Il suicidio e il codice dell’anima

Francesco Giordano

“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. 

( Dante Alighieri, Inferno, XXVI, 118-120 )

In questa esortazione vi è l’evocazione di un viaggio, oltre i limiti del conosciuto, le Colonne d’Ercole che, simbolicamente, può essere rappresentato da un viaggio entro il proprio Sé, come può essere un percorso analitico, al di là delle risposte prefabbricate fornite così spesso dal pensare comune e dalla realtà, oltre tutto ciò che appare così ovvio.

Ma come ricorda Sheldon Kopp: “ Non intraprendete il viaggio senza rendervi conto che la strada non è priva di pericoli. Tutto ciò che è buono è costoso e lo sviluppo della personalità è più costoso di ogni altra cosa, vi costerà la vostra innocenza, le vostre illusioni, la vostra certezza” ( Kopp,1972 ).Può essere un viaggio rischioso, quindi, ove è possibile perdersi e ancor più morire; è importante perciò affidarsi ad una guida esperta. Ma il concetto di viaggio lo ritroviamo anche in adolescenza, un viaggio in “acque turbolente” per approdare nell’età adulta, dopo aver lasciato i sicuri lidi dell’infanzia.Ed anche questo può essere un viaggio rischioso.

Illustrazione del canto XIII dell'Inferno di dante Alighieri
Illustrazione del canto XIII dell’Inferno di dante Alighieri

Un viaggio entro la propria anima può essere un’esperienza affascinante, ma anche pericolosa e, credo, che questa idea di viaggio la si può ritrovare anche nel suicidio, come drammatizzazione di un viaggio ove il lasciare acquista importanza, ove la meta perde sempre più i suoi contorni.Un viaggio ove l’anima e la realtà psichica sembrano avere la meglio sulla ragione del corpo, ove il dolore e la sofferenza,vissute nel proprio intimo, pongono le premesse per l’annullamento del corpo.Qui è l’anima a soffrire, qui è la sua realtà che così prepotentemente prende il posto della realtà comune, fisica e oggettiva.La tensione tra l’anima e il corpo acquista nel suicidio la sua più evidente cristallizzazione ( Hilman,1964 ).E’ ad un livello psichico, quindi, che va affrontato il suicidio, nella sua realtà all’interno dell’anima, una realtà pari a quella del corpo e, come dice Hilman:”…poiché tutte le analisi ruotano sull’asse della realtà psichica, il suicidio diviene l’esperienza paradigmatica di tutte le analisi, forse di tutta la vita”( Hilman,1964 ).


Èpossibile guardare al suicidio da diverse posizioni, il punto di vista della sociologia, quello della legge, quello della religione e quello della medicina.Ognuno di questi punti di vista si riconduce ad una posizione etica da cui deriva un giudizio nei confronti del suicidio.Per la sociologia, il suicidio è una minaccia alla continuità del tessuto sociale; la prevenzione del suicidio, che è in un certo senso la tecnica che ne consegue, tende ad impedire la lacerazione di quel tessuto.Per la legge, il suicidio per un lungo periodo è stato considerato un crimine. Sarà proprio la psichiatria a sottrarlo, in parte, all’influenza della legge, interpretandolo come evento patologico. Ma nella giustizia, che la legge vuole difendere, vi è un aspetto esterno, il rapporto con l’altro, ed anche un aspetto interno, il rapporto dell’uomo con se stesso; in tal senso, il suicidio rappresenta un’inevitabile interferenza tra una giustizia interna, garantita dalla libertà personale, ed una giustizia sociale, che garantisce il contratto sociale.Per la religione, scegliendo la morte, si rifiuta il mondo di Dio, il proprio legame con lui; si nega la propria creaturalità.Il suicidio rappresenta una ragione che si oppone a quella divina, una sfida a quella legge.Nel XIII canto dell’Inferno, Dante colloca Pier delle Vigne e gli altri suicidi in una selva di arbusti neri contorti e spinosi, senza traccia di vita, ed è in queste forme vegetali annodate e morte che le loro anime saranno prigioniere per l’eternità.

 

“Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da nessun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tosco:”
( Dante Alighieri, Inferno, XIII, 1-6 )

 

Qui è descritta, in uno scenario visionario, tutta l’ anormalità che, secondo il Poeta, è propria del suicidio, dell’atto per cui viene spezzato in maniera del tutto innaturale l’ immediato vincolo affettivo che lega l’uomo a se stesso, una anormalità tradotta nello spettacolo di una natura deformata ed antitetica ai dati dell’esperienza quotidiana.Un atto contro natura è quindi il suicidio, ma è un atto che trova nell’anima la sua realizzazione e la sua sfida nei confronti di Dio, perché è nell’ anima che Dio si rivela, un dramma che l’analista deve affrontare sul proprio terreno.

Per fare ciò egli non può chiedere aiuto alla teologia, poiché essa ha già fornito il suo verdetto, può solo cercare di “sciogliere” quella natura intricata, la selva dei suicidi, interrogando l’anima, ascoltandola, dando” parole al dolore”.Nella medicina, che ha ragione di essere essenzialmente per la difesa e la promozione della vita, poiché imperativo è per il medico combattere la morte o almeno procrastinarla, la morte, nei confronti della quale non ci sono rimedi, e ancor più il suicidio, rappresentano il grande nemico da combattere e abbattere.Il medico non può accompagnare il paziente in un’esplorazione della morte, può solo tentare di impedirla, o ritirarsi di fronte ad essa. Al medico moderno non è richiesto di interessarsi dell’anima del paziente, a meno che questa non interferisca con la guarigione del corpo. Il suo interesse, comunque, rimane marginale; non vi è ascolto per il linguaggio dell’anima, non vi è conoscenza del suo codice.“Egli vorrebbe ridurre al minimo l’interferenza della psiche nel tranquillo funzionamento di un sistema fisiologicamente sano” ( Hilman,1964 ).Alla medicina somatica, infatti, la morte non interessa. Si parla semplicemente di “exitus letalis”, poi l’unica emozione ancora da provare riguarda il momento dell’autopsia, in cui la diagnosi verrà confermata o smentita.La presenza della morte nella natura e il significato nella vita di un uomo non vengono menzionati né dai trattati di medicina, né durante le lezioni universitarie a cui lo studente assiste.


La posizione della psicoanalisi è profondamente diversa; è radicalmente discolpante, estranea ad ogni forma di giudizio: dissolve l’errore morale, dà spazio a quello che nella tragedia era il fato e che ora è definito inconscio.Nel suicidio si può assistere all’incapacità del soggetto a padroneggiare i propri affetti, o al trionfo del senso di colpa: il passo concreto che consegue ad una distruzione precedente ( Freud,1920 ), ( Hilman, 1964 ). Nella psicoanalisi vi è la sospensione di ogni giudizio sul gesto e, quindi, l’avvicinamento al suo significato interiore.Per l’analista è importante dare voce all’anima, all’anima ferita e tentare di “comprendere un suicidio meglio di colui che lo commette” (Hilman,1964 ), poiché per il suicida parte di questa morte e delle dinamiche che la precedono è sempre inconscia.Il suicidio esprime l’indipendenza dell’anima; ecco perché contrasta con i dettami della sociologia, della legge, della teologia e della medicina, per le quali l’anima, laddove considerata, deve essere sottoposta a regole definite.

Tuttavia, la determinazione verso il suicidio esprime anche una lucidità estrema, una qualche coincidenza con la verità tale da offrire una ragione anche alla “ più insana delle follie”.Ecco il compito della psicoanalisi nella sua funzione di ascolto: ridare una ragione alla determinazione alla morte. Ogni suicidio ha a che fare con la verità; “la morte è un modo di essere che l’essere assume quando c’è” ( Heidegger,1969 ). E questo essere può esprimersi attraverso la metafora di un viaggio, di un lasciare senza ritorno, forse l’anelito al rinnovamento?Forse…, sicuramente il desiderio di un cambiamento.

Simbolicamente, la morte come il tentativo di recuperare una diversa coscienza di sé, la morte come rinascita in un altro tempo, in un altro mondo…Il ruolo della psicoanalisi è, come gia accennato, l’ascolto, un ascolto partecipe, al di là di ogni forma di preconcetto. E’ l’anima in primo piano e il suo enigma che ci pongono continuamente in una posizione complessa “rispetto alla filosofia, alla religione, all’arte, e soprattutto nei travagli della vita quotidiana e della morte ( Hilman,1964 ).Ciò che la persona riporta nell’ora analitica, sono i travagli dell’anima, dell’anima non definita come “psiche”- termine già più scientifico – ma dell’anima intesa nella sua indefinitezza e nello stesso tempo complessità, con le sue “sfaccettature metafisiche e romantiche”, al confine con la religione ( Hilman, 1964 ).L’autoriflessione, quindi, come percorso che possa accomunare l’analista e il paziente sul significato profondo del suicidio, l’autoriflessione di fronte all’inconoscibilità della morte.Ripercorrere le tappe di un viaggio verso l’ignoto, dare a questo anelito un significato, comprendere i momenti originari di questo desiderio nello spazio di una riflessione, diversamente definiti nella nostra cultura ( pulsione di morte, essere per la morte ), che rimandano ad uno stesso momento costitutivo dell’identità ”…la meta di tutto ciò che è vivo è la morte…, gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi” ( Freud,1920 ).


Per il terapeuta interrogarsi sul suicidio o sulla sua eventualità significa, da una parte, interrogarsi sulle origini della cultura della morte di quel paziente e, dall’altra, definire il proprio sapere sulla morte.“L’esperienza della morte offre ad ogni vita l’apertura nella tragedia” ( Hilman,1964 ); per il terapeuta si intende non soltanto una partecipazione emotiva, ma anche entrare a far parte, interagire con il dramma esistenziale del paziente.La radice della parola terapeuta, indica “colui che porta e presta attenzione, allo stesso modo di un servitore, uno a cui tenersi stretto, dal quale si è difesi. Il terapeuta si trova a dover elaborare una doppia possibilità di collocazione nella relazione con il paziente; da una parte, quella di condividere le ragioni del paziente, la partecipazione emotiva all’evento, con la tentazione di pensare che per capire veramente il paziente, si debba morire con lui; dall’altra, la necessità di analizzare quelle ragioni sullo sfondo di dinamiche interori, che devono essere comprese anche sulla base di un sapere.A determinare queste due posizioni contribuisce, in maniera evidente, la tonalità affettiva del rapporto, il transfert.Il transfert come una sorta di “destino congiunto” che accomuna il terapeuta e il paziente, una forma così unica di rapporto, attraverso il quale il dramma di un simile atto trova la sua espressione, laddove le parole sembrano non avere più significato. Perché il suicidio è una possibilità dell’esistenza, perché il suicidio non deve essere negato come scelta, perché questo gesto estremo non rappresenta solo una forma di uscita dalla vita, ma anche una possibile entrata “fantasmatica” nella morte, nella consapevolezza di un “essere per la morte” che, anche se appare inelaborabile, può essere ricondotto nella dimensione del tragico, all’aspirazione ad un rinnovamento interiore, originario ( Hilman,1964 ). Da una parte, quindi, un gesto non facile da comprendere, una forma di “acting” estremo; dall’altra, lo spazio per una riflessione, per una elaborazione di quel gesto, di quel viaggio nei territori di nessuno, oltre la comprensione umana.Il suicidio va considerato dall’interno, entro i confini dell’anima, letto secondo il suo codice.Non va studiato dall’esterno, secondo le descrizioni scientifiche, le classificazioni.“La psicologia del profondo ha riscoperto l’anima e l’ha situata al centro delle sue esplorazioni” (Hilman, 1964 ). L’apertura al tragico, l’ascolto dell’anima ferita, l’affidarsi al proprio Sé da parte del terapeuta, permettono di sciogliere il proprio paziente dalla necessità di vivere fino in fondo la tragedia e, attraverso la rappresentazione, far emergere, dentro di lui che vuole morire, l’eroe che con questa morte vuole riaffermare la propria sopravvivenza.

“Non ci si uccide per amore di una donna. 
Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, 
ci rivela nella nostra nudità; miseria,
infermità, nulla.
( Cesare Pavese, 25.3.1950 )

 

Èl’anima ferita, è l’uomo nella sua natura più terrena, nella sua imperfezione.
È il vivere la vita come se fosse una sconfitta, dove il vivere è dolore, dove il vivere è così contrario all’ esistere.Il corpo vive, l’anima esiste…A volte, purtroppo, la vita e l’esistenza non coincidono, il medico, in genere, cura il corpo che vive, che può ammalarsi e, quindi, vivere “male”, ma, come già detto, non si occupa dell’anima, che per esprimersi ha bisogno di esistere. Quando le ferite si fanno più profonde entro l’ anima, può diventare impossibile esistere ed è allora che la vita diviene una nemica, diviene dolore; allora il corpo e l’anima parlano due lingue diverse, i codici che li caratterizzano non permettono più di comunicare… L’anima per liberarsi del dolore, per poter esistere, deve lasciare il corpo, territorio della vita biologica, per cercare altrove il proprio “territorio”.

In fondo non viene detto che “il corpo alberga un anima immortale”? Quindi,anche in questa frase si sottintende la presenza di due nature unite, ma nello stesso tempo separate, con destini differenti. E’ proprio nel dolore, allora, che l’anima cerca la sua strada, è nell’ombra e nell’oscurità. Il medico cura il corpo nella luce meridiana della scienza, con i suoi strumenti precisi, secondo una teoria riconosciuta, secondo precetti ippocratici; egli dà significato ai sintomi, interpreta i segni. L’ anima è imperfetta, difficilmente interpretabile, ferita, in ombra; il suo codice è oscuro, il suo dolore è relegato entro la patologia astratta della “psiche”, patologia così prossima al “territorio” della colpa, da isolare, da allontanare, da sedare, di cui vergognarsi…Questo dolore è l’espressione della nostra limitatezza, appunto, un’anima imperfetta entro un corpo mirabile.Così separati, la psiche e il soma, o meglio, l’anima e il corpo finiscono per comunicare sempre di meno Non si prova in genere vergogna per una polmonite, ma la si può provare per una depressione.

Si deve “reagire”, “essere forti”; l’anima va zittita, addormentata, o peggio, “scossa”; la medicina deve trionfare, portare la sua luce anche nel “buio” della mente – altro termine asettico per non dire anima –eppure, come dice Shakespeare “noi siamo fatti della stessa natura dei sogni e circondati da tenebre”.
L’ analista è colui che ascolta il racconto dei sogni e attraversa quelle tenebre, senza la presunzione di dover portare la luce e la “ragione”.
Il dolore dell’anima necessita di una attenta interpretazione, ma ancor prima di un ascolto; quel dolore non ha un tempo, uno spazio definito, è atemporale :è ovunque, sfugge all’obiettività clinica.
Il linguaggio dell’anima – il suo codice – è vicino al linguaggio del mito, a quello della poesia, dell’arte più in generale. E’un linguaggio simile a quello dei processi della creazione, dell’ispirazione, è un linguaggio eterno che travalica il tempo, che si fonde con questo mistero che ci circonda, al quale cerchiamo di dare significato.

 


Bibliografia

Freud, S. ( 1920 ), Al di là del principio di piacere, OSF, Vol. 9, Boringhieri, Torino, 1977.

Heidegger, M. (1927) Essere e tempo, Tr. It. Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1969.

Hilman, J. ( 1964), Il suicidio e l’anima, Tr. It. Astrolabio- Ubaldini, Roma, 1972.

Kopp, S. (1972 ), Se incontri il Buddha per la strada uccidilo, Tr. It. Astrolabio- Ubaldini, Roma, 1972.


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