L’istituzione religiosa e il sacro

(Traduzione dal francese di Annamaria Iacuele)

Julien Ries

Il dominio del sacro è vasto nello spazio come nel tempo. Disponiamo di una copiosa docu­mentazione, a partire da Emile Durkheim fino a Mircea Eliade, passando per Rudolf Otto e molti altri specialisti dell’argomento. Per Dur­kheim e Mauss il sacro si concentra nella simbo­lica della società il cui prototipo è il totem. Quest’ultimo ha la sua fonte nel gruppo poiché è costituito dall’insieme dei sentimenti che pro­vengono dal clan. Così, Hubert e Mauss non esitano ad affermare l’identità di sacro e sociale e giungono a concludere: “è concepito come sacro tutto ciò che, per il gruppo e i suoi membri, qualifica la società ”. Tale prospettiva lega necessariamente il sacro all’istituzione sociale e religiosa.

Ascensione di Cristo (Jacob Monarchus 1125-1150) Paris, Bibliothèque nationale
Ascensione di Cristo (Jacob Monarchus 1125-1150) Paris, Bibliothèque nationale

Diverso è il punto di partenza di Otto e dei fenomenologi. Otto parte dall’esperienza reli­giosa dell’uomo che prova il sentimento di crea­turalità. Colto da un mistico spavento in presen­za del numinoso, l’uomo entra in una fase di tremendum che lo conduce al mysterium e lo fa sfociare nella grande luminosità, il fascinans. Si tratta certo di un’esperienza personale, di una rivelazione interiore che è la sorgente della religione personale. Tuttavia, confrontandosi con le diverse religioni del mondo, Rudolf Otto elabora una nozione importante, quella della lettura dei segni del sacro, una costante dell’umanità. Attraverso questa via Otto rag­giunge l’istituzione perché questa lettura non può farsi che grazie al simbolo e al rito. Eccoci quindi in presenza di comunità di preghiera, di libri sacri, della lingua, dell’ architettura e dell’ arte sacre. Nella lettura dei segni del sacro, supporto della vita religiosa e delle religioni, l’istituzione occupa un posto premi­nente. Costituisce la tela di fondo che permette questa lettura.

All’inizio della sua ricerca, Eliade ha conosciuto il doppio dossier Durkheim-Otto e ha compreso che questo lavoro costituiva una prima tappa a partire dalla quale si doveva avanzare per giungere a guardare il sacro come elemento centrale dell’esperienza religiosa dell’uomo. Si tratta quindi di non limitare la ricerca ad una teoria sociologica o fenomenologica del sacro. Ciò che conta per lo storico delle reli­gioni è l’analisi delle attitudini dell’uomo nel suo tentativo di trascendere la condizione umana al fine di prendere contatto con la Realtà ultima, con la Trascendenza. L’uomo che tenta questo passo è l’homo religiosus. Eliade accetta la dicotomia durkheimiana sacro-profano e riprende i risultati dell’analisi che Otto ha fatto dell’esperienza religiosa. Ma pretende di superare queste acquisizioni con un tentativo di comprensione dell’essenza e delle strutture dei fenomeni religiosi, colti ad un tempo nel loro condizionamento storico e nel comportamento dell’uomo.

Eccoci arrivati al punto di partenza per poter iniziare la nostra esposizione da un’angolatura precisa: l’homo religiosus e l’istituzio­ne.

I. Homo religiosus, sacro e istituzione

1 . Origini e tradizioni orali

Grazie a due decenni di scoperte africane che hanno fatto retrocedere in maniera spettacolare le frontiere della paleoantropologia, arriviamo a raggiungere l’homo erectus, faber e symbolicus, all’opera un milione e mezzo di anni fa. Se il taglio bifacciale degli utensili, la scelta della materia e del colore sono la prova dell’emergere della coscienza presso l’uomo arcaico, non ci permettono tuttavia di cogliere ancora una vera esperienza del sacro: questa comincia invece a divenire evidente con l’uomo di Qafez che è vissuto in Palestina, cento mila anni fa e con l’uomo di Neandertal che risale ad ottantamila anni. I loro riti funerari sono la prova della loro credenza nella Trascendenza. Dal 30.000 al 9.000 l’arte parietale di Spagna, di Francia e d’Italia è la testimonianza irrefutabile della “religione delle caverne” di cui parla Leroi-Gourhan. La straordinaria unità del contenuto artistico, conseguenza di uno stesso sistema ideologico, è la prima prova del legame tra l’homo religiosus e l’istituzione. Questa posizione è rinforzata dall’accordo degli studiosi della preistoria sulla natura di queste grotte, santua­ri destinati al culto e all’iniziazione, vere “cattedrali della preistoria”. Durante venti millenni, “il senso apparente delle immagini non sembra subire variazioni”.

Il mesolitico e il neolitico ci consegnano un vero edificio spirituale. Le scoperte recenti di Jacques Cauvin in Siria e in Palestina testimoniano un processo progressivo di sedentarizzazio­ne, cioè di “fissazione al suolo, in agglomerati di habitat costruiti, di comunità sempre più dense, che vivevano in un circondario stabile”. I villaggi si estendono in tutta la mezzaluna fertile, dalla metà dell’Eufrate fino al delta del Nilo.

Questa neolitizzazione è, secondo Cauvin, un fenomeno di trasformazione della società, dovuto alle sole leggi della dinamica interna. Questa dinamica interna, a parer mio, influenza in maniera diretta la crescita della religiosità : prime figure divine a Munhata; verso il 7800 nel villaggio di Mureybet sul medio Eufrate compare la simbolica della “coppia divina” (toro e donna); culto della dea a Çatal Hüyuk in Anatolia tra il 7100 e il 6500; ricchezza simbolica in tutti i santuari anatolici; affreschi raffiguran­ti rituali funerari.

La nostra copiosa documentazione attuale mostra che prima dell’esistenza delle tradizioni scritte, le tradizioni orali, organo delle tra­smissioni del messaggio all’interno delle comunità, hanno giocato un ruolo essenziale visibile nella coerenza e nella continuità dei documenti religiosi: rappresentazioni, riti funerari, affreschi, simboli, figure divine. L’istituzione religiosa è stata l’organo della coerenza delle idee e della trasmissione delle dottrine, dei simboli e dei riti.

2. Il vocabolario del sacro

Al termine della sua lunga marcia, l’homo sapiens divenuto sapiens sapiens nel paleolitico superiore ha cominciato a comunicare il suo pensiero moltiplicando segni e simboli. Più di cinque millenni fa ha cominciato a fissare nella pietra, nell’argilla, sul papiro, sulla pergame­na, sul legno e su altri materiali il suo discor­so relativo alla sua esperienza del sacro e alle sue credenze. A questo fine egli ha creato parole e sviluppato tutto un vocabolario: è l’origine del linguaggio del sacro. Attraverso la parola sakros, trovata a Roma con il Lapis niger del forum nel 1899, iscrizione datata agli inizi dell’epoca regale, entriamo nella linea del vocabolario del sacro. Derivato dal radicale Sak– questo vocabolo è all’ origine della formulazione del sacro: in germanico sakan, in hittito saklai, in greco hagios e hagnos, in osco sakrim, in antico islandese saka. Da sak- derivano sacer e sanctus. In conclusione, a partire dal radicale sak-, l’homo religiosus indo-europeo ha espresso il suo pensiero, generatore del suo comportamento.

Disegno della ricostruzione del tempio VII (prima metà del IV millennio a. C.). Medio oriente
Disegno della ricostruzione del tempio VII (prima metà del IV millennio a. C.). Medio oriente

Dall’indo-europeo si è potuti passare al mondo semitico utilizzando il tramite della Bibbia greca. Nel corso del III e II secolo ad Alessandria i traduttori hanno operato per rende­re la Bibbia ebraica leggibile ai Greci. Per tradurre le parole dalla radice qds, hanno scelto hagios e in tale maniera hanno aperto la strada allo studio del sacro nel mondo semitico e presso i Sumeri. I recenti lavori ora consacrati al dominio dell’espressione verbale del sacro nelle diverse culture e religioni ne sottolineano l’importanza.

Nel 1918, Joseph Vendryes pubblicava i risul­tati della sua inchiesta sui termini religiosi del mondo indo-iranico e del mondo italo-celtico separati l’uno dall’altro da distanze considere­voli. Questi due gruppi di lingue rivelano straordinarie corrispondenze tra i diversi termi­ni che si riferiscono alla religione: termini generali, nomi di funzioni e di qualità, designa­zioni di atti religiosi, nomi di oggetti e di strumenti. Una comunità di termini religiosi si è mantenuta presso i popoli che sono divenuti da una parte gli Indù e gli Iranici, dall’altra gli Italioti e i Celti.

Questa inchiesta portava Vendryes a occuparsi del problema e del ruolo dei collegi sacerdotali: bramani in India, preti avestici in Iran, pontefici a Roma, druidi in Gallia. Una costante si impone: queste quattro nazioni arie sono le sole ad aver mantenuto tradizioni religiose comuni così come un vocabolario religioso dalle corri­spondenze multiple. Per Vendryes questi fatti non si spiegano che attraverso il ruolo e le influen­ze dei collegi sacerdotali.

Questa scoperta ha illuminato la via sulla quale avanzava Georges Dumézil alla ricerca del pensiero arcaico indo-europeo. Ai suoi occhi, l’esistenza dei concetti religiosi espressi per mezzo di un vocabolario in gran parte identico fa presentire un pensiero religioso ariano arcaico. Passo dopo passo la scoperta delle equivalenze ha portato Dumézil a ritrovare l’eredità indo-euro­pea, che è alle origini di Roma, in India, in Iran, nel mondo celtico, germanico e scandinavo, nelle tre funzioni sociali: sovranità, guerra, fecondità -fertilità. Queste tre funzioni sono attività fondamentali che devono garantire tre gruppi: sacerdoti, guerrieri e produttori. A queste funzioni sociali si sovrappone una teologia delle tre funzioni divine. La prima funzione è quella del sacro.
Lo studio delle religioni germaniche ha portato Dumézil a una constatazione interessante: in Germania-Scandinavia la seconda funzione, quella dei guerrieri, ha prevalso sulla prima, cosa che ha condotto alla quasi sparizione dei collegi sacerdotali e da qui alla sparizione del vocabolario del sacro. Vendryes e Dumézil hanno così dimostrato che il vocabolario del sacro è legato all’esistenza di un’istituzione: quella dei collegi sacerdotali con i loro ritua­li, la loro liturgia del sacrificio, i loro usi e formule di preghiera, i loro testi e i loro oggetti sacri. La sparizione dell’istituzione porta con sé la sparizione del vocabolario del sacro e rappresenta un impoverimento religioso e culturale.

II. Memoria del sacro e istituzione

1. Mito e istituzione

Alogos i greci opponevano il mythos che per loro faceva riferimento al meraviglioso, mentre il logos era un modo di espressione dell’alétheia, la verità. Il radicale indo-euro­peo meudh-, mudh- fa pensare al riportare alla memoria. I primi testi a Sumer e in Egitto veico­lano miti che sono esistiti molto prima dell’invenzione della scrittura. Sappiamo oggi che i soffitti dipinti e le pareti delle caverne hanno conservato i miti che sottendevano la memoria dei clans del paleolitico superiore.

Il mito è un linguaggio (Levi-Strauss lo limita a un linguaggio). Il mito veicola anche un messaggio (una funzione essenziale messa in luce da Mircea Eliade). Ma il mito non si limita né a un linguaggio né a un messaggio. Lo ha chiara­mente mostrato Gilbert Durand in Le strutture antropologiche dell’immaginario: il mito è forma­to da simboli, “contiene comprensivamente il suo proprio senso”, cosa che gli dona uno spessore semantico. Per Gilbert Durand l’analisi del mito deve essere “analisi dello svolgimento discorsivo del racconto” e “analisi sincronica a due dimensioni”, una interna e l’altra comparati­va. Il nostro autore aggiunge “l’analisi degli isotopismi simbolici e archetipali”.

In breve diremo che il mito è memoria del sacro e questa definizione ci orienta verso l’aspetto puntuale del nostro proposito, cioè il mito cosmogonico, storia santa dei popoli e modello esemplare di ogni creazione. In ogni mito cosmogonico, dice Eliade, abbiamo “una storia primordiale e questa storia ha un inizio”. Questo inizio è implicato in un insieme di avve­nimenti che spiegano l’apparizione del cosmo, degli esseri civilizzatori, degli antenati miti­ci. Il mito cosmogonico spiega l’esistenza del cosmo, della società e degli uomini. Giustifica anche il comportamento di questi ultimi così come la loro condizione umana. Da allora in ogni società arcaica il mito cosmogonico occupa un posto centrale: è rivelatore, è modello di azio­ne, è archetipo per la vita sociale e individua­le. Il mito cosmogonico, storia santa delle origini e storia esemplare, sbocca in una tradi­zione e così diviene un’ esperienza del sacro.

In questa esperienza del sacro interviene l’istituzione intesa nel senso più largo: colle­gi sacerdotali, istituzione regale, collegio degli antenati o dei saggi. Il mito veicola la memoria di una comunità formata da uomini e da donne e serve da modello esemplare alla vita religiosa, sociale e individuale. Se la creazione dei miti e la loro trasmissione non possono farsi senza l’istituzione ciò è vero ancora di più per la loro riattualizzazione. Il mito cosmogonico ha un posto essenziale nella rigenerazione del tempo. Così presso tutti i popoli del Vicino-Oriente troviamo cerimonie e rituali del Nuovo Anno. La festa più celebre è quella dell’Akitu a Babilonia. I calendari religiosi dei popoli sono pieni di feste che ogni anno commemorano, cioè riattualizzano, gli avvenimenti cosmogonici. La festa è inseparabile dall’istituzione sia sacer­dotale, sia regale e nelle società arcaiche delle due ad un tempo.
È l’istituzione che ne prende la direzione e ne fissa le norme affinché sia conforme al mito e ne sorvegli lo svolgimento.

2. Sacro, storia e istituzione

L’Antico Testamento, il Nuovo Testamento e il Corano danno una visione nuova del sacro. Dio è l’Unico, il Trascendente che interviene con la sua Onnipotenza nella vita e nella storia dei suoi fedeli e del suo popolo. Questo Dio esige la fede del suo fedele, cosa che implica una espe­rienza religiosa di adesione personale e di santità. Abbiamo trattato queste questioni nei tre volumi L’espressione del sacro nelle grandi religioni. Qui io considero unicamente il sacro nella prospettiva della teofania. Mircea Eliade ha chiaramente spiegato cosa rappresen­ti per l’uomo la manifestazione del sacro che egli chiama ierofania. Quando in questa manife­stazione l’uomo percepisce nell’elemento invisibile e trascendente il Dio personale, parliamo di teofania.

a) Sacro e storia nell’Antico Testamento

Un primo avvenimento segnato dal sigillo della teofania, che noi ricordiamo, è la libera­zione dell’Egitto (Ex., 1-15) sotto la direzione di Mosè, avvenimento decisivo per la fede di Israe­le, vissuto come una liberazione prodigiosa, la salvezza per opera di Yahvé. L’avvenimento si è inciso nella memoria del popolo eletto e a questo avvenimento si è ricollegata la Pasqua, un’antica festa di pastori che viene così a ricevere un particolare significato, perché il rito pasquale del sangue e dell’agnello diviene il memoriale della salvezza di Yahvé che ha risparmiato le case degli Israeliti.
La ierofania pasquale segnerà con la sua impronta la vita di Israele, la sua religione, la sua pietà, il suo culto, il suo avvenire.

Beato di Liebana, Commentario all'Apocalisse, Madrid: Lib., Biblioteca National
Beato di Liebana, Commentario all’Apocalisse, Madrid: Lib., Biblioteca National

Un secondo avvenimento è la teofania del Sinai (Ex., 19-24) e l’alleanza di Dio con il suo popolo. Conclusa nel Sinai, poi rinnovata nei campi di Moab (Ex., 19, 5-6; Dt., 10 e 27) essa comporta tutto un codice religioso, morale e sociale, in particolare il Decalogo.
Partendo da queste due teofanie ricordate tra le altre, comprendiamo meglio il senso delle parole di Eliade “la storia considerata come teofania”. Nella lettura della Bibbia Israe­le si manifesta ai nostri occhi come un popolo per il quale Dio interviene nella storia e rivela la sua volontà attraverso gli avvenimenti. Per Israele gli avvenimenti storici nei quali il popolo è implicato acquistano un valore religioso, cosa che fa dire a Eliade che “gli Ebrei furono i primi a scoprire il significato della storia come epifania di Dio”.

Abbiamo visto che per i popoli del Vicino Oriente i miti fanno riferimento agli archetipi. Per Israele, al contrario, sono gli avvenimenti ad acquistare un valore di archetipo. Da ciò deriva che essi esprimeranno riattualizzazioni rituali e cultua­li secondo un calendario che si preciserà nel corso dei secoli. Ma noi non siamo più nel conte­sto di un tempo ciclico come nel caso dei miti.
In Israele domina la prospettiva di un tempo lineare orientato verso un compimento. L’istitu­zione giocherà un ruolo importante, in alcuni momenti sarà l’istituzione regale, in altri l’istituzione sacerdotale raggruppata intorno al Tempio.
Tuttavia due altri movimenti interverranno, talvolta in opposizione con l’istituzione uffi­ciale e comunque sempre in tensione: il profeti­smo e il messianismo.

Il sacro resta legato all’istituzione, ma subisce una modificazione importante: Yahvé, Dio unico è anche il Dio santo, il Dio dell’Alleanza che esige la santità ; il cultuale prende le sue distanze in rapporto al civile e all’epoca dell’esilio, il politico e il religioso prendono ciascuno la loro indipendenza.

b) Sacro e storia nel Corano e nell’Islam

L’Islam è ad un tempo religione, cultura e comunità con i suoi valori specifici. Hrm, Harm, proviene da un vecchio fondo semitico pagano ed ha come senso di base “mettere in disparte” da ciò il senso ambivalente della parola sacro (interdetto).

In effetti in Islam, Allah è la sorgente del sacro. È Al quddus, il Santissimo, la Purezza totale che lo separa da ogni creatura. Egli solo è capace di santificare l’uomo e la creatura. Ciò spiega l’assenza di sacramenti, di sacerdozio e di mezzi di santificazione. Tutto ciò che è sacro fa riferimento alla volontà di Allah.

Ciò ci fa comprendere che istituzione islami­ca e volontà divina sono legate. Sono sacralizza­te dalla volontà divina: la ka’aba di La Mecca, i territori di La Mecca e di Medina, la rupe di Gerusalemme, la tomba di Abramo a Hebron, la moschea e certe tombe di imms. Questi sono luoghi sacri. Nell’haram– sacro abbiamo la volontà divina. Nell’haram- interdetto abbiamo il comando divino. Il senso del sacro sta nel comportamento del musulmano che fa costantemente riferimento a Dio, Al-quddus.

L’Islam è un monoteismo stretto ispirato dalla Bibbia, ma formulato da Muhammad il Profe­ta, da qui il riferimento storico del sacro all’istituzione e alle istituzioni islamiche: Corano, shahada, preghiera, ramadan, elemosina, moschea, pellegrinaggio. Queste istituzioni hanno un’origine e una storia. La prima moschea fu costruita a Medina. La qibla data da que­st’epoca. Le diverse cerimonie del pellegrinaggio sono la riattualizzazione dei fatti o dei dati mitici che provengono dalla tradizione biblica. Sacro, volontà di Allah e istituzione si compene­trano.

c) Sacro e istituzioni cristiane

Il sacro cristiano gode di una grande origi­nalità. Si distingue dal sacro delle religioni non cristiane perchè deriva da Gesù Cristo. Le sue formulazioni di base si trovano nel Nuovo Testamento greco. Il primo di questi vocaboli è hagios che riprende il Trisagion di Isaia (Is., 6, 3) in Ap., 4, 8 in cui si celebra la Signoria divina, giustificata dalla trascendenza di Dio e dal suo intervento creatore: santità e trascen­denza sono identiche. Gesù è hagios pais (Atti, 4, 27, 30), un titolo della cristologia arcaica, tributaria della lettura messianica di Is., 42, 1. Questa lettura si trova già in Lc., 1, 35, al momento dell’annunciazione. La vena messianica del sacro e della santità è veramente essenziale. Essa configura il sacro sotto l’aspetto della mediazione, cioè dell’istituzione: Chiesa, paro­le, culto, sacramenti, santuario. Il sacro messia­nico sbocca in un sacro funzionale che ne costi­tuisce un aspetto molto importante nei testi neotestamentari che parlano della Chiesa e dei sacramenti, della santificazione dei cristiani, del santuario, della santità. Su questi dati e su questa struttura simbolica si è venuta ad innestare nel corso dei due millenni una moltitu­dine di segni espressivi del sacro legati all’istituzione ecclesiastica.

Nel suo articolo Manifestazione e proclama­zione pubblicato nel 1974, Paul Ricoeur esamina dapprima i discorsi iconoclastici della querelle sul sacro. Stimando però di non poter essere soddisfatto da questo programma, risponde che non c’è cristianesimo senza sacro e alla fine del suo studio, guarda alla dialettica del sacramento e della predicazione lungo la storia della Chiesa: nella predicazione è l’elemento cherigmatico che prevale; nel sacramento è il simbolismo.

La migliore lettura messianica recente del sacro legata all’istituzione è quella del Padre Yves Congar. Come Ricoeur, Congar parte dalla confusione provocata dalla querelle sul sacro e si colloca in una via antropologica fondata sull’espressione del sacro nella Bibbia, nel messianismo e nella Chiesa come istituzione incaricata di amministrare l’economia della salvezza in regime messianico. In questa ottica vede quattro livelli del sacro. Il primo è legato all’istituzione poiché si tratta del corpo del Cristo resuscitato, eucaristico e mistico. Il secondo è il sacro dei segni di tipo sacramentale legato al primo livello, segni efficaci della vita della grazia e che creano delle situazioni umane che dipendono direttamente dall’ordine messianico. Il terzo livello è il sacro pedagogi­co che comporta le parole, i gesti, gli usi, le regole della vita, i luoghi, i tempi, i costumi, gli abiti necessari in vista della mediazione dell’uomo con Dio. Il quarto livello del sacro cristiano comporta la consacrazione delle realtà terresti a Dio e il loro uso in un’ottica messia­nica.

Tutto ciò che abbiamo detto mostra che il sacro è legato all’istituzione ecclesiastica. La salvezza cristiana inizia con il mistero della Incarnazione e della Redenzione del Verbo di Dio. La salvezza continua con la reiterazione rituale di questo dramma esemplare. L’anno liturgico della celebrazione eucaristica riattualizza l’illud Tempus. Così il sacro e la storia della Chiesa sono intimamente legati.

III. Istituzione e esperienza del sacro

Rudolf Otto ha elaborato una via di approccio del divino fondata sul principio delle idee necessarie (Dio, anima, libertà ), sul mistero religioso ineffabile e sulla via simbolica. Grazie ai simboli l’uomo coglie l’eterno per mezzo dell’intuizione. Per Otto l’intuizione è lo strumento della conoscenza religiosa, la fede è l’esperienza del mistero e il patrimonio religio­so è l’assise storica del sacro. L’esperienza del sacro si fa nel corso di quattro tappe: la prima è quella del sentimento dello stato di creatura di fronte all’essere numinoso; la seconda provoca il tremendum o spavento mistico; la terza realiz­za la luce del mistero e la quarta seduce e rapisce l’uomo: è ciò che Otto descrive come fascinans. Recentemente Henri Clavier e Michel Meslin hanno affrontato, ciascuno a suo modo, questa esperienza del sacro vissuto. Nell’esperienza del sacro vissuto in relazione con l’istituzione prendono posto due elementi che la strutturano: il simbolo e il rito.

1. Il simbolo, il culto e l’istituzione

Trattando questo aspetto, faccio necessaria­mente riferimento al nostro Colloquio del 1983, Il simbolismo nel culto delle grandi religioni. In India, il culto non potrebbe essere concepito che sotto la forma di una simbolica nella quale il fuoco è primordiale, fuoco reale all’epoca vedica, fuoco interiorizzato all’epoca delle upanishads, fuoco mistico dell’offerta nella bahkti. Questa simbolica del fuoco resta presente oggi nella cremazione del cadavere considerato come un sacrificio.

L’Apocalisse è un prezioso documento per lo studio della simbolica cultuale legata all’isti­tuzione. Il testo Ap., 1, 12-20 riguarda il figlio dell’uomo e i sette candelieri d’oro che evocano il candeliere a sette braccia del Tempio. Giovan­ni si allontana dal modello giudeo perché le sette lampade dell’Apocalisse sono distinte le une dalle altre e disegnano un cerchio il cui centro è occupato dal Figlio dell’uomo. La lampa­da della cima della menorah bruciava giorno e notte, le altre lampade erano illuminate la sera. Giovanni colloca al centro dei lampadari il Cristo che resta presente al centro della sua Chiesa rappresentata dalle sette comunità dell’Asia Minore. La missione delle Chiese consi­ste nel custodire la fiamma della divina presenza di colui che è la vera luce.

Un terzo esempio del sacro vissuto in legame con l’istituzione è l’anno liturgico bizantino legato alla festa di Pasqua, perchè la Resurrezio­ne del Cristo inaugura un tempo radicalmente altro. Pasqua ricapitola il passato e il futuro dell’umanità e dà ad essi il loro senso. Gli otto giorni di Pasqua sono un solo giorno, il giorno della creazione, l’aiôn nuovo. Pasqua è il prin­cipio fondamentale della settimana liturgica. La elaborazione della domenica nutre la co­scienza pasquale durante tutto l’anno liturgico. Il giorno liturgico comincia con i vespri che cantano il Cristo come la luce della notte; il phôs hilaron, “luce felice”, lo guida verso l’aurora, luce eterna di Dio. La Chiesa è volta verso l’Oriente, verso la Gerusalemme celeste. L’asse verticale, la cupola del Cristo Pantocra­tor rappresenta la liturgia celeste, il movimen­to ascensionale dei battezzati, dei profeti e dei santi. L’asse orizzontale è il cammino verso l’Oriente, verso l’avvento del Cristo. L’insieme della liturgia Eucaristica è assimilata alla vita del Cristo.

2. Il rito, attualizzazione del sacro

Il rito si situa all’interno di un insieme simbolico e ierofanico legato all’esperienza religiosa. Grazie al rito, nei limiti di una realtà di questo mondo, si stabilisce una rela­zione con una realtà che supera questo mondo. Attraverso una struttura simbolica si opera un passaggio dal significante al significato, dall’immaginario all’ontologico, dal segno all’essere. Attraverso il rito l’uomo è al livel­lo del sacro vissuto: nella sua vita, egli attua­lizza il sacro.
L’homo religiosus per definizione crede che il mondo nel quale vive sia funzione di un arche­tipo che si presenta come primordiale, cioè come modello primordiale. Attraverso il rito egli tenta di partecipare a questo archetipo. L’effet­to del rituale consiste nel conferire validità ed efficacità alla sua vita mettendolo in concordan­za con l’archetipo. A partire da un atto iniziale ed archetipico, per mezzo del rituale, rifà un atto che è rivestito, grazie al rituale, di una dimensione speciale. Il mito di Osiride diviene archetipo dell’imbalsamazione per l’egiziano. Nella Bibbia, il riposo di Yahvè durante il settimo giorno diviene l’archetipo del sabbat, una imitatio Dei. Sappiamo che nella tradizione zervanita iranica ogni fenomeno terrestre ha una corri- spondenza celeste. C’è una relazione tra l’archetipo e il cosmo. L’archetipo si presenta come un modello primordiale la cui origine si situa nel mondo soprannaturale.

Nella vita dell’homo religiosus, i riti di iniziazione hanno giocato e giocano ancora un ruolo capitale. L’iniziazione opera un passaggio da uno stato ad un altro stato, da uno stadio della vita a un altro stadio della vita, da un genere di vita a un altro genere di vita. Essa è all’origine di una mutazione che introduce in un nuovo mondo di valori. Il rito è un atto simboli­co che tende a realizzare le figure di un ordine all’incrocio di natura, società, cultura e reli­gione. La sua efficacia si manifesta nella crea­zione e nella trasformazione, ma esso è anche l’utensile della memoria di un comportamento e come tale è legato ad un’istituzione. Il rito di iniziazione fa entrare in una comunità che ha le sue norme, le sue tradizioni, i suoi comportamen­ti; di qui la sua funzione di unità.
Nelle società tradizionali il rito è legato al mito, nei tre monoteismi è legato alla storia dell’istituzione a cominciare dagli atti e dai testi fondatori. Così i riti di iniziazione nel giudaismo e nel cristianesimo sono collocati sull’asse di una storia santa che celebra un’al­leanza di trasfigurazione: sradicamento di Abra­mo; migrazione di un popolo; storia della sua liberazione con Mosè; legame alla terra promessa; apertura messianica. Tutta la simbolica dell’ini­ziazione cristiana rinvia agli avvenimenti della vita del Cristo, alla sua morte, alla sua resur­rezione. Si tratta di un universo simbolico molto specifico. Rinvio il lettore al nostro colloquio I riti di iniziazione, nel quale un gruppo di colleghi ha tentato di tracciare un percorso in comune in questo dominio così vasto e così impor­tante dell’homo religiosus di ieri e di oggi.

CONCLUSIONI

L’homo religiosus si definisce mediante l’esperienza del sacro. Durante il corso della storia ha assunto un modo specifico di esistenza e il suo cammino è sempre identificabile. Come Mircea Eliade ha ben stabilito, quale che sia il contesto storico nel quale è vissuto, l’homo religiosus ha sempre mostrato il suo credo in una Realtà assoluta che si manifesta nel mondo nel quale egli svolge la sua vita e che lo trascende. Ai suoi occhi questa Realtà conferisce alla vita la sua dimensione di compimento.

Alla domanda sul legame tra sacro e istitu­zione religiosa la nostra risposta è affermativa. Essa è motivata dalla storia delle religioni. Appare che il vocabolario del sacro si crea, si mantiene e si trasmette grazie ai sacerdozi. L’esempio utilizzato proviene dal mondo indo-europeo, indo-iranico e italo-celtico. Nello svolgimento normale della sua vita personale e sociale l’homo religiosus deve poter disporre della memoria del sacro. I fatti ci mostrano che questa è legata a due forme essenziali dell’isti­tuzione: da una parte il mito nelle società religiose tradizionali, dall’altra il quadro storico nei tre grandi monoteismi. Mito e storia tessono legami tra sacro e istituzione.

Infine il sacro suppone un’esperienza vissu­ta, la qual cosa implica simbolica e rituale, due domini veramente legati all’istituzione religio­sa. Inseparabili l’uno dall’altro a causa dell’archetipologia, essi manifestano la loro coerenza soprattutto nell’ef­ficacia dell’iniziazione.

Julien Ries


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