Gli uomini e le conchiglie

Giuseppe Lampis

Se il mondo e le sue combinazioni sono indifferenti a sé stesse, e le stesse cose possono essere molte altre e diverse, allora quelle che tuttavia riescono a essere reali, nella casualità, sono fortunose.

Mi chiedo: l’essere fortunosi rende irrilevanti o importanti?

Filippo de Pisis – Conchiglie

Che siamo effimeri e mortali, che non siamo necessari, deve portare a considerarci una conquista straordinaria o no? O deve, al contrario, portarci alla consapevolezza che siamo trascurabili?

Un insetto vivo per pochi attimi uscito da un uovo che poteva non aprirsi è irrilevante o no? E se questo mondo è costituito unicamente da cose irrilevanti, in che maniera riesce a dare un risultato quale che sia? Che risultato dà la somma di più inezie?

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L’uomo?
Un errore della natura che non ci metterà molto a toglierselo di dosso. Sul metro geologico, perfino i milioni di anni sono fugaci brevità.
Errore? La definizione forse trascina con sé una tonalità negativa, mentre la natura non giudica e partorisce con superiore indifferenza le sue infinite produzioni.
Una delle tante gettate del gioco d’azzardo.

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Ciò nonostante dobbiamo registrare che siamo ciò che siamo perché l’universo è quello che è. Vuol dire che non ne siamo distinti.

L’uomo non sta né al centro né alla periferia, non sappiamo quale sia il centro e quale la periferia. L’unica cosa che la natura ci permette di sapere è che siamo dentro la sua sfera.

Certo, non risponde alla ragione che noi possediamo. L’universo non è razionale ma ha una sua logica. Ha una sua combinazione.

Forse ne riceviamo un segno, appena un segno, in ciò che noi stessi siamo, nello stato ontologico in cui siamo. L’unico appiglio.

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Giacomo Leopardi Cantico del gallo silvestre (novembre 1824, l’ultima delle Operette morali):

«del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.»

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Jünger risponde, senza cambiare la strada severa, entrando nelle profondità del gelido vero di Leopardi.

«Sotto l’elemento umano si agita quello zoologico, e ancora più sotto la legge fisica. Morale, istinto e cinetica determinano la nostra specie. Le nostre cellule sono composte di molecole e queste di atomi.» (Eumeswil 1977, tr. it. 1981, 20012, 40)

«The zoological operates still beneath the human, and the law of physics operates further down. Ethics, instinct, and sheer kinetics dictate our actions. Our cells are composed of molecules and the latter of atoms.» (tr. Neugroschel, N. York 1993, 44)

La storia umana è appena un prolungamento della geologia; il tempo è sempre lo stesso per uomini piante rocce astri mondi.

Ebbene, ciò indica che l’uomo al di là del livello zoologico si riconnette con le specie vegetali e addirittura con i cristalli. In definitiva con gli astri.

L’uomo è portatore di un’essenza permanente che lo travalica e lo fa appartenere all’infinito, la forma. La cosa si coglie più netta in colui che non abdichi alla sua natura di singolo. 

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Nel romanzo il protagonista fa lo steward di notte al servizio del Condor, il tiranno di Eumeswil, città multistrato grandiosa archetipica metafora della tensione cosmica.

Egli è uno storiografo e un anarca.

Il rapporto tra essere anarca e avere passione storica riflette la tensione unitaria intrinseca tra Dominio e ribellione del Singolo. «Il monarca vuole dominare tutti, l’anarca soltanto sé stesso, ciò gli conferisce un rapporto obbiettivo, anche scettico, col potere, le cui figure egli lascia scorrere dinnanzi a sé …» (39)

La ribellione, e il conflitto dell’immortale identità del singolo, sono insopprimibili perché poggiano su una base strutturale che va oltre la volontà dell’uomo. «L’elemento anarchico rimane nelfondo come un segreto per lo più inconscio al soggetto stesso.» (37)

In ultima analisi, la ribellione non dipende da uno scatto morale e, ben più essenzialmente, esprime la resistenza di una forma, individua e determinata, al livellamento entropico e alla nientificazione.

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«Il tiranno è il livellatore…» (146)

Eppure, i politici sono appena inconsapevoli facchini, «l’uomo d’azione immagina di plasmare il futuro, mentre invece ne è stato risucchiato, ne è caduto vittima» (321), «chi si impegna nel mutamento politico è, e rimane, un folle, un facchino per servigi che non sono affar suo.» (324)

La storia è un prolungamento della geologia; il tempo è sempre lo stesso per uomini piante rocce astri mondi; e la distruzione delle identità fa parte del processo di gestazione generale.

Nella fase terminale in corso, il singolo può accettare una vita in ombra da servitore inevitabile del tiranno mentre parallelamente si costruisce un nascondiglio nel folto della foresta per concentrarsi nell’elementare di cui è portatore.

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Più la storia mostra i suoi fini e più rivela l’ascendenza pre–storica e a–storica; con la tirannide generalizzata, archetipo vivente straripante, va oramai a concludersi e confluisce, semplificata, nel geologico.

«Meglio desiderare – a questo punto – la catastrofe.»(121)

«… per prepararmi alla foresta, ho lavorato intensamente davanti allo specchio. Sono così riuscito a raggiungere ciò che ho sempre sognato: il completo distacco dall’esistenza fisica.» (368)

Non si equivochi, Jünger non cede al vagheggiamento di un inesistente spirituale immateriale; nel principio primordiale idea e fenomeno si saldano indistinti; il fisico non è brutalità oscura, in esso agisce il metafisico.

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Conclamando che la storia non aggiunge nulla all’origine, Eumeswil annuncia che ciò che vale non è tanto l’etica quanto l’estetica. L’estetica è il culto della forma che non prende valore dal divenire bensì lo eccede e attraversa senza esserne condizionata.

La forma non è importante perché è utile, ma –stante che la sfera dell’utile è in effetti inutile –perché regge comunque. Regge la realtà, densa e materiale di una materia che non è meramente materiale.

«Il miracolo … rimane in veste mutevole sempre uguale a se stesso, in ogni filo d’erba, in ogni ciottolo.» (206)

«… a miracle always remains the same, in every blade of grass, in every pebble.»(tr. Neugr. 213)

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Jünger oscilla tra estetica e metafisica, evoca ambedue le scienze, e ne accosta i nomi quasi l’uno completi l’altro.

Le forme hanno un valore in sé; per un certo verso appartengono al regno della metafisica e per una ragione più alta rientrano nel regno dell’estetica.

Una teoria del genere fu dell’ultimo Kant, sebbene non sia a Kant che il nostro si riferisce.

Jünger è l’ultimo bizantino, le figure arrivano nel suo orizzonte perfette e splendide ma anche senza emanare passione e emozione. Dalla nostra ottica mondana sono simili a fantasmi distaccati di eventi e persone trapassati e morti.

In un universo inutile (o non compreso dalla razionalità) soltanto la forma impone un valore, e colui che insegue la forma può apparire triste, distaccato, ironico, sprezzante. Eppure non ci dobbiamo fermare a queste impressioni ancora superficiali.

C’è dell’altro –la forma riconnette l’uomo al di là del livello zoologico con le specie vegetali e addirittura con i cristalli, in definitiva con gli astri.

Lévi–Strauss disse che avrebbe preso in maggiore considerazione l’umanità quando avesse prodotto istintivamente le mille forme delle conchiglie (Le Monde, intervista 16 ottobre 1991).

Il complesso di questa assiomatica non si lascia afferrare sùbito, non si vede a occhio nudo, occorre una rottura di livello per scoprire il passaggio. Occorre un disancoraggio completo dal banale e dall’attuale.

«… per prepararmi alla foresta… il completo distacco dall’esistenza fisica.»

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Le forme, se pure fredde e assorte, sono vive. Sono vita.

Pensiamo al pensiero mazdeo e ai mille dèmoni–angeli che popolano il nostro cosmo provvisorio, provvisorio finché il Male irretito in esso non sarà con esso dissolto definitivamente. Ora, le forme mazdee sono sì persone ma, per quanto si manifestino qui nel provvisorio, vivono altrove. E la loro vita non è appassionata, non freme, non brucia.

Parimenti, i fiori colti da Jünger hanno i colori del fuoco, però non scottano.

Un altro riferimento si potrebbe fare al Purgatorio di Dante, se le sue figure avessero dissolto ogni ombra di nostalgia del mondo. Invero, Dante viaggia verso la redenzione, mentre Jünger non crede a nessuna salvezza. Il suo eroe non cerca nessun paradiso, egli deve giocare la sua partita nelle effimere circostanze che gli sono date e trovare lì stesso la perfezione.

La perfezione non sta al culmine di un dramma morale, sta nello stile con cui si vive la tragedia. Nel vortice dell’inutilità, l’io trionfa dell’inutilità stessa con la più inutile delle produzioni: la bellezza.

La vera bellezza, infine, non si limita a un settore dell’agire ed investe l’intera vita e l’informa di sé, e in tale modo diventa stile, si incarna nello stile.

Croce aveva già notato che la bellezza è triste. La bellezza autentica comporta la lontananza dal mondo e la malinconia della coscienza della sua imperfezione inevitabile.

In ciò riconosciamo il sentimento del tragico, sostanzialmente diverso dal drammatico morale. Nel tragico si uniscono insieme l’inevitabile, con l’indifferenza del mondo verso l’uomo, e l’uomo che s’innalza sulla verticale producendo una forma perfetta: effimera, inutile, votata a essere travolta, eppure assolutamente superiore ed eterna immodificabile.

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Un simile ideale potrebbe sembrare dandismo. Non è dandismo. Lo stile non va confuso con il manierismo degli invidiosi. In Jünger il senso della serietà del combattimento non viene mai meno, nonostante tutto.

Jünger è compiutamente non cristiano, ha realizzato l’ideale di Nietzsche oltre Nietzsche. Il combattimento è necessario ed è il compito e il destino.

Egualmente per il mazdeismo e per gli iranici non si tratta di un combattimento morale. Cosmico piuttosto, o metafisico. Il combattimento non ha fini morali. Bene e male su scala metafisica non esistono.

A quell’altezza, la lotta vera contrappone forma a non forma, i due modi della luce: quella che oscura e quella che rivela e afferma.

 

Giuseppe Lampis


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