Sulla loquacità

 

(tratto da Lettera e Spirito n. 41)

Plutarco*

 

Plutarco (Cheronea, Beozia, 50 d.C. – 120 d.C.) fu discepolo ad Atene del platonico Ammonio, ricoprì diversi incarichi politici a Sparta, Alessandria e in Asia; fu più volte a Roma dove, divenuto cittadino romano, gli fu conferita da Traiano la dignità consolare e da Adriano quella di suo ambasciatore in Grecia. Il coronamento della sua vita fu il sacerdozio al tempio di Delfi, incarico che ricoprì nell’ultimo ventennio della sua vita e che ne mise in luce la spiritualità.

Le sue opere vengono generalmente distinte in due categorie: Vite parallele (Βίοι παράλληλοι) e Opere morali (τὰ ἠϑικά).

Le Vite parallele furono scritte per dimostrare le analogie, ma anche le differenze, tra gli eroi greci e romani. Oltre a quattro biografie isolate, sono esaminate le vite di ventidue coppie di personalità, una greca e una romana (Teseo e Romolo, Licurgo e Numa, ecc.). La continuità tra la tradizione ellenica e quella romana viene così messa in evidenza, ogni personaggio tende, da un lato, ad assumere la fissità dell’archetipo platonico, eterno modello da imitare, e, dall’altro, recita dinamicamente il suo ruolo di protagonista umano nel mondo del divenire.

plutarcoLe Opere morali, in cui si sogliono distinguere dialoghi e diatribe, sono insegnamenti che seguono le concezioni aristoteliche e neopitagoriche, avendo come canone la medietà delle passioni dominate e controllate dalla ragione. Da ciò deriva la tranquillità spirituale, elevata a virtù suprema. Lo stesso principio deve ispirare anche la politica che è, per Plutarco, l’arte di placare le folle e di conservare la pace, ruolo che riconosce all’impero romano.

Gli estratti dall’opuscolo Sulla loquacità che presentiamo mettono in risalto i danni causati da uno sconsiderato uso della parola e i benefici che al contrario caratterizzano il silenzio.

  1. Per la filosofia è difficile curare la tendenza a parlare troppo e a sproposito. La medicina adatta è indurre i chiacchieroni, attraverso il dialogo, a riflettere sul loro vizio. Ma la terapia vuole persone capaci di ascoltare: peccato che questi non sappiano farlo! Infatti sanno solo parlare senza sosta: ed è proprio l’incapacità di tacere il difetto peggiore di chi parla troppo. Io penso che loro vogliano proprio essere duri d’orecchi come forma di protesta nei confronti della natura che ci ha fornito di una sola lingua ma di ben due orecchi! […]
  2. Eppure, solo la lingua, a differenza di altre parti del corpo, ha per natura un mezzo di difesa, una fila di denti, proprio perché così noi possiamo a furia di morsi trattenere la sua intemperanza, quando non obbedisce alla ragione, che invece regge dal di dentro “le redini del silenzio“, e non è padrona di sé.

Dice infatti Euripide che

La sventura è la conseguenza di lingue senza freni, non di casseforti o case incustodite.1

Se si pensa che sia inutile possedere case senza porte oppure sacche senza lacci e al contempo si permette a una bocca senza freni di ogni sorta, di riversare di tutto, come dalla bocca del Ponto, allora vuol dire che alla parola non si dà alcun valore. Quindi, chi parla a vanvera non si presenta con quella credibilità che ogni tipo di discorso richiede: il fine intrinseco del discorso è proprio che gli ascoltatori si fidino di chi sta parlando, ma i ciarlieri non sono degni di fede neppure quando dicono il vero. Come il frumento, quando è chiuso nel recipiente, aumenta per fermentazione la sua massa ma perde in qualità, così un discorso sulle labbra di un ciarliero diventa eccessivamente falso e perde di credibilità.

  1. […] Nessuna parola detta è stata mai tanto utile quanto le molte parole non dette: mentre è possibile dire ciò che per molto tempo è stato taciuto, non è invece possibile tacere ciò che è stato detto, perché ormai si è diffuso e sparso ovunque. Per questo motivo, secondo me, gli uomini sono i maestri della parola, mentre gli dei sono i maestri del silenzio, dal momento che proprio loro ci ordinano di tacere nei riti iniziatici.2 […]
  2. […] Le persone che hanno ricevuto un’educazione nobile e davvero regale prima impa­rano a tacere e solo in un secondo momento a parlare.3[…]
  3. Chi potrebbe non sentirsi autorizzato a criticare liberamente uno che non è riuscito a stare zitto? Se una notizia non doveva proprio essere divulgata, si è fatto male a riferirla a un altro. Il punto sta lì: quando hai deciso di rendere partecipe un altro di un segreto, ti sei affidato alla sua lealtà, tradendo la tua. Certo, se quell’uomo è come te, sei perduto, e te lo meriti; se invece questo è più serio di te, allora sei salvo, ma solo per caso, perché hai trovato una persona che, nei tuoi confronti, è stata più leale di quanto tu lo sia stato con te stesso. “Ma questo è amico mio”, dirai a giustificazione del tuo comportamento. Ma costui avrà un altro a cui confidare il segreto, come ho fatto io con te; e questo a sua volta lo confiderà a un altro suo amico. Sarà, insomma, un continuo passaparola. La parola genera altre parole e si moltiplica per l’intempe­ranza verbale di tutti. Come la monade (l’unità) non esce dai propri limiti ma rimane sempre “una” (per questo appunto è chiamata “monade”), mentre la diade (la dualità) è l’inizio infinito di ciò che è diverso (subito infatti fuoriesce da se stessa e, da duplice, diventa molteplice), così la parola è un vero segreto, finché rimane nella bocca del primo individuo, mentre diventa una notizia pubblica se fuoriesce e passa a un altro. «Le parole» dice Omero, «sono alate». Se non è facile catturare di nuovo un uccello che è sfuggito di mano, è addirittura impossibile riprendere o gestire in modo efficace una parola uscita di bocca, perché essa è portata «in giro dalle ali veloci» passando da una persona a un’altra. […]
  4. Il commediografo Filippide rispose bene al re Lisimaco quando costui, per dimostrargli la sua benevolenza, gli domandò: «Vorrei regalarti qualcosa di mio, che cosa scegli?». «Quello che vuoi, o re» fu la sua risposta, «ma non un tuo segreto». Alla loquacità si unisce anche un altro comportamento ugualmente negativo: la curiosità. Infatti, i chiacchieroni vogliono sapere più notizie possibili per avere molto da raccontare. Per questo motivo vanno in giro a ricercare e a scovare i segreti più nascosti, per affidarli alla loro lingua chiacchierona come se fossero un mucchio di oggetti da vendere al miglior offerente. Come i bambini non vogliono né tenere né lasciare cadere il ghiaccio che hanno in mano, così i linguacciuti che tengono in petto come serpi i segreti che hanno raccolto, non riescono a tenerli a freno, ma si fanno divorare da loro. Le aguglie marine e le vipere nel momento del parto scoppiano, almeno così si dice, allo stesso modo, quando sono resi pubblici, i segreti rovinano e distruggono quelli che non sono riusciti a mantenerli. […]
  5. Quanto ho detto, però, non deve essere considerato un’accusa alla loquacità, ma un tentativo di curarla. Se possiamo vincere le nostre passioni con l’analisi critica e con l’esercizio, è certo che prima viene l’analisi critica e poi l’esercizio. Nessuno, del resto, ha l’abitudine di liberare la propria anima da ciò che non gli dà fastidio, mentre danno fastidio le passioni quando, con la ragione, ci accorgiamo che procurano danno e disonore. Così, a proposito dei chiacchieroni, percepiamo che essi vogliono essere amati e invece sono odiati, desiderano essere graditi e invece danno fastidio, pensano di essere ammirati e invece sono derisi, spendono e non ricevono alcun profitto, fanno del male agli amici e del bene ai nemici, finendo così per rovi­narsi. Perciò il primo rimedio e la prima medicina per curare questa malattia è la riflessione su quanto di vergognoso e doloroso deriva da questo comportamento.
  6. In secondo luogo, bisogna riflettere sull’atteggiamento opposto, cioè su quello che hanno le persone che ascoltano sempre, che ricordano e tengono ben presenti nella mente le lodi attri­buite alla riservatezza e la dimensione venerabile, sacra e solenne del silenzio; le persone che, parlando in modo conciso e sintetico, riescono in un breve discorso a dire molte cose assennate sono ammirate, sono amate e sembrano più sagge di coloro che parlano senza freno e senza ritegno. Uomini simili vengono lodati da Platone, che li paragona ad abili arcieri, capaci di pronunciare discorsi compatti, densi e sintetici. Licurgo, costringendo i suoi concittadini fin da piccoli al silenzio, li rese concisi e di poche parole. Come il ferro viene temprato dai Celtiberi, che prima lo immergono nella terra e poi lo ripuliscono dalle scorie, così il parlare laconico, nella sua essenzialità, privato di ciò che è superfluo, ha la consistenza del ferro. Le caratteristiche del loro versatile modo di esprimersi, che si basa sulle sentenze e sulle risposte aguzze, derivano dalla pratica di un lungo silenzio. Per questo motivo è assolutamente necessario far vedere ai chiacchieroni quanta grazia e quanta efficacia possiedano aneddoti di tal genere, come per esempio “Gli Spartani a Filippo: Dionisio a Corinto!”. Quando poi Filippo scrisse: «Se invaderò la Laconia, io vi annienterò» essi gli risposero: «Se». Quando il re Demetrio, indignato, gridando disse: «Gli Spartani mi hanno mandato un solo ambasciatore!», senza fare una piega l’ambasciatore rispose: «Uno solo a uno solo». Anche gli antichi apprezzavano quelli che parlavano in modo conciso: sul tempio di Apollo Pizio gli Anfizioni non fecero scolpire l‘Iliade o l’Odissea o i peani di Pindaro, ma “conosci te stesso” e “nulla di troppo” e “fatti garante, la rovina ti è accanto”, dimostrando così di apprezzare la forza e la semplicità della frase che racchiude in sintesi un concetto saldo, come forgiato con un martello. […]
  7. Se è impossibile frenare il chiacchierone con il “morso”, come si fa con i cavalli, per debellare questa sua malattia bisogna servirsi di continui esercizi. Innanzitutto, si abitui a tacere alle domande rivolte alle persone che gli stanno vicine, fino a quando, almeno, tutti non abbiano declinato l’invito a rispondere come sostiene opportunamente Sofocle.

Il fine di un consiglio e quello di una corsa di cavalli non sono uguali.

E nemmeno sono uguali il fine del parlare e quello del rispondere. Intatti, mentre in una corsa ottiene la vittoria chi arriva primo, quando viene richiesto un consiglio, la cosa migliore è procurarsi la fama di persona garbata elogiando e approvando insieme a tutti gli altri il parere di chi ha dato una risposta opportuna ed esauriente. Se invece la risposta fornita da un altro non ha soddisfatto completamente chi aveva richiesto il consiglio, non c’è nulla di riprovevole né di poco opportuno nello spiegare quello che non era chiaro e nell’aggiungere le informazioni che mancavano. Ma, soprattutto, stiamo bene attenti a non anticipare noi la risposta quando è un altro a essere stato interpellato. Anche in altre situazioni, poi, non è assolutamente corretto mettere da parte la persona alla quale è stata rivolta la domanda e rispondere noi al posto suo: comportandoci in questo modo daremo l’impressione di rimproverare contemporaneamente sia colui che è stato interrogato (sarebbe come se lo accusassimo di non essere capace di rispondere in modo soddisfacente), sia colui che ha posto la domanda (perché sarebbe come se lo accusassimo di non saper scegliere un interlocutore all’altezza della situazione). Per di più, questa precipitazione e questa presunzione nelle risposte sanno di arroganza, perché colui che previene la ri­sposta dell’interpellato sembra dire: “Che te ne fai di questa persona?”, oppure “Che cosa vuoi che ne sappia lui?”, oppure ancora “Visto che ci sono io, è assolutamente inutile chiedere ad altri”. […] Anche se la persona invitata a rispondere si rifiuta di parlare, il comportamento corretto consiste nell’indugiare per un attimo, nell’attenersi al desiderio di chi ha fatto la domanda e nel rispondere educatamente e con discrezione, consapevoli che la risposta che diamo era stata richiesta ad altri. Ricordiamoci che, mentre quelli che sono stati interpellati direttamente sono giustificati se non danno una risposta corretta, chi risponde di propria iniziativa levando le parole di bocca a un altro risulta odioso anche se risponde bene, mentre se poi gli capita di sbagliare finisce per essere deriso e preso in giro da tutti.

  1. […] bisogna abituarsi a prendere tempo e far trascorrere tra la domanda e la risposta un intervallo che permetta a chi ha posto la domanda di fare, se vuole, qualche precisazione, e che consenta a chi deve rispondere di esaminare bene ciò che gli viene chiesto, senza precipitarsi a parlare, perché così facendo si finirebbe per eludere la domanda con il dare, per la fretta, a chi non ha ancora finito di porre la domanda una serie di risposte l’una diversa dall’altra. […]
  2. […] E poi, tutte le volte che stiamo per parlare e le parole corrono verso la bocca, sarà bene unire e mescolare a questi esercizi anche le seguenti considerazioni e riflessioni: “Che discorso è mai questo che vuole uscire dalle mie labbra con una tale violenza? Perché la mia lingua è così agitata? Che cosa ci guadagno se parlo e cosa ci rimetto se me ne sto zitto?”. La parola non deve essere un peso che ci opprime e dal quale ci dobbiamo liberare: essa continua a rimanere con noi anche dopo che l’abbiamo pronunciata. Consideriamo, invece, questo punto: dal momento che gli uomini parlano o per fare un favore a se stessi, se hanno bisogno di qualcosa, o per fare un favore a chi li ascolta o per farsi un favore reciproco, rendendo piacevoli con la conversazione il tempo libero e le attività alle quali si dedicano, così come si rendono gradevoli i cibi con il sale, che bisogno c’è di parlare, se il discorso non è utile a chi lo pronuncia, non è necessario per chi lo ascolta e non procura piacere? L’inutilità e la futilità abitano tanto nelle parole quanto nelle azioni. A questa serie di riflessioni bisogna infine aggiungere e ricordare la massima di Simonide, che affermava «di essersi spesso pentito di aver parlato, ma di non essersi mai pentito di aver taciuto», e non si deve dimenticare che l’esercizio domina su tutto ed è più forte di qualunque altra terapia. Gli uomini riescono a curare la tosse e il singhiozzo, se ci prestano attenzione, ma se ne liberano con fatica e dolore. Il silenzio, invece, come dice Ippocrate, non solo non stimola la sete ma non causa neppure dolore o sofferenza.

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(*) Estratto dall’Opuscolo di Plutarco Della loquacità; cfr. Plutarco, Sulla loquacità, a cura di Simona Micheletti, La Vita Felice, Milano, 2011.

(1) Il concetto del rischio insito nel fatto di parlare senza freni è completato da altre argomentazioni scritte dall’autore in un altro testo: «Chi parla si pone dunque in una posizione di rischio perché dissipa energie e disperde parte del nascosto tesoro che porta dentro di sé. Con il parlare si priva di qualcosa, di un elemento fisico e materiale che fino ad allora gli era appartenuto, lo espone e lo lancia lontano senza possibilità di recupero» (Plutarco di Cheronea, Moralia II. L’educazione dei ragazzi, L’arte di ascoltare, a cura di Giuliano Pisani, Editrice Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1994).

(2) A proposito del silenzio è interessante segnalare quanto Plutarco scrive nel capitolo de Le vite paral­lele dedicato a Licurgo e Numa: «A Numa in persona risale invece, come ho detto, la messinscena dell’amore e della relazione segreta di una dea o di una ninfa montanina con lui, e dei suoi incontri confidenziali con le Muse. Infatti la maggior parte delle sue divinazioni le attribuiva alle Muse e una Musa in particolare insegnò ai Romani a venerare in modo speciale: la chiamò Tacita, nome che significa “silenziosa” o “muta”, come per ricordare e onorare il precetto pitagorico del silenzio». (Plutarco, Vite, vol. VI, a cura di Angelo Meriani e Rosa Giannattasio Andria, U.T.E.T., Torino, 1998).

(3) Da notare che pure Licurgo è strettamente legato al silenzio, infatti, nel testo a lui dedicato si legge: «Volle al contrario che l’espressione scarna e breve avesse un contenuto denso e straordinario, rendendo, con il silenzio, i fanciulli capaci di capire le sentenze e di dare risposte adeguate». E ancora: «Il discorso laconico pare scarno, ma arriva al nocciolo della questione e colpisce con la sua efficacia colui che ascolta» (Plutarco, Sulla loquacità, ibid.).

 

 


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