Illusione

Giuseppe Lampis
(da La verità e i confini dell’anima, 2007)

 

Eliade, in una conferenza ginevrina del 1953 (Symbolisme religieux et valorisation de l’angoisse), afferma che il problema dell’essere e del non essere è una caratteristica specifica del pensiero indiano.

« Il mondo fisico e la nostra esperienza sono i prodotti dell’illusione cosmica, della mâyâ. Ma questo non significa che non esistono, il mondo non è un miraggio. Il mondo fisico e l’esperienza vitale e psichica individuale esistono, ma unicamente nel tempo; giudicati sulla scala dell’essere assoluto sono illusioni. In tale senso, per il pensiero indù, la mâyâ rivela un’esperienza particolare del nulla, del non essere. »

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Insomma, per la metafisica indiana esiste il nulla, da qualche parte del cosmo, anzi ne occupa una parte importante, quella degli uomini. E come ciò sarà possibile se il cosmo, in senso autentico, è unicamente brahman, essere assoluto?

O forse la presenza della mâyâ segnala che brahman non è affatto assoluto?

O forse segnala invece che l’assoluto autentico è tanto ricco da comprendere anche l’illusione umana e il tempo?

L’illusione o mâyâ coinvolge l’assoluto e si dimostra esserne una componente integrante e fondamentale.

I greci cominciano da qui, dal ruolo cosmico dell’uomo, testimone «inquietante» del luogo nel quale il dio colma la propria insufficienza annullandolo.

L’uomo prende coscienza di esistere per completare dio, attraverso la morte. Portando in dono il nulla.

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Il discobolo, opera fotografica di Lorenzo Scaramella.

Forse gli orientali sono rappacificati da questa consapevolezza, i greci no. Proprio noi con la nostra aretè e consci di «chi siamo» dovremmo essere i burattini degli dèi?

I greci incontrano l’oriente ed entrano a farne parte ma con lo spirito ribelle degli antichi cacciatori liberi degli altopiani ventosi. La religione greca degli eroi ha uno sfondo squisitamente sciamanico: l’uomo straordinario è più forte del dio indiano.

Più forte di dio perché muore e contiene il tempo; più ricco, con più profondità, dato che la sua psychè non ha confini fissi.

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Non ha confini fissi essendo la porta del chàos. I confini dell’anima sono mobili non perché immateriale e logica, ma precisamente perché corporea, fisica, ignea.

Il livello logico andrà a precipitarsi inevitabilmente nella definizione dell’essenza e diventerà differenza specifica, negazione, distinzione e delimitazione.

Il livello fisico appartiene invece al movimento infinito che non cessa mai di rimescolare le forme.

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Per l’India la storia è un gioco. Egualmente, di conseguenza, la politica. Per l’occidente la storia è seria, egualmente il governo della città.

La posizione occidentale deriva dalla riflessione religiosa ebraica che vuole che gli eventi importanti della storia siano manifestazioni di peso divino. Dio è arbitro e libero però non scherza con la storia. Al contrario, egli agisce nella storia, ama manifestarsi in essa, ama far pesare i suoi segni.

Il cristianesimo per questa ragione si differenzia profondamente dall’oriente indiano e da ogni intuizione di un dio capriccioso, lontano, indifferente all’uomo.

Tuttavia, all’inizio anche la Grecia non la pensava diversamente dall’India; in Eraclito il dio è un fanciullo che gioca.

Anche gli dèi di Omero giocano e giocano con uomini marionette; Kerényi ha scritto un magnifico saggio sulla risata metaumana di Zeus (1995; tr. it. 2001, Religione antica, 138).

Gli ebrei hanno avuto Giobbe il quale alla fin fine ottiene una risposta da YHWH; i greci hanno avuto Eschilo e Sofocle, nondimeno il loro dio non deve rispondere, non può, sarebbe travolto dalla risposta, se rispondesse l’uomo si sostituirebbe a lui mettendo il mondo sottosopra.

Ciò nonostante, avendo i Titani regalato agli uomini l’arma finale, le cose andranno in quella direzione.

Gli dèi greci giocano perché anche loro su scala metafisica non contano nulla.

Giuseppe Lampis


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