Simbolica ed estetica in epoca di secolarizzazione (da àtopon Vol. III)

Comunicazione tenuta al II Convegno Internazionale di Psicoantropologia Simbolica e Tradizioni Religiose, Palazzo Baldassini, Roma 24 Aprile 1993

 Paolo Miccoli

Un diverso modo di sentire

Gli dei non camminano più per le vie del mondo in compagnia degli uomini.

Annunciazione Icona russa del 15° secolo, Galleria Tret'Jakov - Mosca
Annunciazione
Icona russa del 15° secolo, Galleria Tret’Jakov – Mosca

I simboli, romanticamente teorizzati da Schelling, non appaiono più idee visive nell’epoca del disincanto del mondo e della totale razionalizzazione della vita. Una diversa logica informa l’esistenza, cioè l’opera della mente e la fatica del braccio, in epoca di specializzazione e di lavoro diviso. Tale logica, che si configura come ideologia del funzionalismo e dell’efficacia economica e sociopolitica, ha determinato la tipica Weltanschauung della società borghese e industriale.«L’uomo moderno, desacralizzato e mondano, vive le direttive del simbolo come smorfia del silenzio, che fa la sua comparsa dietro una vetrina», lo ha dichiarato incisivamente Ernesto Grassi1.

Nonostante il radicale mutamento di sensibilità delle presenti generazioni, l’arte continua a vivere di vita propria a dispetto delle riserve e delle censure espresse da Adorno e da Benjamin dopo l’Olocausto di Auschwitz e Dakau. Non fosse altro che come gioco gratuito, capace di resistere e opporsi utopicamente alle imposizioni del potere politico e di proclamare la sovrana libertà dell’immaginazione poetica nei confronti della burocrazia onnipervadente. L’arte è tanto più genuina, quanto meno serve e si asserve a scopi utilitaristici. Il poiein artistico è atto creativo e rivelazione della capacità immaginativa dell’uomo nello spazio del simbolico.

L’opera d’arte si compendia nel simbolo, manifestazione vivente e balenante dell’imperscrutabile, o anche “lebendige Gegenwart” (Goethe), giustamente connotato da qualcuno come transitività trattenuta e configurazione opaca tra segno e significato2.

Il simbolo, tuttavia, chiude la propria circolarità effrangente solo se include l’uomo-interprete dell’elemento ‘parusiaco’ che si annida tra espresso e alluso, sia esso interprete l’artista, il fruitore d’arte o il critico, senza trascurare affatto l’uomo comune che pur ha un suo spiccato istinto per il bello. Ed è opportuno specificare che l’arte è una pratica creativa di appropriazione della presenza delle cose e dei sentimenti sotto forma di rappresentazione (simbolica), cioé di forma visiva ed emotiva del bello, precisamente per il fatto che essa è gesto simballico (da syn-ballein = mettere insieme), metaforico e metamorfico dell’uomo intenzionale che ha la capacità di ‘distanziarsi’ rispetto alla realtà che lo attornia e lo include, portando a debita focalizzazione immaginativa e spirituale il plesso segno-immagine-significato.

Il nostro secolo ha il merito di aver portato a matura coscienza riflessa l’universo simbolico che l’uomo istituisce mediante arte e cultura, raccogliendo ed esplicitando ancor più la straordinaria eredità dell’estetica romantica, frastagliatasi, nel Novecento, in molteplici espressioni semantiche, in senso artistico e filosofico3.

Lo stesso Ernst Cassirer, assertore dell’uomo animal symbolicum in chiave di trascendentalismo kantiano, è stato sottoposto a revisione e a integrazione di dialogo filosofico, a partire dall’urgenza semantica di tradurre l’asserito universo simbolico dell’humanum da forme a priori della mente a contesto di significati, di cui occorre venire a capo con operazione ermeneutica e in vista di una memoria totale che metta conto dello specifico della creazione spirituale soprattutto in campo estetico e mitologico4. Una cosa resta appurata al presente: caduto l’imperialismo della logica concettuale hegeliana e dichiarato insufficiente il discorso semiotico e strutturalista in ordine alla comprensione dell’evento poietico della poesia e dell’arte, ritorna a considerazione privilegiata il simbolo che, da Kant ai pensatori odierni, si impone come enigma che dà adito al molto pensare (viel zu denken veranlasstCritica del giudizio, § 49).

E, tuttavia, il simbolo, nell’accezione estetica e poietica di oggi, non risulta essere più teofania o cifra allusiva di regioni teologiche o di metafisiche creazioniste, suscitando come per l’addietro estasi o stupore della ragione, dacché si è decretata la morte di Dio (Nietzsche) e la morte dell’uomo (M. Foucault), nell’approdo nichilista della cultura (o pseudocultura) odierna. L’esito secolaristico della cultura novecentesca mette conto di un universo antropocentrico che, smarrito l’inconcussum fundamentum dell’Ordine o della Finalità di tipo metafisico, si consegna al gesto volontaristico ed extramorale dell’uomo utopico che avanza all’insegna del gratuito, del tragico, della trasgressione o della mistica terrestre, con non poche contraddizioni di sentimento.

Le figure della coscienza esistenziale dell’uomo odierno sono eloquenze metamorfiche, transiti a un diverso modo di gestire la propria vita rispetto al contesto dei valori e delle abitudini del mondo di ieri.

Stando alla diagnosi di Italo Calvino, si ha l’impressione di fondo di trovarsi catturati da un processo di disgregazione e di frantumazione dell’unità sintetica della forma. Il momento analitico e critico prende il sopravvento su quello sintetico e apologetico, dialetticamente o ermeneuticamente conquistato. La spettroscopia epistemologica prevale sulla fotosintesi poetica5.

Questo significa che venuto meno l’orizzonte plurisecolare del platonismo cristiano, cioè quel reticolo di idee e di valori che informavano l’esistenza ordinata e gerarchica della cultura classica e rinascimentale, si è imposto il prospettivismo degli errori necessari, ossia di quegli erramenti strutturali all’essere storico in funzione della vita e delle illusioni di cui dobbiamo rivestirla per continuare a sopravvivere, nella linea ermeneutica che da Nietzsche perviene a Bataille, Blanchot, Bachelard, Derrida, ecc6.

Nel contesto dell’ “epoca Pirandelliana” che ci contrassegna, laddove l’artista non si volge a organizzare stancamente segni, emozioni e materiali vari, e non si arrende a ritrarre l’immediatezza dei fenomeni larvatici e disarmonici nell’elementarità della materia esplosiva, muove, ci sembra, in direzione di una forma di trascendenza deviata che si consegna alla categoria del Sublime tragico.

Un Sublime di segno negativo

L’arte, dimora ‘altra’ dell’umano, dice riferimento alla produttività simbolica dell’immaginazione, al dominio patico-percettivo della forma che è, di natura sua, segno visualizzato (anche nell’analogia dell’acustico, del tattile, ecc.) e distanziante7. La rivelazione della forma artistica sta nella pregnanza del simbolo tautegorico, più che nell’evidenza del giudizio logico. Il simbolo, qua tali, è promessa d’altro. Come il dio eracliteo, che ha dimora a Delfi, «non dice e non nasconde, ma accenna» (Fr. 86) e lascia intuire!… Tutto sta a corrispondere agli accenni divini. Il musico, il dialettico e l’amante, nella tradizione platonica e plotiniana, sono gli interpreti appropriati dei Winke divini. Questi personaggi sono tali in quanto poeti. O, meglio, lo erano una volta; oggi non più giacché «fuggiti sono gli dei / né i venienti appaiono ancora» (Hölderlin).

Nella dürftige Zeit del divino e del sacro come ci si può insediare umanamente tra Stofftrieb e Formtrieb? Certamente non più in atteggiamento di gratificazione e di quiescenza contemplativa alle prese col bello classico e con l’arte ornamentale e retorica, ma con tensione creativa verso l’inusitato, il sorprendente, il sublime, il tragico8. L’arte continua a conservare, malgrado tutto, la sua connotazione caratteristica di un fare creativo, di un «récit visionnaire» (H. Corbin).

Ma che cosa essa ‘mostra’ di originale in un’epoca di secolarizzazione? Nient’altro che l’origine del e nel fenomeno mondano. E questo avviene, come sottolineano a modo loro Baudelaire e Benn, nonché Merleau-Ponty, attraverso la frattura della visione normale e grazie al fare dell’artista che esterna singolarmente la propria soggettività estetica. Per questo le poetiche del Novecento finiscono per confluire in una sorta di filosofia della storia, dal momento che l’artista, liturgicamente assoggettato al suo gesto espressivo, intende suscitare comportamenti e reattività sociopolitici, oltre che emotivi, nel pubblico, una volta lasciatosi alle spalle il convincimento di essere demiurgo della bellezza divina nel mondo degli uomini9.

Nell’espressionismo, nel dadaismo, nel surrealismo, nella Ready-made, nella Pop-Art e nel Suprématismus di Karl Malévic non c’è più traccia della grazia quieta, operosa, familiare, intima. Un sublime anarchico tiranneggia e scuote la sensibilità di chi guarda o ascolta. Queste correnti d’arte hanno preteso di aprire un capitolo sconcertante di ontologia abissale ed evenemanziale, in cui il sublime si identifica e si camuffa col destino luciferino e destabilizzante di esperienze vissute.

Ragion per cui – come osserva Walter Benjamin – l’arte moderna è vera elevazione dell’apparenza ad essenza10. Perduto Dio, dissestato il mondo, resosi oltremodo problematico l’uomo stesso, l’avventura poietica del ‘900 diventa distruzione della forma e seduzione del dionisiaco elementare e vitale, per poco che si pensi a  La Metamorfosi di Kafka, a Guernica di Picasso, al teatro dell’assurdo di Beckett, ai racconti stregati di Hoffmansthal, agli uomini-rinoceronti di Jonesco, e via dicendo.

Questi tá½¹poi dell’arte del nostro secolo sono documenti fin troppo emblematici di un’antropologia simbolica che attesta il dramma della coscienza disorientata dell’uomo ateo e nichilista, del freddo “uomo senza qualità ” (R. Musil). Confessa tale dramma nelle guise confacenti all’arte, cioè con il produrre sommovimento o stravolgimento nella sensibilità umana. Ne resta scossa e sconcertata anche la ragione. L’uomo torna a proporsi questione a se stesso, risospinto al “regno delle Madri”, alla “memoria del sottosuolo”, alle regioni dell’orrido e dell’inquietante, ma altresì verso una dimensione di sacro sui generis.

Esemplificazioni di antropologia simbolica

William Hogarth - The Bathos. 1764
William Hogarth – The Bathos. 1764

Sprofondata nella «pura notte dell’infinità » (Hegel), l’arte postmoderna avanza all’insegna del Dio perduto, in quell’«abisso di nulla in cui sprofonda ogni essere» (Hegel). C’è il rifiuto della forma compiuta o redenta, giacché l’estetismo volontaristico mette capo ai fremiti dell’istinto vitale eslege. Il destino dell’uomo viene trascritto in termini di maschere squallide e di metafore repellenti.

Nello Zarathustra nietzscheano si rinvengono le famose metamorfosi del cammello, del leone e del fanciullino cosmico che interpretano il percorso umano dal già -stato al così-sarà. Nella stessa opera ci si imbatte anche in maschere orribili e disumane che inchiodano l’uomo pigro alla falsa coscienza delle certezze filistee e lo stigmatizzano come affetto da spirito di gravità. Zarathustra scarica la sua collera contro l’umana mostruosità dei Fachmenschen:

«Io vedo… uomini cui manca tutto, senonché hanno una sola cosa di troppo – uomini che non sono nient’altro se non un grande occhio o una grande bocca o un grande ventre o qualcos’altro di grande, – costoro io li chiamo storpi alla rovescia»11.

Con la perdita del centro, l’arte si esalta bacchicamente nella dismisura dell’umano e del caotico. Hans Sedlmayr ha raccolto nelle seguenti tesi le tendenze fondamentali della poietica del XX secolo, le cui radici vanno ricercate, geneticamente, nel romanticismo tenebroso: 1) separazione delle sfere pure (purismo, isolamento), 2) scissione dei contrari (polarizzazione), 3) tendenza all’inorganicità, 4) distacco dal suolo, 5) tendenzaverso la sfera inferiore, 6) abbassamento dell’uomo, 7) eliminazione della differenza tra ‘sopra’ e ‘sotto’12.

Una rapida documentazione di queste tesi porta al labirinto stregato e alla potenza di irrealtà che, al dire di Worringer, sono «conseguenza di una grande inquietudine provata dall’uomo»13. Inquietudine caotica già presente nell’incisione ancora baroccheggiante di Hogarth, The Bathos (1764), ma più consistentemente tematizzata nel segno dell’orrido e dell’infernale in La commedia della morte di Rodolphe Bresdin, dove la Natura panteistica dei romantici trasmuta «in un lugubre simposio animato da alberi che fruttificano scheletri, da rive desolate gremite d’ossa e di immondi animali, di antri oscuri in cui l’uomo giace»14.

Nell’arte postmoderna il conturbante silenzio degli infiniti spazi che induceva Pascal a un’esperienza di fede evangelica più consistente e genuina, spinge in direzione opposta, ossia nell’agorafobia spirituale del rapportarsi ‘arcaicamente’ e religiosamente alla percezione del mondo esterno, come rileva Worringer.

Il mondo, ateisticamente frequentato, induce l’artista a cimentarsi con l’ignoto. Un ignoto che angoscia con la mostruosità di Scilla e Cariddi, con l’Oceano-serpente, con «l’acqua che divora, il grembo della madre che smembra, l’abisso della morte, la balena, il mare… »15. Alla perdita della luce e del volto conseguono le tenebre e le maschere spettrali. Esempio ne sia il Mondo alla rovescia di Grandville, dove si attesta che «tutto può trasformarsi in tutto, cose morte possono fondersi come forme umane e prendere, si può dire, da esse nutrimento»16. Analogo discorso si potrebbe svolgere a proposito di Trasformazioni del sogno, un altro foglio dello stesso pittore.

La consistenza della realtà cede il posto alla leggerezza illusionistica del sogno, dove tempo e spazio sono deritmati. Nella pittura visionaria di Redon, teste «pullulano nell’aria come minute gocce d’acqua», dove occhi senza testa «galleggiano come molluschi» o «vagano liberamente nel cielo», ovvero «compaiono improvvisamente tra i fiori» o «ridono bizzarri e mostruosi sulla testa di un ciclope»17Lo spettro del mare e la Paludis putredinis sono la visualizzazione della Nausea e della metafisica nichilista di Sartre, se si recepisce la pittura di Alfred Kubin come poietica “senza nome e senza forma”.

Se, poi, si vuol tirare in ballo il romanzo, basti accostare il Doktor Faustus di Th. Mann a Gli Ossessi di Dostoevskij e si avrà un modulo di analogia diabolica tra Adrian Leverkühn e Stravrògin. Rileva L. Bergel: «Non credendo in alcun valore che possa servir da guida, la creazione fredda, metodica del caos è il loro mezzo per alleviare la noia del vuoto in cui vivono. Per Stravògin questa disgregazione sistematica, l’abolizione di ogni distinzione, assume la forma di una deboscia calcolata sperimentale. Adrian Leverkühn dal canto suo nelle composizioni attua una corrispondente disumanizzazione artistica, altrettanto sistematica e accuratamente regolata quanto la distruzione da parte di Stravrògin del suo io morale. La musica di Leverkühn è, come dice il Demonio che è un conoscitore in questo campo, nichilismo aristocratico»18.

Su questa simbolica del disumano e del nichilismo viene innalzato anche il vessillo della giustificazione teorica, che è irrisione dello stupore metafisico aristotelico e della gioia spirituale cristiana di fronte al mirabile spettacolo della natura che rivela l’infinita saggezza del Creatore. Scrive, infatti Karl Malévic in un manifesto del 1920 intitolato Dieu n’est pas déchu: «E siccome non c’è nulla di sorprendente che Dio abbia costruito l’universo a partire dal nulla, allo stesso modo l’uomo costruisce tutto a partire dal nulla della sua rappresentazione»19. La domanda stupefatta di Leibniz, di Schelling e di Heidegger: “Perché esiste qualcosa anziché il nulla?”, riceve, in Malévic, la risposta più radicale di un’estetica secolaristica di grado zero. Davvero lo spirito si è assiderato, stando all’ammonimento vichiano nei confronti della ragione tutta dispiegata e atea.

Riportare la bellezza nel mondo

Destino, Morte, Trasfigurazione sono categorie fondamentali dell’estetica romantica. Tali categorie condizionano una vera e propria Sinnesanderung (così Hegel intende e traduce la metanoia evangelica in Das leben Jesus).

È doveroso aggiungere che l’estetica romantica non è a senso unico: essa conosce la via della luce come quella delle tenebre, l’anelito al divino e l’ardimento del diabolico. In questa sede il nostro proposito si è rivolto prevalentemente al percorso ctonio, siderale, cimmerico, nichilista di una delle tendenze romantiche, registrando documenti e moniti, senza peraltro condividere l’infelice e malcompresa “morte dell’arte”, di hegeliana memoria. è pur vero che secolarizzazione, ateismo e nichilismo volgono in direzione dell’azzeramento di convincimenti e comportamenti tradizionali. Ma tale orientamento culturale, se per un verso evidenzia problemi gravi e inaggirabili del presente, per altro verso non costituisce esito unilaterale e irreversibile della Neuzeit.

È possibile, infatti, operare una torsione energica nei confronti di tutto ciò che costituisce moda asservita ai meccanismi di propaganda dei mass-media. Per operare tale torsione nei confronti dei vari sperimentalismi dell’arte novecentesca occorre realizzare una ripresa franca e convinta dell’umanesimo teomorfo, che si è rivelato l’orientamento più fecondo dell’arte classica e rinascimentale20. Ripresa che può avvenire dopo che l’uomo ha toccato il fondo dell’assenza di Dio (Gottlosigkeit) nel costume sociale.

Se ci riconosciamo eredi della tradizione cristiana dei Padri della Chiesa e di Giambattista Vico, dobbiamo riportare a incisività consapevole e testimoniale l’identità dell’uomo, «creato a immagine e somiglianza di Dio» (Gen I, 26). Questo compito di ripristino della spiritualità e della trascendenza dell’uomo, che consente di riconquistare simultaneamente la Kantiana «nobile semplicità e quieta grandezza» (edle Einfalt und stille Grosse) dell’anima umana, si riappropria di quell’estetica verticale platonico-plotiniana che valorizza convenientemente la simbolica della luce, del vero e del bene21.

In questa simbolica ritrova posto il kairòs dell’uomo redento e destinato a mete escatologiche, a partire dalla considerazione della realtà teandrica di Gesù Cristo che è «immagine di Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; è prima di tutte le cose, e tutte le cose in lui sussistono» (Col. I, 3). Cristo è icona simmetrica del Padre. Rende trasparente l’Invisibile. Dice l’incarnazione del Figlio, dà corpo alla voce della salvezza e della grazia, crea sensi e orizzonti di fede-speranza-amore nell’uomo redento. L’uomo, icona del Cristo, primogenito dei risorti da morte, corrisponde all’Archetipo divino, si rapporta ordinatamente al suo simile e al mondo, inscrive il suo destino esistenziale e metastorico nelle vicende della temporalità interiorizzata.

Bisogna partire da questa sintesi di teologia e antropologia, o da questa antropoteodrammatica, per valorizzare positivamente tutta la pregnanza della parola e della pratica poietiche. Conviene ritornare a riflettere un tantino sulla parabola del volto umano, che va dalla ieraticità dell’arte bizantina fino allo sguardo di Medusa che si riscontra nello sfiguramento del volto nell’arte del nostro secolo.

Teomorfismo estetico del volto

Finché ha retto l’esperienza greca della forma umana quale cifra e rivelazione di un elemento mitico o ideale, l’arte si è fatta carico di esprimere la tensione umana verso il divino. è stata esperienza festiva dell’uomo e degli dèi che si richiamano e si corrispondono mediante culto e riti sacri. Questa esperienza, fatta propria dalla tradizione cristiana, ha piegato intelligentemente i simboli estetici a tessere l’apologia della storia della salvezza e a glorificare il Creatore mediante l’illustrazione della spiritualità di Adamo, viceré del creato.

In epoca paleocristiana e bizantina, arte musiva e liturgia si richiamavano e si completavano a vicenda, in un rapporto persuasivo di immagini e di voci, di visione e di parola. L’arte bizantina è stata essenzialmente forma di epifania teandrica: Dio si rende visibile in Cristo; Cristo svela l’azione sacramentale e trasformante dello Spirito nel cuore dei credenti e dei redenti, a cominciare dal capolavoro della grazia, la Vergine Maria, Theotòkos; l’uomo redento canta la gratitudine e la lode al Dio unitrino.

Con l’invenzione della prospettiva, nella pittura rinascimentale, è cominciata e si è andata imponendo una innovazione artificiale e immaginifica dell’arte sacra. Viene in primo piano la “costruzione” geometrica dei paesaggi e dei volti, resi affascinanti mediante il chiaroscuro del disegno, l’individuazione dei punti di fuga e dei centri di convergenza della luce nel costrutto pittorico e il ricco impasto policromo. La grazia piacevole della pittura che va dal Rinascimento all’Ottocento accompagna l’ideale estetico classicheggiante, frutto di ordine, proporzione, lucentezza e armonia. Ne beneficia la bellezza rappresentata della forma spirituale dell’uomo, indagata nella posizione, nella figura, nella bellezza tipica del maschile e del femminile, nel matrimonio, ecc. A tal proposito osserva Friedrich Th. Vischer (1807-87): «ciò che questa figura esprime nello stato di quiete e nel movimento è il ricco mondo dello spirito».

Un elemento desacralizzante non sufficientemente analizzato è il seguente: il riscontro, già nella pittura quattrocentesca, di remote radici dell’odierna secolarizzazione estetica, che si evincono dall’artificio autottico nella pittura prospettica dello spazio tridimensionale. Questo discorso riesce più convincente se lo si assomma alle teorie politiche di Machiavelli e alla pratica dell’anatomia, inaugurata dal Vesalio.

A lungo andare questi episodi di arte, politica e scienza, apparentemente innocui, sveleranno le tensioni luciferine dell’uomo prometeico che intende fare a meno di Dio e produce schemi di cultura antropocentrica. Il pensiero corre spontaneamente alla fisiognomica di Giambattista Della Porta e di J. R. Lavater, alla frenologia di Franz Gall, susseguentemente sviluppata dagli studi di Gaspar Spurzheim e di George Lacombe, alla fisiologia criminale di Cesare Lombroso, alle “forme viventi”
di D’Arcy W. Thompson, ai Volti recentemente decifrati dal sociologo Karl Markus Michel, per avere un’idea sommaria di come è andata evolvendo l’ermeneutica del volto umano in progressione naturalistica e atea.

Questo, tuttavia, non deve far dimenticare gli acquisti positivi dell’estetica del volto, anche se il tarlo dell’ambiguità rode già dentro a una certa espressione dell’arte romantica. Il romanticismo, infatti, persegue le cifre del profondo e del sublime, dell’infinito e dell’­interiorità spirituale, rintracciabili in natura e soprattutto nei tratti umani, talora con visionarietà magica. I risultati dell’arte tardoromantica evolvono in direzione dell’astrattismo e dell’espressionismo, rendendoci più scaltri a decifrare il talento visionario e luciferino di non pochi artisti dell’Otto-Novecento, anche se nel gesto ambivalente di alcuni di loro si può scorgere nostalgia del paradiso perduto e ricerca tormentata di una via di salvezza.

Un problema inquietante, comunque emerge nel passaggio dalla rivelazione ‘mitica’ del volto alla rappresentazione artificiale e costruttivistica di esso, ragion per cui Maritain ha stigmatizzato nell’espressionismo e nel cubismo i risultati nefasti dell’ateismo e di una sensibilità artistica caotica. Le smorfie e le passioni che si riflettevano nei volti dei personaggi allegorici di Hieronymus Bosch diventano, nel Novecento, sintomi di un uomo che ha perso il ‘centro’ e l’orientamento teologico e metafisico nel mondo in frantumi.

Dietro la dissoluzione del volto è da sorprendere l’esito congiunto di scienza, filosofia e arte ateleologicamente orientate. Esito, tuttavia, non a senso unico, se è vero che nella pittura contemporanea è dato riscontrare anche una sorta di percezione acuta dell’enigma uomo che continua a costituire la cifra di ulteriorità rispetto alle concezioni antropomorfiche già consolidatesi in passato.

C’è motivo di sperare che oltre alle parole che si spappolano, ai concetti che opprimono e alle immagini scomposte che sconcertano, in tanta arte e letteratura del Novecento, vi sia anche la riconsiderazione del ‘mistero’ uomo dietro la sollecitazione di una teologia più accorta e duttile nelle proprie categorie ermeneutiche e narrative e dietro la spinta di quelle utopie politiche che si rifanno al tema della speranza cristiana. La teologia di Gregorio di Nazianzo dichiarava porosa la natura nella persona, dal momento che individuava nell’uomo il desiderio di eternità.

«Dio si è fatto latore della carne perché l’uomo possa diventare latore dello Spirito», asseriva Antonio il Grande. L’eredità di questa saggezza antica vien fatta propria, ai nostri giorni, dallo scrittore Olivier Clément, ammiratore della teologia della Chiesa Ortodossa. Scrive: «Il cristianesimo è Dio che, per noi si è fatto volto e che ci rivela l’altro come volto. Macario il Grande dice che l’uomo spirituale diviene tutto volto e che il suo volto diviene tutto sguardo. Che cosa è un volto divenuto tutto sguardo se non uno sconvolgimento salvatore nella profonda immensità del mondo? ».

Ripensare, in questi termini di alta mistica, la realtà dell’uomo teomorfo significa riaccendere la speranza estetica che l’”Adamo decaduto”, di vichiana memoria, possa ridiventare uomo bello e buono, dal volto raggiante.

La coraggiosa ed esaltante riappropriazione dell’umanesimo cristocentrico e teomorfo consente di prendere congedo, con senso di liberazione interiore, dal Novecento artistico, ponendo sia pure con fatica e con trepida attesa, le premesse per una stagione avvenire più consistente di produzione di forme belle che seducano lo spirito e lo invitino alla contemplazione del mistero del mondo. Tutto questo è possibile. Ne offre testimonianza Stefano Zecchi il quale prende congedo, esteticamente parlando, dal Novecento e ne dice i motivi nello staordinario libro su La Bellezza22.

All’incrocio di una svolta epocale anche in campo estetico e poietico, incalza la domanda: che cosa ci attende in futuro? Quale profezia si può avanzare sull’arte di domani? Difficile poterlo dire. Una speranza si impone: che la pregnanza “sacramentale” e ostensiva dei simboli possa ridare all’homo viator il senso dell’infinito in un finito obliquamente decifrato. Questo, perché i simboli sono di natura loro messianici e parusiaci23.

Grazie alla seduzione dei simboli l’uomo può tornare a esperire il mondo, anche il faticoso mondo della coscienza storica, «por via de encantamiento y de hermosura» (M. Cervantes), giacché l’arte è sintesi sublime, termine di un travaglio interiore dell’artista che porta a realizzazione unitaria modo di sentire, di percepire, di vedere, di esprimersi. Il ‘mistero’ dell’opera d’arte è prolungamento del mistero dell’uomo, non semplicemente questione di segni e di disegni artificiosi. Se l’uomo, al dire di Pascal, supera infinitamente l’uomo, ne consegue che proprio nell’arte c’è il disvelamento che la vita è più-che-vita, non soltanto organicità biologica, come hanno giustamente avvertito e scritto Simmel e Dilthey.

L’arte dell’avvenire si presenterà più promettente e ricca di fascino se sarà frutto di «letture sovrapposte», secondo l’indicazione weilana: «Leggere la necessità dietro la sensazione, leggere l’ordine dietro la necessità, leggere Dio dietro l’ordine»24.

Intanto ci conforta l’esempio di qualche artista che ha operato, nel nostro tempo grigio, in direzione della metamorfosi redentrice e della nostalgia metafisica della luce. Intendiamo dire del poeta francese Pierre Emmanuel, cantore dell’eros unificante nei tre volumi de Il libro dell’uomo e della donna (1978-80), a proposito del quale osserva Olivier Clément:

Vincent Van Gogh - Sedia con pipa, 1888
Vincent Van Gogh – Sedia con pipa, 1888

«La donna, quando l’uomo “senza origini”, l’uomo senza madre, vuol fare di Lei l’Unica e la Salvezza, si tira indietro. Per il poeta è una vera e propria morte iniziatica… Il dolore diventa “ordalia”. è “l’istante infernale della muta”. Il serpente non è più il seduttore… Il serpente così rinnovato diventa erba, terra, immensità feconda del tellurico…

Nel profondo dell’uno si risvegliano le acque battesimali… Ma una simile integrazione, per essere creatrice, esige la presenza della trascendenza: nell’Altro – ed è lui il vero altro, il fondamento di ogni alterità, appare con grande chiarezza la figura del Padre… L’orfano trova il suo posto nell’amore trinitario e la terra porta a compimento la sua purificazione in colei che è veramente la Madre di Dio…

Un bambino, se potesse camminare sull’oceano,
Quale Padre immenso lo attenderebbe nel profondo
Dei tempi?”.

Il protagonista comincia così la grande metamorfosi, scopre nell’uomo “quell’intimo innocente infinitamente ferito che conoscendo lucidamente tutto il male del mondo, spera che il serpente, simbolo del sesso, del tellurico e anche del rinnovamento, rinascerà presto, “Angelo di luce”»25.

Aconclusione di queste riflessioni riandiamo alle idee che André Malraux registrava nell’opera incompiuta Métamorphose des Dieux e che riflettono in qualche modo rilievi e auspici dello scrivente.

Interrogandosi sul senso della volontà d’arte del Novecento, il saggista francese coglieva in essa la volontà dell’artista di «sottomettere tutto al suo stile, a cominciare dall’oggetto più rozzo e più nudo. Il suo simbolo è La sedia di Van Gogh». Nel Novecento «gli artisti sanno quanto falso sia diventato ogni specie di accordo dell’uomo con se stesso (e col mondo) … L’accordo dell’uomo con se stesso è diventato la menzogna, l’infamia che bisogna schiacciare. Da Cézanne ai surrealisti, il pittore moderno è un fanatico… Gli artisti vogliono tutti i mondi possibili, tranne quello che è loro imposto». Siamo al dominio del demoniaco, che è spirito di distruzione.

Ebbene, quale futuro si presagisce per l’arte? Lo dice Nicola Chiaromonte, in un lucido capitolo di riflessione sulla storia: «Il termine ultimo della ricerca di Malraux è la scoperta del vero volto del tempo. Nella Métamorphose des Dieux egli tenta di delinearlo nel moto che conduce dall’orrore del sacro e dell’informe, il quale prostra l’uomo dinanzi alle forze oscure del cosmo e alla violenza della storia, al “divino”. Nel “divino” […] si esprime il tentativo di dare al sacro un volto riconoscibile, in cui l’orrore si plachi e l’uomo appaia eretto e libero di fronte alle figure degli Dei da lui plasmate: non più schiacciato da un caos, ma situato in un cosmo che lo trascende»26.

Paolo Miccoli

———————-

NOTE:

 

1) Cfr. E. Grassi, Potenza della fantasia, Guida, Napoli 1990, pp. 39-41.

2) Sulla tematica del simbolo quale viene da noi affrontata in questo intervento si veda l’illuminante articolo di Jean-Claude Pinson, L’arte del XX secolo e il simbolo, in «Estetica ‘92»: Forme del simbolo (a cura di S. Zecchi), Il Mulino, Bologna 1992, pp. 41-65.

3) Qui deve intendersi per eredità romantica quell’ “occasionalismo romantico” che, a dire di Carl Schmitt, «ha fatto del mondo un pretesto per visioni, allucinazioni, locurassoggettive», cfr. Romanticismo politico, Giuffré, Milano 1981.

4) Ricco di stimoli l’articolo di V. Mathieu, Manifesto di un movimento ermeneutico universale, in «Filosofia», Maggio-agosto 1992, pp. 199-213.

5) Italo Calvino è qui chiamato in causa soprattutto, e puntualmente, per le postume Lezioni americaneSei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988.

6) Precisa e incisiva la diagnosi di V. Verza, Nichilismo ed Espressionismo, in AA. VV., L’Espressionismo, Newton Compton, Roma 1981, pp. 13-29. Utili indicazioni per le poetiche ed estetiche del Novecento si rinvengono anche nel volumetto di F. Vercellone, Introduzione al Nichilismo, Laterza, Bari 1922, pp. 180-196.

7) Su questi temi si va esercitando da qualche anno la riflessione di C. Sini; tra i suoi scritti menzioniamo Kinesis, Saggio di interpretazione, Spirali, Milano 1982; Etica della scrittura, Mondadori, Milano 1992.

8) Su questo aspetto cfr. G. Carchia,  Metamorfosi del classico. Antichità e pittura, in «Filosofia», ‘86 (a cura di C. Vattimo), Laterza, Bari 1987; «Estetica» ‘91: Sul destino, Il Mulino, Bologna 1991; S. Givone, La questione romantica, Laterza, Bari 1992.

9) J. C. Pinson, art. cit., p. 44.

10) Un suggestivo scandaglio del retroterra gnoseologico che condiziona l’arte del Novecento, tenta A. Negri nell’Introduzione poderosa all’opera antologica Novecento filosofico e scientifico. I Protagonisti, Marzorati, Milano 1991, pp. 25-221. Egli ricorda che contro il noumeno kantiano sono in molti a scagliarsii: Ernst Mach dilata l’io a complesso di sensazioni (Empfindungs-komplex) e Nietzsche parla di colombario dei concetti, di cui l’uomo si serve per irretire il mondo, scientificamente, e vincere così la paura dell’incalcolabile. La tendenza antimeccanicistica e vitalistica muove in una direzione di una processualità dialettica che interpreta la realtà più che spiegarla.

Paul Cézanne (1839-1906) intende far valere in assoluto i criteri dell’impressionismo. Di fronte alle sue Meleunbegreifliche), ma tangibili (greifbare). Esse costituiscono una testarda presenza ma, a differenza di quelle dipinte da Chardin o da Manet, non si possono mangiare. Siamo di fronte al dominio dell’esperienza intimista e sentimentale. Cézanne ha fondato un nuovo rapporto tra l’uomo e le cose, oltre il realismo ingenuo e il soggettivismo trascendentale. Rilke, in una lettera del 1 nov. 1907, dichiara che esse sono inafferrabili (

Il passaggio all’espressionismo muove dal presupposto, secondo Kasimir Edschmid, che gli artisti del nuovo movimento non vedevano (sahen nicht), guardavano (schauten); non fotografavano, avevano visioni (hatten Gesichte). Tutto lo spazio dell’artista diventa visione, ossia corpo vociante che si impone. All’oggetto individuale si sostituisce un oggetto di nuova specie, come attesta O. Kokoschka in Von der Natur der Gesichte (1912).

Con Kandinskij e Klee, l’espressionismo tende a creare nuove forme d’arte, avulsa dalla realtà oggettiva e tesa a rispecchiare una sensibilità più intima e raccolta. Si privilegia il Reell(oggetto immanente alla coscienza) rispetto al Real (oggetto trascendente). Kandinskij rivendica la libertà di usare colori e forme. Svincolamento dall’anatomia e libertà espressiva nella scelta dei mezzi. La “libertà spirituale non è nel fotografare, ma nel registrare avvenimenti interiori della vita spirituale”: il che equivale a muovere verso il non-oggettuale, termine non di gradimento per Kandinskij.

La pittura pura agisce sull’animo con tinta, forma (distribuzione di piani e linee), interrelazione (movimento).

L’arte si spiritualizza avvicinandosi alla musica. Schönberg (1874-1951) dichiara che Kokoschka e Kandinskij fantasticavano con colori e forme senza cercare testi e soggetti, proprio perché l’arte è spiritualizzazione. Alla comodità si sostituivano le visioni. Si ‘vede’ anche senza bisogno di guardare. Cade la cosa in Sé. Mondo e uomo si trasfigurano. Nel Canto del nottambulo Zarathustra sentenzia: «Profondo è il mondo / più profondo di quanto lo abbia pensato il giorno».

11) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di Colli-Montinari, Adelphi, Milano 1964 ss, vol. VI, t. I, p. 168.

12) Cfr. H. Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative del XIX e XX secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Borla, Torino 1967, p. 189.

13) W. Worringer, Astrazione ed empatia, Einaudi, Torino 1975, p. 36.

14) Cfr. C. Munari, Arte e costume del secolo XIX, Tacchini, Vercelli 1976, p. 119.

15) E. Neumann, La Grande Madre, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1981, p. 189.

16) Cfr. H. Sedlmayr, op. cit., p. 160. Dello stesso autore si veda inoltre La morte della luce, Rusconi, Milano 1970.

17) Cfr. A. Cavallaro, Pittura metafisica e visionaria, Fratelli Fabbri, Milano 1978, p. 70.

18) L. Bergel, L’estetica del nichilismo e altri saggi, Bibliopolis, Napoli 1980, p. 97.

19) K. Malévic, Ecrits, trad. dal russo di A. Robel, Gérard Lebovici, Paris 1986, p. 410.

Per un ampliamento di prospettiva delle tematiche qui accennate, rinvio al volume P. Miccoli, Secolarizzazione della teodicea, LIEF, Vicenza 1986, segnatamente al capitolo VI, dove si discute di “Risvolto secolaristico delle estetiche e poetiche contemporanee”, pp. 229-272.

20) Su questo versante ha svolto la sua valida militanza estetica, in sede accademica, R. Assunto. Tra i suoi numerosi scritti ricordo L’antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo europeo, Mursia, Milano 1973; La città di Anfione e la città di Prometeo, Jaca Book, Milano 1986.

21) La bellezza è essere e ne rivela lo splendore intrinseco e trascendentale. Scrive Plotino: «Solo il mondo superno ha l’essere e, precisamente, il puro “essere bellezza”. Perché dove sarebbe la bellezza se fosse privata dell’essere, e dove sarebbe l’essere se fosse privato della bellezza?» (Enneadi, V, 8, 9, 40-47; III/I 102, § 62). Contro la gnosi, Plotino dichiara la poikile thaumaturghia tou kosmouEnn., II, 2, 13,23.

22) S. Zecchi, La Bellezza, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Quali le motivazioni di S. Zecchi per “uscire dal Novecento”? Possiamo così riassumerle: 1) Perché tale secolo ha scarnificato la bellezza, riducendola a teschio, ad anonimato… e relegandola al margine del funzionale e del sociale con forme ibride e sperimentali e di avanguardie; 2) Perché secolo infedele alla memoria (anà mnesis) del mito e della teologia, avendo ridotto la realtà a segni, a spettroscopia di elementi, a orgioi, a rizomi; 3) perché secolo cinico che si compiace di irridere la verità e far ridere di essa; 4) perché secolo di nichilismo compiuto in quanto disgregazione della forma e del linguaggio mitico-simbolico; 5) perché ha sostituito alle Origini l’imperialismo delle ideologie politiche. In tal senso è accusato anche Merleau-Ponty che ha interpretato marxisticamente l’uomo, riconducendolo a fenomeno di percezione sensibile, e ha sottovalutato il carattere nichilistico della destrutturazione della forma, della frantumazione dei vari linguaggi e della disgregazione del senso. Disumana è la pittura di Cézanne e l’opera dei Futuristi. L’epoca della secolarizzazione è il sopravvento ingiustificato e crudele della scienza sul mito, è oblio delle Archai, Ë impropria mitizzazione della ratio nei confronti dell’ingenium

Analogo disagio per il secolo empio e arido esprime George Steiner in Vere Presenze, Garzanti, Milano 1992, dove riafferma la funzione ontologicamente creativa dell’arte e la complementare e sussidiaria funzione della critica per educare al giudizio di gusto, senza pretendere di sostituirsi essa stessa all’opera d’arte.

23) Si leggano le incisive riflessioni dello Steiner a tale proposito, op. cit., pp. 191-192. Per la ripresa dell’umanesimo teomorfo utili stimoli teologici ed estetici offre Olivier Clément in Riflessioni sull’uomo, Jaca Book, Milano 1991/3; Idem, Ana-Cronache, Jaca Book, Milano 1992.

24) S. Weil, Cahiers, Plon, Paris 1953, II, p. 193.

Feconda integrazione alle riflessioni da noi svolte in questa sede sono i vari contributi del Seminario di studi “Metamorfosi. Viaggio tra i labirinti della ragione contemporanea”, Vicenza, Febbraio-Maggio 1985 che si possono leggere negli Atti dell’omonimo volume, Laterza, Bari 1986.

25) O. Clément, Ana-Cronache, cit., pp. 212-213.

26) Cfr. N. Chiaromonte, Credere e non credere, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 160-161. Si ricorda che l’edizione originale di questo volume è in lingua inglese, The Paradox of History, London 1970.


Articoli correlati