I paradossi dell’Assoluto

P. Giuseppe Scattolin

 

Pagine in anteprima tratte da
Manifestazioni spirituali nell’Islam [1]
Letture di alcuni testi fondamentali del sufismo classico
(secoli I/ VII- VII/ XIII)
(in corso di pubblicazione)

Sant’Agostino

L’Assoluto viene sperimentato dai mistici allo stesso tempo nella Sua trascendenza e nella Sua immanenza, nella Sua unità e nella Sua molteplicità, nella Sua semplicità e nella Sua complessità, nel Suo nascondimento e nel Suo manifestarSi. Nessuno di tali aspetti può essere isolato o negato, poiché l’Assoluto in quanto tale non può essere che ‘la sintesi degli opposti’ (coincidentia oppositorum), o meglio, come preferisco dire, Egli è ‘il superamento degli opposti’ (transcendentia oppositorum), cioè Egli è al di là di tutte le distinzioni limitate e limitanti poste dalla ragione umana misuratrice e calcolatrice (‛aql). Questo è quanto i mistici di tutte le religioni non si stancano di ripetere. Il mistico infatti, a differenza del teologo, non ha paura di immergersi nelle aporie e nei paradossi dell’Assoluto che sorpassano le nostre categorie razionali, e questo perché il mistico è guidato da una percezione più profonda della Realtà divina. L’Assoluto infatti si presenta sempre come il Mistero che è compreso tanto in quanto non è compreso, perché “… se lo comprendi, non è Dio” (S. Agostino)[2]. Pensiero che si trova pure in un famoso detto attribuito a Abû Bakr al-Ṣiddîq (m. 12/ 34), Compagno del Profeta dell’Islam e suo primo successore (califfo): “Lode a Colui che non ha dato alle Sue creature altra via per conoscerLo se non la loro incapacità di conoscerLo”[3]. Anche questo tema dell’incomprensibilità di Dio può e deve diventare un campo di ampio e aperto dialogo e incontro fra le varie tradizioni mistiche.

Nel pensiero islamico il problema della proclamazione dell’unità di Dio (tawḥîd) unita alla realtà dei suoi diversi attributi ha affaticato a lungo il pensiero dei teologi senza arrivare a una soluzione chiara, ma rimandando, alla fine, al silenzio del ‘non chiedere come’ (bilâ kayfa). Credo che solo nei sufi tale problema abbia ricevuto un approccio più reale perché essi non hanno avuto paura di inoltrarsi nei ‘paradossi dell’Uno’. Il sufi andaluso Ibn al-‛Arabî (m. 638/ 1240), ad esempio, ritiene che il sommo della proclamazione dell’unità di Dio (tawḥîd), centro della fede islamica, non si trovi nell’affermazione di un’astratta Unità divina, di tipo matematico, come intesa molte volte da parte dei credenti e dai teologi stessi. Per lui, il vero tawḥîd consiste piuttosto nell’affermazione paradossale dell’Unità divina nella molteplicità delle Sue auto-manifestazioni (tajalliyât). Queste auto-manifestazioni sono aspetti reali del Reale-Assoluto (al-Ḥaqq) che è sempre e nello stesso tempo Uno e molteplice, Creatore e creatura, a seconda dei punti di vista sotto cui Lo si considera. Il Reale-Assoluto (al-Ḥaqq) inoltre non deve essere concepito in uno stato di immobile stasi, bensì in un inesausto dinamismo di essere, mosso da una misteriosa forza originaria, trascendente e creatrice: l’Amore (ḥubb). L’impulso originale per cui l’Essenza divina (‘il tesoro nascosto’ di un noto hadith)[4] si manifesta in una serie infinta di auto-manifestazioni (tajalliyât) è l’Amore (ḥubb). In un celebre passo del suo libro Perle della saggezza, Ibn al-‛Arabî proclama:

Ibn al ‘Arabi

Il movimento che è l’esistenza del mondo fu un movimento di amore… Senza tale amore il mondo non sarebbe venuto all’esistenza; quindi il movimento dal nulla all’esistenza è il movimento del Creatore verso di essa (esistenza)… Resta quindi provato che il movimento fu un movimento di amore, e che quindi non c’è movimento nell’universo se non in relazione all’amore.

Sulla base di una tale visione molti sufi hanno sviluppato ardite speculazioni sull’Essere divino, frutto di particolari esperienze interiori. Alcuni di loro hanno parlato di una misericordia essenziale (raḥma dhâtiyya), altri di un amore originario (maḥabba aṣliyya) in Dio stesso: questi sarebbero i motivi-motori della creazione che altro non è che l’auto-manifestazione di Dio da Se stesso a Se stesso in Se stesso. Secondo questa visione, la molteplicità del movimento esistenziale del creato non si trova quindi al di fuori di Dio, ma nell’Essere divino stesso, scaturente dalle Sue inesauste capacità creatrici che hanno la loro sorgente nell’amore.

Bastano questi accenni per far vedere come anche su questo tema dell’auto-comunicazione divina c’è ampio spazio per riflessioni che potrebbero mettere in luce dei parallelismi straordinari, impensati forse, fra le varie esperienze mistiche, in particolare tra quelle delle tre religioni abramitiche. In tali intuizioni, anche il mistero della Trinità, cuore della fede cristiana, non deve essere abbordato come un enigma matematico, posizione ancora comune in molti cristiani e non, ma deve essere visto come espressione di un Amore fontale che sta alla base della Comunione trinitaria, ben lontana da ogni ombra di politeismo. Da questi brevi cenni si può vedere come un vero dialogo interreligioso potrebbe aprirci a grandi ricchezze spirituali, aiutandoci a comprendere meglio il nostro comune cammino, cioè il nostro comune pellegrinaggio verso il Mistero assoluto.

P. Giuseppe Scattolin

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Note:

[1]  Il presente lavoro è fondamentalmente la traduzione dell’antologia di testi sufi in arabo: Giuseppe Scattolin e Aḥmad Ḥasan Anwar, Al-Tajalliyât al-rûḥiyya fî l-islâm. Nuṣûṣ ṣûfiyya ‛abra al-târîkh (Spiritual Manifestations in Islam. Sufi Texts in History), Al-Hay’a al-Miṣriyya al-‛Âmma li-l-Kitâb, al-Qâhira (Cairo), 2008 (qui citato come Al-Tajalliyât). La traduzione italiana è notevolmente ampliata con nuove personalità sufi, introduzioni, biografie e commenti ai testi sufi e indici riveduti e ampliati.
Ringraziamo il Prof. Giuseppe Scattolin per averci concesso di pubblicare in anteprima alcune pagine del testo in via di stampa presso la casa editrice Officina di Studi Medievali .

[2] S. Agostino, Discorso 117, 3, 5.

[3] Vedi testo e commento in Giuseppe Scattolin, Esperienze mistiche nell’Islam, EMI, Bologna, 1996, II, p.189.

[4] Il hadith citato afferma: “Ero un tesoro sconosciuto e desiderai essere conosciuto, perciò creai il mondo e attraverso di esso (le creature) Mi conobbero”. Questo detto è comunemente citato nella tradizione sufi come hadith, esso però non trova riscontro nelle collezioni canoniche degli hadith, quindi rimane un detto comune tra i sufi trasmesso a volte in forma di hadith. Il testo arabo tradotto qui si trova in Fuṣûṣ al-ḥikam (Perle di saggezza), a cura di Abû l-‛Alâ ‛Afîfî (ed.), Dâr al-Kitâb al-‛Arabî, Beirut, 2nd ed., 1980, pp. 203-204, con commento; vedi anche Arthur John Arberry, Sufism. An Account of the Mystics of Islam, reprinted, Allen & Unwin, London, 1979 (1st ed. 1950), p. 28.


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