Natyakala Incontro con le tradizioni teatrali e musicali dell’India

Centro Culturale Zitelle 95 (Giudecca, Venezia) – Marzo-Giugno 2012

 Breve nota introduttiva

In India, musica, danza, teatro, pittura e poesia sono considerate arte divina e si fondano sulla tradizione vedica tramandata negli antichi testi sacri, nei miti, nei poemi.

Si dice che la musica dell’India sia una delle più antiche ininterrotte tradizioni musicali del mondo: fin dal suo nascere è strettamente collegata al pensiero religioso e al culto, essenzialmente un culto sacrificale, che è cardine della civiltà vedica e orienta ogni aspetto della vita. I canti sacri, risalenti all’epoca vedica, nacquero dall’illuminazione dei primi rishi, immersi nel tapas, assorti in ascetica ardente meditazione. Il ritmo della musica che accompagnava gli inni nel culto sacrificale doveva accordare il cosmo, il divino e l’uomo e portare l’uomo a sollevarsi per raggiungere il divino (perché è detto che chi non è un dio non può pregare un dio).

Shiva, Brahma e Vishnu (la sacra Trimurti) sono considerati i primi musicisti.

shiva_danzaShiva ha tra i suoi nomi principali quello di Nataraja, ‘Signore dei danzatori’ o ‘ Re degli attori’. Il cosmo è il suo teatro e molte sono le sue danze, tutte manifestazioni dell’energia ritmica primordiale che si declina ‘nella danza corale delle costellazioni, nei pianeti e nelle stelle fisse, nel loro intrecciarsi e avvicendarsi e nella loro armonia ordinata’ (Luciano di Samosata, de Saltatione, 7). Nella danza serale, nella regione dell’Himalaya Shiva è accompagnato da un coro divino: “Sarasvati suona la vina, Indra il flauto, Brahma tiene in mano i cembali che scandiscono il tempo, Laksmi intona un canto, Visnù suona il tamburo e tutti gli dei stanno intorno”. Le rappresentazioni più note di Shiva raffigurano il dio danzante con quattro mani, la chioma intrecciata e ingioiellata, con le ciocche che si agitano nella danza, ornato dal cobra e dal teschio di Brahma. A. Coomaraswamy riassume i tre significati essenziali della danza di Shiva: il primo è che essa è l’immagine del Suo gioco ritmico come origine di ogni movimento nel cosmo; il secondo è che lo scopo della danza consiste nel liberare le innumerevoli anime degli uomini dalla trappola dell’illusione, il terzo è che il luogo in cui avviene la danza, Chidambaram, il centro dell’universo, si trova nel nostro cuore. Non può non sorprendere la grandezza di questa concezione sintesi di scienza, religione e arte. Riprendendo ancora le parole del grande indologo: nella notte di Brahma la natura è inerte… (Shiva) si desta dalla sua estasi e, danzando, invia attraverso la materia inerte onde pulsanti di un suono che provoca il risveglio, ed ecco che la materia danza prendendo la forma di un’aureolola intorno a Lui. Danzando egli ne tiene vivi i molteplici fenomeni, Nella pienezza del tempo, sempre danzando, egli distrugge con il fuoco tutte le forme e i nomi e concede nuovo riposo (cfr. La danza di Shiva, Adelphi 2011).

Gli inni del “Rig Veda” e del “Sama Veda” sono gli esempi più antichi di testi musicati in cui vengono descritte le modalità di esecuzione e di intervento del cantore durante il rito.

La concezione indiana del ritmo, diversamente da quella occidentale caratterizzata dalla linearità ritmica, ha sviluppato fin dalle origini, in armonia con il pensiero metafisico indiano, una visione ciclica del ritmo per cui le varie strutture ritmico-metriche sono concepite per ripetersi in modo continuo, seppur attraverso numerosissime e complesse varianti, secondo un tala, “ciclo ritmico”.

La musica indiana (a differenza della musica occidentale che è tonale) è essenzialmente modale, in quanto si fonda sullo sviluppo e sull’elaborazione di un modello variante di scala musicale dove le note sono selezionate e poste in posizione gerarchica fra loro, chiamato ragaRaga (colore, passione) è l’anima della musica indiana e con grande forza evocativa colora di passione la mente dell’ascoltatore sì da produrre la sensazione di un intenso vissuto. Nel medioevo ad ogni ora, giorno e stagione, ad ogni evento temporale come l’aurora o il tramonto o la pioggia, ad ogni stato d’animo o sensazione come l’amore, la tristezza, l’attesa corrispondeva un raga. Ogni raga evoca un rasa, parola dai molti significati (letteralmente ‘aroma, sapore’) che corrisponde al sentimento che pervade ed anima l’opera drammatica, sì da essere considerato nel Bharatiya Natyashastra, (un imponente testo sulla musica, danza, arte drammatica e belle arti datato al V° secolo d.C.) elemento essenziale del dramma e della danza. Le tre componenti del concetto musicale indiano (voce, musica strumentale e danza) concorrono tutte all’evocazione di un particolare rasa. Nove i rasa legati alle principali emozioni sono: Shrinagara (amore, erotismo, sensibilità per la natura),
 Hasya (gioia, allegria),
 Karuna (dispiacere),
 Raudra  (rabbia, collera),
 Veer (eroismo, dignità), Bhayanak (terrore), 
Bibhatsa (disgusto), 
Adbhuta (divertimento), 
Shanta   (serenità, calma). Il Rasa Shrinagara, il rasa dell’amore, è considerato il più importante ed è chiamato il Re dei Rasa e ci evoca l’incanto che emana dal biblico Canto dei cantici. Il rasa provoca un’esperienza estetica indipendentemente da ogni contenuto, che Abhinavagupta paragona a “…un fiore nato per magia, senza alcuna relazione spazio-temporale con la vita pratica che lo precede e che, dopo di essa, torna a ricostituirsi”. Il rasa eleva al di là dello spazio, del tempo, della causalità quasi ad interrompere il samsara, il mondo del divenire, condizionato dalla legge di causa ed effetto e dallo scorrere del tempo e induce senso di beautitudine, riposo, pace, allontanamento di ogni cura, catarsi. Katharsis è, secondo Platone una purgazione e purificazione sacrificale, liberazione dell’anima immortale dalle forme mortali (Fedone, 67 d-e), che implica un essere fuori di sé (un essere atopon) che però è allo stesso tempo un essere in sé, nel proprio vero Sé. Come ci spiega Ananda Coomaraswamy (cfr. Il grande brivido) in India l’esperienza catartica dell’arte deve portare il lettore e lo spettatore ad essere rapito, strappato alla sua personalità abituale e, come in ogni rito sacrificale, a divenire un dio per la durata del rito e tornare in Sé solo a rito compiuto, quando l’epifania giunge al termine e il sipario cala. Perché in origine tutte le operazioni artistiche erano dei riti, e lo scopo del rito (come dice la stessa parola greca teleté = rito, iniziazione, mistero) è di sacrificare l’uomo vecchio e di farne nascere uno nuovo e più perfetto.

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La serie di eventi che si sono svolti a Venezia sono stati un ponte transculturale che, attraverso esperienze artistiche dal vivo, seminari di danza, di musica indiana, di musica classica indostana, laboratori coreografici e incontri sui teatri Orientali, ha contribuito a diffondere in Italia la cultura e le arti dell’India e a far avvicinare un pubblico di non specialisti al suo ricco patrimonio teatrale e musicale.

Riportiamo da un convegno sulla danza indiana la relazione di Nicola Licciardello che ripercorre la storia della nozione di ritmo nella filosofia occidentale e orientale.

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