«In mille immagini, Maria, ti vedo
amabilmente ritratta.
Ma nessuna di esse può fissarti
come ti vede la mia anima».
(Novalis)
L’apostrofe muta o del parto umano del divino: queste le parole chiave attorno a cui ruoterà il mio intervento a proposito dell’archetipo dell’annunciazione e di come lo “visita” e lo offre al nostro sguardo nel suo capolavoro assoluto il genio di Antonello da Messina.
In principio c’è il thaumaston, la meraviglia: l’incarnazione o meglio la nascibilità di Dio è un avvenimento davanti al quale l’universo stesso e l’uomo, sua creatura, precipitano in un abisso di stupore. Prima di chiedersi perchè, come, a che scopo, le circostanze, il fine, il motivo, c’è la meraviglia; Dio nasce come uomo e nulla è più lo stesso. Dice a riguardo Agostino con il suo poetico acume a proposito di questa misteriosa discesa: “Dio parla. Vuole farsi uomo. Le Sedi stupiscono, i Troni ammirano, l’esercito divino ammutolisce”.
Il Dio della tradizione giudaica, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio Creatore del cielo e della terra, a cui il popolo di Israele, come raccontano le sacre scritture, obbedisce come a un padrone e si ribella come a un padre, decide di abbandonare la splendore diafano delle sfere celesti per calarsi fin nelle tenebre della materia umana, nell’abisso della realtà corruttibile, dentro le viscere di un corpo. Come per ogni nascita mortale, anche per JHWH c’è bisogno di un concepimento; per farsi carne ha bisogno di una carne che lo accolga, per nascere ha bisogno di un ventre che lo ospiti, per essere uomo ha bisogno di una donna che lo partorisca. E sceglie lei.
L’orecchio di un tale annuncio, il grembo di questo in-concepibile concepimento è una giovanissima ragazza di Nazareth, una fanciulla ebrea di nome Maria. Prima di questo evento di lei non si ha alcuna traccia: non un gesto, un riferimento, una parola. Era una sconosciuta qualunque, di un villaggio dimenticato della Giudea; nemmeno il suo nome è originale, come ci testimoniano le scritture stesse, dove le Marie, Myriam in ebraico, che vuol dire goccia del mare abbondano.
A ben guardare, il suo tratto distintivo è proprio il silenzio, di lei e su lei. Pochissime le sue menzioni nelle scritture, ancora meno le parole da lei stessa pronunciate. Gli evangelisti, diversamente dai vangeli apocrifi, tacciono sulla sua nascita, sulla sua vita prima di divenire madre, sul suo aspetto, addirittura sulla sua vita durante e dopo la morte di Cristo. Sembrerebbe che la sua presenza abbia partecipato del mistero del divino in maniera minima, fugace, quasi impercettibile. Eppure da lei, con lei e attraverso lei tutto ha avuto inizio.
Partiamo dal fatto. L’annunciazione. Un giorno come tanti altri, ad un’ora imprecisa, un angelo e una vergine si dicono parole misteriose, forse inimmaginabili per entrambi. Un saluto, una domanda, una risposta ed ecco che si materializza il solo concepimento auricolare che la storia umana abbia conosciuto.
Leggiamo il testo del primo capitolo di Luca:
Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l’angelo partì da lei.
Una scena semplice, un racconto essenziale, che è presente solo in Luca. Esso si apre senza preamboli e si chiude alla stessa maniera. In un intervallo di tempo senza tempo un fatto drammatico vede sulla scena due personaggi: l’angelo Gabriele, il messaggero, colui che annuncia e Maria, la vergine, colei che accoglie. Sullo sfondo lo Spirito, il Pneuma vitale, il verbum che vuole divenire caro, l’ombra che si stende sulla virgo e la feconda. All’evento formidabile non sono presenti i genitori di Maria, né Giuseppe, né ovviamente Gesù. Ciò significa che l’unica fonte dell’evangelista Luca fu lei, la sola presente quel giorno a Nazareth, Maria stessa. Luca, l’evangelista dell’infanzia, nella tradizione cristiana diventerà il patrono dei pittori, perché il solo che si sia cimentato nel dipingere un ritratto di Maria, una icona che avrebbe fatto da modello a tutte le immagini successive fino a noi.
L’evento divenne festività solenne della chiesa intorno al VI secolo. Della festa abbiamo testimonianze precise a Costantinopoli attorno al 530. A Roma la festa fu introdotta da Papa Sergio I (687-701), un italo-siro proveniente forse dalla Sicilia, con una processione seguita da una celebrazione liturgica a Santa Maria Maggiore, basilica i cui mosaici erano legati alla divina maternità di Maria stabilita dal Concilio di Efeso del 431. Sin dall’inizio la festa fu celebrata il 25 marzo, quindi nel periodo quaresimale, un tempo dunque che per sua stessa elezione – tempo di austerità, purificazione ed espiazione- escluderebbe qualsiasi solennità fino a Pasqua. Perché questa eccezione? Perché l’Incarnazione del Verbo è l’inizio della sua Pasqua: perciò la festa del 25 marzo, già a partire dal IV/V secolo è considerata l’inizio dei tempi nuovi, l’inizio della fine: l’espressione patristica greca rhìza tón heortón, “radice delle feste” come la definisce Giovanni Crisostomo – con la quale si denomina questa data – vuole indicare il giorno che comprende tutti i giorni: il giorno summa di ogni altro giorno. Seguendo l’ipotesi che spiega la festa del Natale fissata al 25 dicembre in dipendenza dal 25 marzo (e non viceversa), i Padri – fin dal tempo di Tertulliano – credevano che questo giorno, equinozio di primavera, segnasse simbolicamente tre eventi centrali: la creazione dell’uomo, il concepimento verginale del Verbo e la sua stessa morte. Ciò significa che Cristo da subito è interpretato dalla sensibilità cristiana come l’uomo nuovo, il nuovo Adamo e Maria come la seconda Eva, la madre della salvezza. Canta un inno di Andrea di Creta a proposito dell’annunciazione: “La terra si unisce al cielo, Adamo è rinnovato; Eva è liberata dalla primitiva afflizione, e la tenda della nostra natura diviene tempio di Dio, per la deificazione della nostra condizione da Lui assunta”
Molti artisti, in pittura, scultura, letteratura, si sono cimentati nella sfida di rappresentare l’episodio
dell’annunciazione. E non poteva che essere così: si tratta infatti di un evento che insieme all’episodio della natività presenta un carattere al contempo narrativo e teofanico: l’angelo da una parte e il Dio-bambino dall’altra si rendono manifesti nella storia. Il legame del divino con l’umano non è più celato, invisibile, absconditus, ma si fa scena di vita quotidiana, “euangelion” buona novella da raccontare e evento da rappresentare. La pittura di tutti i secoli ha riempito il nostro immaginario di Marie meditabonde, lagrimose, contemplative, estatiche al cospetto del messaggero divino. Ogni artista ne ha dato una esegesi, ne ha profilato un tratto, ne ha rivissuto il senso a suo modo.
Per meglio capire la novità che l’’Annunziata di Antonello riveste vorrei proporvi un breve percorso storico-iconografico tra le immagini dell’annunciazione:
Partiamo da un dipinto della trazione orientale, che nell’arte iconografica ci ha lasciato una eredità straordinaria di sapienza teologica ed artistica. Questo tema ha conosciuto proprio in Oriente, certamente subito dopo il concilio di Efeso, uno sviluppo particolare. L’iconografia ha il merito di aver sintetizzato e fatto fecondare molteplici tradizioni, che includono il contributo dell’arte classica e della letteratura apocrifa, specialmente del protovangelo di Giacomo e dello Pseudovangelo di Matteo. L’icona nel mondo orientale non è solo un oggetto sacro, ma diviene il luogo di incontro di Dio con il cuore dell’uomo fedele, una vera e propria finestra sul divino capace di esprimere una ricchissima teologia per immagini.
Una delle immagini più antiche dell’Annunciazione è l’icona conosciuta come “l’Annunciazione di Ustiug” dipinta nella prima metà del XII secolo a Novgorod e conservata alla Galleria Tretjakov.
L’impianto figurativo è molto sintetico e densamente simbolico, caratteristica precipua dell’arte iconografica. L’arcangelo Gabriele, a sinistra, sta di fronte alla Vergine Maria. Il suo atteggiamento è deciso ed equilibrato. La postura e le ben definite pieghe verticali della veste rafforzano l’espressione di pace e fermezza; il messaggero è la parola potente di Dio, la mano destra benedicente si indirizza a Maria per salutarla e interpellarla.. Maria, vestita di un maphorion manto di colore rosso vino (il colore della divinità, della regalità ) e di una tunica di colore azzurro scuro (colore dell’umano) e verde (colore della terra), ascolta l’arcangelo. La sua espressione esprime il consenso attraverso la testa inclinata, segno evidente della sua umiltà. L’annunciazione ha colto la Vergine Maria durante il lavoro: nella sua mano sinistra regge un gomitolo di lana, il cui filo rosso porpora pende dalla mano destra. Con la mano copre premurosamente la trasparente piccola figura del Bambino, che appare sullo sfondo scuro del suo grembo svuotato della sua carne e riempito della divinità. Sopra l’arcangelo e la Vergine, in un semicerchio azzurro è presentato in un trono rosso l’ “Antico di giorni”, l’immagine in cui Dio appare al profeta Daniele in una delle sue visioni (Dan 7, 9). Naturalmente tutti gli elementi contenuti nell’icona racchiudono un profondo significato simbolico che andrebbe approfondito.
Vale la pena soffermarsi su due particolari: l’assenza di uno sfondo architettonico e la presenza del gomitolo. A ben guardare, l’ambiente in cui avviene l’incontro tra l’angelo e Maria non è affatto rappresentato. Non è una casa, non è una stanza, non un tempio, di fatto non c’è alcuno sfondo e, fatto ancora più caratteristico – manca del tutto la ricerca di una qualche percezione prospettica. L’iconografo ha sottratto allo sguardo l’ambientazione: il luogo dell’incontro è un non luogo, è un atopon, perché non si colloca fuori ma dentro. Per questo è uno spazio sacro e non va rappresentato realisticamente, secondo le regole dettate dall’occhio umano o dalla natura, ma secondo le regole della teologia di Dio. Lo spazio dell’angelo e quello della vergine sono distinti, agiti dai due personaggi in modo diverso, ma un fatto è chiaro: Dio è sceso dal cielo sulla terra, perché la terra diventi la sua dimora. Il tempio antico è superato, il luogo sacro è Maria stessa, è lei, la sua carne, il suo corpo il tempio dell’Altissimo.
Il secondo dettaglio è altrettanto significativo: Maria regge nella mano un gomitolo di filo rosso. Qui le fonti dell’iconografo sono certamente due: la prima è il passo del libro dei Proverbi in cui viene descritta la donna saggia dove si insiste proprio sul lavoro delle mani tipico della donna forte
Leggiamo il passo al cap. 31;
10 Una donna virtuosa chi la troverà ?
Il suo pregio sorpassa di molto quello delle perle.
11 Il cuore di suo marito confida in lei,
ed egli non mancherà mai di provviste.
12 Lei gli fa del bene, e non del male,
tutti i giorni della sua vita.
13 Si procura lana e lino,
e lavora gioiosa con le proprie mani.
19 Mette la mano alla rocca,
e le sue dita maneggiano il fuso.
22 Si fa dei tappeti,
ha vesti di lino finissimo e di porpora.
Questo dettaglio entra di prepotenza anche nel racconto apocrifo del protovangelo di Giacomo, testo in cui abbondano i dettagli sulla infanzia della vergine Maria. Qui leggiamo che il sacerdote del tempio volle che dodici vergini della tribù di Davide tessessero il velo del tempio: Egli le chiamò nel tempio e disse: Su, tirate a sorte chi filerà l’oro, il bisso, la seta, il giacinto, lo scarlatto e la porpora genuina. A Maria toccò lo scarlatto e la porpora ; li prese e se ne tornò a casa. Un giorno, presa la brocca, uscì ad attingere dell’acqua dal pozzo. Ed ecco una voce che dice: Gioisci, o piena di grazia il Signore è con te. Benedetta tu tra le donne. Essa guardava attorno donde venisse la voce. Tutta tremante se ne tornò a casa, posò la brocca, prese la porpora e si sedette sul suo scanno a filare. Ed ecco un angelo del Signore si presentò dinanzi a lei: Non temere Maria. Etc…
Questo racconto è molto significativo sul piano teologico e iconografico: Il manto di porpora che campeggia sulla Vergine è dunque una allusione al velo del tempio da lei stessa cucito. Di nuovo dunque è lei il nuovo tempio di Dio, lei che Dio ha rivestito di regalità perché ha detto il suo fiat, lo ha accolto. Ed il filo che ha in mano è il filo del corpo di Cristo, il corpo regale che lei sta tessendo dentro di sé. Il filo traduce in immagine concreta ciò che ha sentito dall’angelo, cioè Maria sta tessendo un corpo alla parola di Dio.
Facciamo un salto nell’arte sacra occidentale e prendiamo come esempio un genio dell’arte italiana:
Fra’ Giovanni da Fiesole, conosciuto come il Beato Angelico, che operò in Italia fino al 1455, anno della sua morte, dipinse intono agli anni trenta del ‘400 diverse annunciazioni, si trattava infatti di un tema molto sentito nella pittura fiorentina.
Questa annunciazione che si colloca intono al 1430-1432, destinata a san Domenico a Fiesole, è conservata al Museo Del Prado.
L’episodio è svolto secondo lo schema compositivo che diverrà il più diffuso nelle Annunciazioni della tradizione occidentale: esso ritrae il mistero dell’Angelica Confabulatio tra l’Angelo entrato da sinistra, al cospetto di Maria posta invece sulla destra. In questa tavola sia l’angelo che Maria sono ritratti in un atteggiamento diverso dai personaggi dell’icona russa: si direbbe che l’arcangelo Gabriele, più umile e riverente, abbia appena finito di proferire l’annuncio e la vergine, avvolta in un manto azzurro – colore che la tradizione occidentale preferirà al rosso – e con tutto il bacino significativamente reclinato, sia colta nell’atteggiamento di dire il suo sì alla domanda (le mani che entrambi i personaggi tengono incrociate sul petto nel medesimo modo indicano proprio il reciproco accoglimento, l’una delle parole dell’altro).
Ma i due non sono gli unici protagonisti di una scena affollata. Il raggio di luce molto evidente che proviene dall’angolo in alto a sinistra dalla mano di Dio, percorso dalla colomba e puntato su Maria, raffigura la discesa dello Spirito Santo su di lei. La figura di Dio Padre appare nel bassorilievo tra i due archi del portico. A questo si aggiunge la scena della Cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva che fa da controscena sull’estrema sinistra della tavola. Il pittore ha voluto esplicitamente porre Maria nella tradizione escatologica della salvezza come la nuova Eva, colei che diventa la nuova madre dell’umanità trasformando il nome di Eva in Ave.
Tre elementi vanno focalizzati per cogliere come sia cambiata la rappresentazione dell’evento nell’arte rinascimentale e quale sia il senso teologico e iconografico di questa tavola
Prima di tutto l’ambientazione e la ricerca prospettica: l’architettura entro cui le figure sono collocate acquista una importanza centrale nel dipinto. Essa riporta recta via al Vangelo di Luca che pone l’accaduto nella casa della vergine. Il porticato con le colonne in primo piano, assi di collegamento tra terra e cielo, delimita lo spazio scenico principale e apre sull’interno lasciando intravedere uno scorcio domestico: una stanza dalle pareti chiare alle quali sono addossati alcuni mobili, in particolare una panca, illuminata da una piccola finestra. Lo spazio dunque si rappresenta come reale, oggettivo, quotidiano, ma non solo. Come sottolinea il critico d’arte francese Daniel Arasse: Nelle Annunciazioni del Quattrocento lo spazio architettonico è mise en page prospettica della dimora trinitaria. I personaggi, Gabriele e Maria, disposti perpendicolarmente all’asse del sistema geometrico, obbediscono ad una regola imprescindibile: se la Vergine può essere dipinta secondo diverse angolazioni, il volto dell’angelo deve sempre stare di profilo, figura teorica del testimone della storia presente nella storia stessa. Il dispositivo della prospettiva svolge un ruolo dominante, perché oggettiva il significato spirituale di questo “mistero” raccontato obiettivamente, luogo in cui l’Eternità divina entra nel tempo umano, valica la soglia terrena”. E noi, fruitori del quadro, assistiamo a questo evento, come spettatori estatici ed inermi.
Altro elemento da evidenziare è la presenza del libro sulle ginocchia della Vergine. Esso naturalmente rimanda alla profezia di Isaia che si compie in Maria:
“il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele” (Isaia 7,14). Ma non solo. Nella patristica mariana la Vergine è spesso associata all’immagine del libro, definita come Liber Generationis Christi (Ernesto di Praga), Liber Dei manu scriptus (Efrem il Siro), Verbi silentis muta mater, “Madre muta del Verbo silenzioso”, libro mistico, che ha presentato alla conoscenza degli uomini la parola di Dio, sede della sapienza divina. Esso svolge la funzione di raddoppiare l’indicazione della presenza del Verbo che si sta facendo carne nel grembo di Maria come già si è fatto presenza nella Scrittura sacra. Con questa analogia visiva tra Maria e sacra Scrittura (Virgo liber Verbi), l’evento della gravidanza è sottratto al
semplice accadimento esistenziale e diventa opera divina, annunciata nella scrittura da secoli. L’arte occidentale non capisce più il significato simbolico del gomitolo di lana presente nell’iconografia orientale, e si serve del rotolo e del libro per esprimere la dimensione trascendente ed escatologica dell’evento.
Ultimo elemento da approfondire è il contesto culturale, cioè la teologia mariana che ha ispirato e formato l’immaginario religioso del Quattrocento. Nell’autunno del Medioevo, a partire dal XIV secolo, la sensibilità religiosa è in profondo mutamento; questa stagione appare come il tempo in cui si dissociano tutti gli elementi che i classici medievali avevano cercato di formare. L’unità religiosa è incrinata dalla scisma d’Occidente che vede due papi, uno a Roma e uno ad Avignone, la Chiesa è in uno stato di corruzione profonda e prende corpo sempre più l’esigenza di un forte rinnovamento in capite et membris, la Scolastica inizia la sua parabola discendente, e viene contestata come via per raggiungere Dio, la peste nera affligge il popolo e accentua il sentimento di precarietà, che suscita un pullulare di pubbliche penitenze e flagellazioni, ma anche un accentuarsi di mariofanie e un dilagare di culti a santi sempre più “bizzarri” e a reliquie sempre più improbabili. Di fronte al triste spettacolo offerto dalla cristianità, degenerata, inaridita da sottigliezze intellettuali e chiusa nel formalismo, la comunità cristiana cerca una via di salvezza in una spiritualità, che torni ai valori evangelici originari orientati all’imitazione di Cristo, insistendo sull’interiorità come luogo privilegiato della conversione, del dialogo con Dio. In questo clima matura un’opera come l’Imitatio Christi (1441) attribuita a Tommaso da Kempis che ebbe un successo straordinario (3000 edizioni in 95 lingue). Questa spiritualità, che noi definiamo come devotio moderna, sarà diffusa in Italia dall’opera di grandi predicatori francescani, quali soprattutto san Bernardino da Siena, sant’Antonino di Firenze, fra Roberto Caracciolo, le cui prediche influenzarono profondamente la sensibilità popolare e non solo. Tutti costoro dedicarono alla figura di Maria una attenzione straordinaria; ella appare come un sommo valore, anzi un sistema di valori in quanto incarna un modello di virtù umane e divine e costituisce il miglior referente collettivo per coagulare tutti gli aspetti della devozione popolare.
In particolare a Fra Roberto Caracciolo, originario di Lecce, vanno attribuiti alcuni sermoni sulle feste mariane e quindi anche sull’Annunciazione in cui, nell’esegesi dei contenuti teologici del testo di Luca, egli suddivide il colloquio tra l’Angelo e la Vergine in 5 momenti successivi, corrispondenti ai diversi stati d’animo di Maria:
Conturbatione: Maria è turbata non tanto per l’apparizione dell’angelo (sulla scorta dei vangeli apocrifi i vari commentatori sono soliti sottolineare come lei fosse abituata alle apparizioni angeliche) quanto per il saluto in sé, che non comprende. (Non temere perché hai trovato grazia presso Dio, Trovare grazia è una locuzione della poesia amorosa semitica usata ancora oggi nei paesi arabi per dire: Tu piaci molto a qualcuno, è come se l’angelo dicesse: Maria tu piaci tanto a Dio; gli occhi da Dio diletti e venerati)
Cogitatione: dopo aver ascoltato l’annuncio, Maria è perplessa e ci pensa un po’ sopra
Interrogatione la Vergine rimanendo perplessa chiede all’angelo come questo possa avvenire visto che non conosce uomo.
Humiliatione: alla risposta dell’angelo subentra l’accettazione dell’annuncio da parte di Maria, che si definisce serva di Dio
Meditatione: l’episodio si conclude dopo la partenza dell’angelo con il momento del concepimento vero e proprio, che corrisponde per Maria allo stato d’animo della grazia
Questa analisi del testo evangelico ebbe un particolare successo e potrebbe aver ispirato ed alimentato la sensibilità degli artisti del quattrocento nel rappresentare la scena del dialogo tra l’angelo e la vergine. come nel caso del Beato Angelico, che nello scegliere di rappresentare uno o più momenti successivi di questo dialogo pare aver concentrato l’attenzione sullo stato d’animo dell’humiliatio. Ma non fu il solo.
Arriviamo quindi al nostro Antonello da Messina.
La pochissime notizie sulla sua biografia e la scarsa produzione attualmente riconosciutagli fanno di lui una meteora misteriosa e luminosa nella storia dell’arte italiana.
Nacque a Messina nel 1430. Figlio di un tagliapietre locale. La sua prima commissione è registrata nel 1457 e si trattava di un gonfalone per una confraternita di Reggio Calabria. Tra il 1450 e il 1463 – 65 compie il suo apprendistato presso Napoli nella bottega del pittore Colantonio. Sempre a Napoli entra in contatto con l’arte fiamminga, portata nella città dai pittori Van der Weyden, Yan van Eyck e Petrus Christus dai quali apprese oltre all’uso della luce e alla definizione dei particolari e dello spazio, anche la tecnica della pittura ad olio. Successivamente dal 1465 ai primi anni `70 andò via da Napoli e probabilmente si recò a Firenze, dove entrò in contatto con l’arte Rinascimentale fiorentina, in particolare con quella di Piero della Francesca dalla quale trasse l’uso sapiente della prospettiva. Tra il 1475 – 76 si reca a Venezia. Nel 1476 torna in Sicilia dove rimarrà fino alla morte nel 1479.
Antonello dedica la tema dell’Annunciazione quattro dipinti straordinari. Esamineremo gli ultimi tre in ordine cronologico.
Il primo è l’Annunciazione di palazzo Bellomo a Siracusa, documentata al 1474 ed appena restaurato. Si tratta di un dipinto ad olio in cui il tema è rappresentato in modo apparentemente tradizionale allo schema iconografico rinascimentale: la Madonna e l’Angelo a figura intera, l’uno inginocchiato di profilo, l’altra di tre quarti, sono inseriti all’interno di una stanza magnifica dall’architettura di sapore quattrocentesco, arricchita di dettagli straordinari di gusto fiammingo e di uno sfondo con un paesaggio all’orizzonte impareggiabile. Quello che più impressiona nel dipinto è la regia sapientissima della visione prospettica con la fuga di stanze che sfogano su un esterno vividamente rappresentato a piccole virgole di colore e l’uso dell’ombra o meglio della triplice fonte di luce (due da sinistra e una che proviene dal chiarore delle finestre), che è lo straordinario elemento unificante della composizione: l’effetto complessivo è di una stanza ombrosa dove, nonostante la densità oscura, gli oggetti sembrano animarsi e scintillare facendo risaltare la chiarità delle figure. Maria veste di un mantello azzurro che ritornerà nell’Annunziata mentre la sua veste rossa di broccato ricco e lucente verrà sostituita da un vestito appena accennato, ma molto più povero. Le sue mani, congiunte al petto, ricordano perfettamente l’immagine tradizionale della serva del Signore nel momento della humiliatio. L’angelo, sontuosamente abbigliato, è raffigurato in atto di riverenza.
Vi sono però due elementi che rompono con la tradizione: il primo è l’assenza di Dio Padre. Di solito il volo dello Spirito Santo, sotto forma di colomba, è guidato dalle mani di Dio, ma qui la figura di Dio è scomparsa. Della sua azione abbiamo gli effetti, ma non l’immagine. La colomba, quasi un fantasma di luce, è scissa in due, e il suo volo viene dall’esterno. Altro elemento sorprendente è il ramo di palma nella mano sinistra dell’Angelo, al posto del più consueto giglio. Essa è segno della futura passione di Maria, cioè del dolore che la attende per la morte del Cristo.
Il dipinto successivo a questo sullo stesso tema è l’Annunziata di Monaco, datata in maniera molto incerta tra il 1473-75, cioè poco prima del viaggio a Venezia. Si tratta di un passo di evidente novità iconografica e concettuale in cui per la prima volta Antonello decide di stravolgere la raffigurazione tradizionale del tema. La Vergine, su uno sfondo scuro e del tutto privo di riferimenti spaziali, è rappresentata sola, a mezzo busto, completamente frontale rispetto allo spettatore che è separato da lei da un parapetto in legno pendente verso l’esterno, su cui si poggia il libro aperto. Il suo manto è blu e il vestito, appena accennato, rosso vino. La testa, circondata da un nimbo sottilissimo, è inclinata verso sinistra, come sottolinea la tensione del muscolo del collo, e rivolge lo sguardo nella stessa direzione da cui proviene la luce. L’angelo, assente, è entrato da sinistra e le ha dato il saluto. Lei, con la bocca aperta, in contraccambio dell’annuncio, sta per dire il suo sì, come le mani incrociate sul petto rivelano. La trasgressione iconografica operata da Antonello in questo dipinto consiste soprattutto nella totale eliminazione della figura angelica. Qui Maria appare come fosse soggetto scelto di un ritratto e viene colta nell’istante stesso del suo fiat a un angelo invisibile ma presentissimo, in una scena “fortemente pneumatica” a cui noi spettatori assistiamo come fossimo capitati lì, quasi per caso, ospiti silenziosi ed inconsapevoli. Il passo avanti è evidente. Antonello vuole coinvolgere emotivamente colui che guarda, eliminando ogni possibile fonte di distrazione. Lo spazio dell’evento viene annullato, così come il suo artefice divino; ciò comporta una nuova tappa nel percorso di interrogazione e comprensione di questo mistero spirituale: la distinzione tra personaggio/ambiente interno/ambiente esterno (carne, casa, cosmo) è superata perché superflua. Dall’illusorietà plastica del reale che Antonello ha ereditato dalla pittura fiamminga nella ricerca della rappresentazione dei particolari più infinitesimali di una scena il pittore è passato a quello che la critica definisce, con termine oggi stereotipato, “incarnato”. In realtà l’incarnato di Antonello è un “farsi carne” della pittura, è il tentativo di svelare ciò che è velato e che non si può vedere, di rappresentare l’invisibile. Il sacro infatti non ha dettagli, né contorni, perché è germinato nel cuore di Maria, nel suo essere, e lì la luce, la sua figura e le sue mani attirano il nostro sguardo. Come ha egregiamente detto E. Corbin, “è nell’anima e non nelle cose che si compiono le ierofanie ed è l’accadimento dell’anima che situa, qualifica e rende sacro lo spazio in cui è immaginato”. Antonello ha osato dare immagine sensibile a questa Idea sovrasensibile.
Ma c’è di più. E il di più è rappresentato dal capolavoro assoluto di Antonello: l’Annunziata di Palermo.
Partiamo dallo sfondo: il buio nero dello sfondo inghiotte ogni spazio reale e dona assoluta plasticità alla figura. Essa è chiusa in un severo manto azzurro dalle pieghe appiombate che si fissano al tavolo, formando una vera piramide. Entro la linea triangolare del manto si iscrive un altro triangolo con il vertice in basso: la profonda scollatura incastona come un gioiello di perfezione geometrica tre ovali assoluti: il volto, l’ombra e il velo. La stilizzazione geometrica della figura è accentuata dalla scomparsa dell’aureola, di ogni dettaglio di veste e soprattutto dalle linee rigorose degli occhi, del naso e della bocca, che ne fanno un volto ieratico e distante, quasi fosse distillato da ogni incidente terreno nella sua immacolata inarrivabile purezza. Gli occhi fanno scendere lo sguardo in basso a sinistra, da dove proviene la luce e forse l’angelo, che naturalmente è assente. La piega della stoffa nel mezzo del capo – Sciascia dice pare sia il vestito buono conservato nella cassapanca tra gli altri del corredo e tirato fuori nei giorni delle feste – determina l’asse della composizione che scende netto lungo la linea del naso diritto, prosegue seguendo il vertice della scollatura, giù per le nocchie delle dita della mano destra, fino alla prominenza dell’inginocchiatoio.
Tutto è perfettamente e rigorosamente calibrato per creare una sintesi di perfezione formale e strutturale, ma a ben guardare, aumentando il grado di stilizzazione, si accentua ancor di più la drammatica “profanazione” del tema che Antonello ha operato: e il segreto sta nello straordinario gioco prospettico che si muove sensibilmente in questo quadro. Vediamone alcuni dettagli significativi.
La figura di Maria sembra perfettamente frontale allo spettatore, ma non lo è. A ben guardare, rispetto alla Madonna di Monaco, è stato eliminata la balaustra perpendicolare allo spettatore da cui appariva la figura e che creava una separazione tra Vergine e Angelo-spettatore ed è stata sostituita da un leggio di legno disposto in obliquo il cui spigolo, raddoppiato dallo spigolo dell’inginocchiatoio, punta verso di noi e pare rompere la divisione tra spazio reale e spazio pittorico. Ma non solo. La Madonna non è affatto immobile sull’asse mediano, ma pare lievemente girare verso sinistra con la spalla e soprattutto con la mano sinistra che si offrono più vicine al nostro sguardo. Questa mano, la più bella mano della storia dell’arte, la definisce Roberto Longhi, o meglio il suo gesto che avanza deciso, fora letteralmente lo spazio e ne tenta cautamente il limite, costituisce uno degli esempi più eccellenti di eminentia, cioè di ricerca di un aggetto illusionistico che esca dal piano della tavola dipinta per proiettarsi sullo spettatore. Contrapposta è la mano destra, tesa a stirare il manto e a chiuderlo su di sé, con gesto modesto e moderato, mentre il libro spostato tutto a destra alza nell’aria il fendente affilato del suo foglio, quasi un soffio leggero di vento lo avesse appena scompaginato.
Questa immagine è quindi carica di una potenzialità drammatica che ci sorprende e ci interpella. Alcuni storici dell’arte vi hanno voluto vedere la sintesi architettonica-iconografica di tutta la storia dell’annunciazione nei suoi diversi momenti: Conturbatione, Cogitatione, Interrogatione Humiliatione, Meditatione, partendo dal gesto della mano fino al volto estatico di Maria. E questa è interessantenon solo sul piano artistico, ma anche su quello più profondamente simbolico, perché Antonello non ha voluto lasciarci il fotogramma di un istante, ma un vero e proprio itinerario, la narrazione visiva di un percorso.
Noi che guardiamo non siamo al posto dell’angelo, non siamo spettatori silenziosi, non siamo ospiti inconsapevoli di un evento, siamo i destinatari e, in quanto tali, i protagonisti.
Questo quadro è dunque in termini simbolici, ma anche in qualche modo teologici l’immagine di una visitazione; il divino visita l’umano e lo fa nel solo modo in cui può accadere, come una apostrofe muta, cioè nel paradosso della sua presenza assente o della sua assenza presente. Come ben suggerisce lo storico dell’arte Jean-Luc Nancy, sono i due movimenti, del corpo e dello spirito, che la mano di Antonello ha saputo così magistralmente sintetizzare, raccontandoci l’annunciazione: da una parte “l’eccomi, l’hoc est corpus meum, il farsi carne del verbo che pone l’accento appunto e una volta per sempre sul corpo, sulla sua presenza, sulla fisicità dell’essere presente: peso, dimensioni, materia con tutto l’invisibile che la cosa porte in sé, e dall’altra vi è la radicalità di un divino che non si può e non si deve vedere, è il ritirasi di Dio, il Deus absconditus”. Ecco che questo capolavoro di Antonello compie il prodigio non di rendere visibile, ma di mettere l’invisibile in luce, tendendo amorevolmente il nostro sguardo – la mano di Maria ne dà la direzione – a ciò che eccede ogni visione, ogni memoria, ogni oblio eppure ci è vicino, è dentro di noi, è noi. Troopo vicino e troppo lontano, il paradosso del Dio-uomo.
Qui sta l’annuncio che interpella, qui la risposta dell’interpellato: il parto umano del divino.
La chiamata per questa donna non è da intendere come un fuggire dal reale, come un immergersi in un sogno sublime, ma al contrario un arrendersi ed aderire ad una presenza, un partecipare attento e cieco insieme alla sostanza tangibile di un concepimento intangibile, di un figlio da partorire. La realtà di essere madre, di avere un figlio, il Figlio di Dio, del suo Dio, davanti alla sua fragilità, alle sue debolezze, alle sue miserie di donna in carne e sangue non può non averla scossa, turbata, devastata, ma solo da questa scossa profonda, da questo salto nel buio del suo grembo accogliente può avere inizio il cammino dello spirito. Si tratta di un itinerario che parte dal “tremendum” che ogni divino porta in sé e conduce alla conversio che il divino opera in noi. Questa metabolè, cambiamento, esclude ogni idea di piacere, illusione o autocompiacimento, a vantaggio di quella mobilitazione dell’essere, che è il solo fondamento dell’amore. Perché in fondo questa donna ha osato dire e farsi sì di una profonda e delicatissima possibilità, la possibilità della fede.
E qui ci viene in soccorso un magnifico pensiero di Simone Weil, meditato a lungo da Cristina Campo: “Aver fede nella realtà di qualcosa – se si tratta di qualcosa che non è né constatabile né dimostrabile, significa accordare a questa possibilità una certa qualità di attenzione. Ma che vuol dire attenzione? Essa è qualità della pazienza, che risiede nel sapere attendere per far venire alla luce la realtà vera, quella che va oltre la legge della necessità, ed è qualità dell’umiltà, cioè capacità di “obbedire” a quell’invisibile che va ben oltre l’onnipotenza del visibile. Occorre cioè perdere i connotati dell’io, farsi trasparenti, poiché l’io non è altro che l’ombra proiettata dal peccato e dall’errore, che arrestano la luce di Dio. A colui che senza speranza si affida all’insperabile e muore al proprio io è affidata questa sorte meravigliosa:. Come il chicco di grano nella buio della zolla, chi si affida non conta su eventi particolari perché è certo di un’economia che racchiude tutti gli eventi e ne supera il significato come l’arazzo supera i fiori e gli animali che lo compongono”.
La fede nell’incarnazione è la pienezza dell’attenzione accordata alla pienezza di una armonia nascosta, l’accordo dell’umano col divino, il miracolo del Dio-con-noi. Questo è il cammino che il dipinto di Antonello ci suggerisce. Nel volto di sublime bellezza e umanissima grazia di questa giovane donna del popolo splendono le parole di una mistica bruciata al rogo nel 1310, Margherita Porete: “La verità della fede consiste nell’essere ciò che si crede. Solo chi è quel che crede, crede davvero” (Specchio delle anime semplici).