civile e religioso e anche terapeutico (in quanto portavoce dell’essere permanente ed eterno) e la concezione dell’arte nel mondo contemporaneo.

Ananda Coomaraswamy ricorda che l’opera d’arte deve, secondo la lezione platonica, accordare e intonare i nostri modi distorti di pensiero alle armonie del cosmo affinché per l’assimilazione del conoscente con il conosciuto si possa attingere al meglio della vita concesso all’uomo dagli dei in questo e nell’altro mondo o, in termini induisti, compiere la nostra reintegrazione armonica nel cosmo attraverso l’ imitazione delle forme divine al fine di giungere, secondo le Upanishad a “divenire ciò che si pensa” Coomaraswamy conclude dunque che «l’arte vera consiste in una rappresentazione simbolica e significativa di aspetti di realtà che non sono visibili altrimenti che dall’intelletto» (Come interpretare un’opera d’arte, p. 19). La sua lezione, fondamentale per il nostro lavoro di psicoanalisti e di psicagoghi, sottolinea che c’è una sostanziale differenza tra le forme astratte dell’arte arcaica che egli definisce forme algebriche in cui una forma unica funge da molteplicità di cose diverse ed in cui è espresso un equilibrio di polarità tra fisico e metafisico e l’arte moderna. Questa viene definita sentimentale, estetica materialistica (in quanto l’espressione istintiva è preferita alla bellezza formale dell’arte razionale) una sorta di manierismo il cui scopo è di raggiungere un bello che sia decorativo e non quel bello che è il potere attraente della perfezione e che si raggiunge solo se si riesce a cogliere la vita nella sua interezza.

È dunque in questo senso che Platone nella Repubblica, solo apparentemente contraddicendo il suo pensiero precedente, bandisce le arti poetiche dal suo progetto di stato in quanto le considera nocive all’educazione e, quando esse si limitino ad essere pure arti imitative e non si propongano di aiutare le menti a passare dal divenire all’essere, dalle emozioni contingenti alla contemplazione delle Idee pure ed immutabili.

Dall’età della pietra ad oggi sarebbe dunque possibile scorgere un declino spaventoso della creatività intellettuale, inversamente proporzionato al progresso della tecnica.

L’arte contemporanea è per lo più strettamente collegata al mondo delle contingenze e dei vissuti personali e individualistici e dunque portatrice di elementi di finitezza, di precarietà, di instabilità. Non più riscatto dell’esistenza, dall’alienazione, dalla dispersione, dalla frammentazione della vita quotidiana per il raggiungimento di una bellezza che sia perfetta identità dello spirito con sé, si riduce a enfatizzazione della categoria dell’apparenza. Oggi nelle nostre scuole, di ogni ordine e tipo, come anche in molti altri contesti in cui si fa psicopedagogia, si parla di invenzione, di importanza delle capacità creative, dell’immaginario. Ma ancora una volta dobbiamo ricordare che imago deriva da imitor; l’immaginazione non è invenzione arbitraria ma imitazione, riattualizzazione, ripetizione senza fine di modelli esemplari. Immaginazione è vedere il mondo nella sua totalità, poter compiere lo sforzo per cercare di intuire l’essenza delle cose a livelli di riferimento più elevati di quelli empirici; così intuizione significa, secondo Sant’Agostino, un’intellezione che al di là della ragione dialettica spazia nel luogo delle ragioni eterne.

Così la contemplazione dell’artista deve poter portare ad un innalzamento del livello di riferimento dal piano empirico a quello ideale, dall’osservazione alla visione, dalla sensazione acustica all’udire puro. La disgrazia dell’uomo che manca di immaginazione è che egli è reso sterile dall’essersi tagliato fuori dalle sorgenti della realtà profonda della vita e dell’anima. E, come psicoanalisti dovremmo evitare, parafrasando Coomaraswamy, di invocare un demone, dove il metafisico invoca un daimon, e di definire libido, ciò che per l’altro è eros divino.

Questa distinzione tra il senso dell’arte del mondo moderno e quello della tradizione ci sembra debba essere ben presente allo psicoterapeuta. Ritengo, e mi sembra sia importante fugare ogni sorta di equivoci, che la creazione artistica possa essere fattore terapeutico e salvifico solo se riesce ad operare una trasformazione, una metanoia, se riesce cioè ad attivare quella funzione trascendente di cui ci parla Jung. Cioè se, grazie a un’ispirazione più profonda e più alta, il soggetto riesce a sottrarsi dall’inferno pietrificante, dilacerante, depressivo del quotidiano per mettersi in contatto con ciò che è al di là della situazione contingente ed urgente che gli crea affanno e dolore. L’arte ispirata da una volontà istintiva ed inconscia, mera espressione della passione, rimane legata alla sofferenza e al patire. Solo l’arte autentica che riesce, liberandosi dalle sofferenze della situazione contingente, a farsi espressione della realtà ontologica, può gettare luce su tragici periodi storici e dare senso ad assurde e incomprensibili vicende umane, riscattando e dando dignità alla sofferenza, offrendo il presupposto ermeneutico, la chiave di comprensione e quindi di sopportazione e di redenzione. Quest’arte può aiutarci a cogliere anche nell’effimero e fugace bagliore della bellezza terrena, la luce epifanica dell’essere ed in questo senso credo possiamo ripetere con Dostoevskij che la bellezza può salvare il mondo.

L’opera d’arte può essere terapeutica se ci permette di distogliere gli occhi dalle brutalità e dalle brutture della quotidiana lotta per la sopravvivenza per offrirci la visione di una realtà ideale in cui il senso della vita umana prevalga sul caos e l’assurdo della causalità : la bellezza è l’incarnazione del senso della vita immortale.

Non possiamo non ricordare il senso dell’icona russa, come visione liberatrice e salvifica, secondo le parole di Evgenij Trubeckoj (Contemplazione in colore, Milano 1977, p. 4). «Nel corso di moltissimi secoli ha regnato in questa terra l’inferno sotto forma di fatale necessità della morte e dell’assassinio». è questo – per Trubeckoj- l’apoteosi del regno del male, il regno della fiera che da sempre si presenta ai popoli sotto la forma dell’eterna tentazione: “tutto questo ti darò, se prostrato mi adorerai”. Ma l’antica arte religiosa russa èproprio l’espressione e il frutto della lotta contro questa tentazione alla quale gli iconografi risposero incarnando nelle forme e nei colori la visione di una diversa verità vitale e di una diversa concezione del mondo che abitava nel loro animo.

L’opera d’arte per curare, per essere terapeutica, deve poterci aiutare a leggere il significato più profondo della realtà (deve essere anche secondo la definizione di Heidegger messa in opera della verità ) e in questo senso essere creazione ed invenzione. La volontà dell’uomo, deve tendere ad essere creazione in quanto cambia la storia e l’uomo stesso, la società ed il mondo. Invenzione in quanto ci fa giungere (in-venire) al punto centrale, al nodo essenziale delle cose, svelandole, facendole scoprire. In questo senso è valido l’esempio di Goethe che diede alla sua biografia il titolo di Dichtung und Wahreit (Poesia e Verità ) sentendo che solo grazie alla poesia, cioè dando ai fatti isolati una forma simbolica, egli avrebbe potuto arrivare ad una più profonda conoscenza di sé e della sua vita .

In questo senso sono insigne esempio di creazione artistica le Confessioni di Sant’Agostino il quale riuscì a vedere nel proprio dramma personale la ripetizione e il riflesso del dramma religioso dell’umanità che attraverso la colpa e la caduta giunge alla redenzione.

La funzione simbolica è infatti la funzione fondamentale dell’opera d’arte. Ma symbolon, secondo la bella tradizione greca è la tessera hospitalis, il coccio diviso in due parti di cui una rimane all’amico ospitante che resta e l’altra all’ospite che si congeda affinché rimanga sempre tra i due un legame, nonostante la lontananza, e una speranza di possibile ricongiunzione. Un legame simile a quello che, secondo la storia raccontata nel Simposiodi Platone, lega un uomo a una donna, in quanto ambedue non sarebbero che le due metà dell’androgino originario che per la sua tracotante autosufficienza aveva provocato le ire di Zeus che lo aveva tagliato in due parti, sempre però desiderose di ritrovarsi e congiungersi nuovamente. L’uomo stesso è dunque nella sua essenza symbolon, frammento sempre nell’attesa di un’altra parte che lo completi e gli dia la felicità del tutto.

«Il linguaggio dell’opera d’arte – scrive Hans Gadamer – è contraddistinto dal fatto che la singola opera d’arte riesce a concentrare in sé, ad esprimere quel carattere simbolico che dal punto di vista ermeneutico appartiene a ogni essente. A differenza di tutte le altre tradizioni linguistiche e non linguistiche, essa è, per ogni presente, presenza assoluta e conserva al tempo stesso, ed in modo enigmatico, lo sconvolgimento ed il crollo di tutto ciò che è usuale. Essa non ci dice soltanto, in uno sgomento misto insieme di gioia e terrore, “questo sei tu”; essa ci dice anche: “tu devi cambiare la tua vita” (L’attualità del bello, Marietti, Genova 1986; ed. orig. Stuttgart 1977).

Nel convegno di Bougy St. Martin (La Quête du Sacré et sa Symbolique) tenutosi nel giugno 1992 in Svizzera abbiamo denunciato la situazione in cui rischia di trovarsi la psicoanalisi: di fronte all’ “inferno”(*).

Se infatti la psicoanalisi non si pone il compito di trasformare, grazie alla capacità della funzione trascendente propria del simbolo, la realtà presente ricollegandola alle situazioni archetipiche e quindi fondanti, rischia di trovarsi prigioniera e sommersa dagli stessi problemi, dalle stesse dinamiche che tenta di risolvere.

L’inferno del presente (e inferno è una situazione buia, senza speranza di futuro e di salvezza) può essere superato solo se l’animo può aprirsi alla dimensione del futuro, all’idea teoretica del futuro, a quel futuro simbolico che non è un semplice prospettarsi ciò che accadrà, ma un trascendere la realtà empirica e, proprio grazie alla capacità di negare i limiti imposti dalla realtà empirica, cioè grazie alla capacità di simbolizzare, proporsi una meta ideale, e aprirsi alla speranza di una nuova possibilità. E dunque, paradossalmente, proprio dalla negazione della realtà empirica può nascere una integrazione salutare ad un livello più alto, una svolta decisiva nella vita dell’uomo.

All’obiezione che la salute psichica di cui debbono occuparsi gli psicoanalisti non sia la salute dell’anima di cui parlano i teologi possiamo rispondere che la psicoanalisi, se non vuol rischiare di essere un’appendice della neurofisiologia, deve contemplare nel suo orizzonte di ricerca il senso della vita dell’uomo che a sua volta è strettamente connesso con la sua funzione ontologica.

Oggi che troppo spesso sembra sia negata questa funzione ontologica dell’uomo ed egli è divenuto uno strumento tra altri strumenti, una risorsa da gestire, sono pericolosamente diffuse le patologie generalmente considerate più gravi: le patologie narcisistiche con ipertrofia dell’ego, incapacità a tollerare le frustrazioni, frammentazione della vita.

Tali patologie non sono soltanto presenti tra le frange marginali della popolazione, ma tra le persone che hanno raggiunto le posizioni più significative ed importanti della vita sociale e che quindi sembrano meglio rappresentare la nostra stessa società.

Eforse possiamo augurarci che allo psicologo spetti il compito di aiutare ad operare quella profonda trasformazione, quella metanoia grazie alla quale ai sintomi del malessere e della disarmonia si sostituiscano i simboli vivi, pregni di significato, capaci di raffigurare l’ineffabile e lo sconosciuto, ma per ciò stesso vivificanti, rigeneratori e risanatori.

Maria Pia Rosati

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(*) A. Iacuele, M.P. Rosati, La psicoanalisi e l’inferno, in «atopon» vol.III 1994


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