Eros, demone mediatore e il gioco delle maschere nel Simposio di Platone

Giovanni Reale
Rizzoli, Milano 1997.

Maria Pia Rosati

L’autore, il professor Giovanni Reale, aveva già affrontato questo dialogo fin dall’appendice aggiunta alla quinta edizione del suo Per una nuova interpretazione di Platone (Milano 1987), pubblicandone poi la traduzione nel volume da lui curato Platone. Tutti gli scritti (Milano 1991).

Nel Simposio, uno dei dialoghi più alti e raffinati, si svolge un’affascinante e mossa discussione attorno al tema dell’amore. L’avvenimento è collocato in casa del poeta Agatone, che festeggiava la vittoria «con la sua prima tragedia, il giorno seguente a quello in cui celebrò i sacrifici per la vittoria insieme con i coreuti» (173 A) e pertanto nel tempo delle feste dionisiache.

Il nostro studioso ne indica anche la data presumibile, il 416 a. C.

Eros con flauto Pittura attica a figure rosse su Lekythos 470-460 a.C ( Museum of fine arts di Boston)
Eros con flauto
Pittura attica a figure rosse su Lekythos
470-460 a.C ( Museum of fine arts di Boston)

Dobbiamo supporre che si tratti delle Grandi Dionisie, le feste più importanti per le rappresentazioni drammatiche, che si tenevano all’inizio della primavera. Erano queste le più recenti rispetto alle altre tre (Piccole Dionisie o Rurali, Lenee, Antesterie) ma accolsero per prime i concorsi tragici fin dalla seconda metà del VI secolo a. C., mentre quelli comici solo nella prima metà del successivo. Si rappresentarono tragedie anche nelle Dionisie Rurali, che erano però la culla del comico e accolsero dalla città il dramma solo tardi; nelle stesse Lenee, nelle quali la parte più importante era data dalle commedie, le tragedie entrarono solo nella metà del V secolo a. C.; durante le Antesterie non pare si tenessero rappresentazioni drammatiche.

Le Grandi Dionisie duravano sei giorni. Il concorso delle tragedie, ogni giorno una tetralogia, si svolgeva dal secondo al quarto. L’arconte eponimo, alta carica statuale, sceglieva i tre poeti; un ateniese eminente e ricco faceva da corego, organizzava cioè la rappresentazione, acquistando o confermando così il suo prestigio. La tetralogia consisteva in tre tragedie e un dramma satiresco. Alla vigilia della festa, i poeti presentavano al pubblico nell’Odeon gli attori, i cori, gli argomenti. Nei tempi più antichi l’autore fungeva anche da attore e coreuta, ma ai tempi di Agatone si limitava ormai alla sola composizione dei testi. La commissione giudicatrice era composta da un rappresentante per ciascuna delle dieci tribù cittadine estratto a sorte dall’arconte. Il poeta, l’attore e il corego vittoriosi venivano incoronati d’edera come Dioniso stesso. I nomi dei poeti ricevevano l’onore di essere iscritti negli archivi ufficiali dello stato, ora perduti; tuttavia Aristotele aveva conservato ampia notizia della cronologia dei drammi a concorso in una sua opera nota agli eruditi alessandrini, dai quali noi oggi attingiamo.

L’atmosfera era di fortissima universale partecipazione e emozione.

Il dialogo si colloca in quell’atmosfera e certamente è uno dei più ispirati di Platone. In esso, come quasi sempre altrove, il personaggio chiave è Socrate, eppure stavolta si impone una curvatura particolare, a cominciare dal titolo stesso; il Simposio non ha per titolo un nome di persona (caratteristica condivisa con le due sole altre eccezioni di Repubblica e Leggi) e forse già in questo si annuncia un valore che trascende, ricomprende e trasforma i singoli in una realtà a loro superiore.

Il dialogo risulta essere il racconto di un racconto, con quel gioco di mediazioni della memoria e di interni rinvii – a sua volta il discorso centrale di Socrate ripete un ricordo – tipico delle culture tradizionali, nelle quali prevale il valore della comunicazione orale. Non si tratta di un estrinseco espediente letterario bensì di una forma coerente con il messaggio che si intende trasmettere. Si può pensare all’esempio più vicino delle Mille e una notte od anche alla più lontana Odissea, tipico racconto di un racconto, tale che il punto d’arrivo raccontato si salda perfettamente con il punto d’arrivo vissuto.

Le cose stanno così anche per l’occasione del banchetto tenuto da quegli uomini eminenti di Atene che si proclamano devoti di Eros e lo celebrano. Perché, anche in questo caso, la divinità si presenta incarnata effettivamente nell’emozione del loro incontro notturno.

Il dialogo si apre con un giovanissimo allievo di Socrate che riferisce di un racconto ricevuto da un discepolo più anziano, il quale all’epoca ebbe la piacevole sorte di partecipare al simposio in casa di Agatone per esservi stato condotto da Socrate stesso. Il resoconto del giovanissimo può essere preciso, egli assicura, perché già in passato ne aveva verificato i passaggi salienti con Socrate e inoltre ne aveva rinverdito la memoria riesponendolo di recente a uno che gliene fece richiesta.

Socrate, dunque, incontra un suo caro allievo (il primo e più anziano narratore, il cui racconto è ripetuto dal giovanissimo) e lo spinge a accompagnarlo. Ma giunto nei pressi del luogo dell’appuntamento si ferma in meditazione. Un servo inviato a sollecitarlo torna informando che egli se ne sta da parte nel vestibolo dei vicini e si rifiuta di entrare; Agatone lo vorrebbe far chiamare ancora ma l’allievo lo dissuade, e così più volte durante la cena fino a che – quando ormai essa è giunta a metà – il filosofo arriva e va a sdraiarsi vicino al padrone di casa.

Facciamo un passo indietro: cosa aveva esclamato Agatone apprendendo all’inizio dal servo che Socrate non voleva entrare e se ne stava assorto di fuori? «Dici proprio un atopon». Questa parola viene tradotta con “una stranezza” ma essa contiene uno spessore maggiore e presenta fin dalla soglia implicitamente l’appartenenza di Socrate, filosofo e vero erotico, a un piano diverso che troverà la sua esplicitazione e realizzazione nel prosieguo dell’incontro.

In altre parole, il Simposio pare a noi un dialogo che verta programmaticamente sul carattere dell’atopon rappresentato da Socrate. Seguiamone ora più da vicino l’interpretazione di Reale.

Dopo quella sorta di prologo introduttivo che abbiamo succintamente riferito, uno dei commensali propone di moderare il bere e un altro di mandare via la flautista al fine di “passare assieme il tempo discorrendo”(176 E) e precisamente facendo ciascuno a turno l’elogio di Eros.

Così, il giovane narratore riferirà “le cose più importanti e più meritevoli di essere ricordate”(178 A) udite dal più anziano, secondo gli interventi, nell’ordine, di Fedro il letterato; di Erissimaco il medico; di Aristofane il commediografo; di Agatone il drammaturgo; di Socrate il filosofo dialettico – che riferisce l’ammaestramento della mitica sacerdotessa Diotima, colei che aiutò gli Ateniesi a respingere la peste (201 D) – ; di Alcibiade il politico. Tutti eccellenti, tutti scelti e in primo piano nell’Atene del V secolo e ciascuno per la sua parte rappresentante del meglio, e dunque esemplare e tipico, ovvero maschera come vuole l’autore della tesi della quale ci stiamo occupando.

Come accadde a Rousseau che, avendo letto sul Mercure de France del concorso bandito dall’Accademia di Digione, vede all’improvviso le idee fino ad allora sparse e tumultuose divenire chiare ed ordinate attorno al tema sul quale gli sono caduti gli occhi, così il professor Reale confida di aver ripensato il molto tentato dialogo dietro l’effetto illuminante di un aforisma di Nietzsche. Si tratta di un pensiero sulla maschera, e precisamente il II, 40 di Aldilà del bene e del male culminante nella proposizione “tutto ciò che è profondo ama la maschera”.

Nel caso sotto nostro esame la scoperta è stata anche verificata, dall’autore (p. 139), nella messa in scena della parte essenziale del dialogo.

La maschera, per Reale, ha il rilievo infatti di un carattere teatrale, o di un personaggio stilizzato, sotto il quale si nasconde una tesi dottrinale. Le maschere che agiscono nella circostanza del racconto platonico risulterebbero così essere ciascuna il travestimento di una tesi diversa; ogni dramatis personaincarnerebbe una linea di pensiero in modo emblematico ancorché non esplicito; di modo che il lavoro dell’interprete consisterebbe nello svelare quale messaggio ciascuna rappresenti secondo il gioco di Platone di cui al titolo del saggio.

Assunto il Simposio come un gioco di maschere, l’interpretazione coinciderà con il loro smascheramento; e tale smascheramento-interpretazione sarà riuscito se avrà potuto mostrare il vero Platone, quello che – per Reale che si rifà alla scuola di Tubinga – sta nell’insegnamento esoterico rigorosamente orale. Se il vero Platone si trova negli agrapha dogmata (le dottrine non scritte), gli scritti sarebbero infatti programmaticamente mascherati, coperti e enigmatici. Essi consisterebbero in opere letterarie rivolte ad un pubblico esterno e profano, dentro le quali si celerebbe tuttavia un linguaggio di segrete allusioni per gli iniziati e gli eletti ammessi al circolo delle lezioni orali.

Forse ci sono delle esagerazioni in un simile dualismo che farebbe degli scritti platonici una specie di Roman de la rose trobadorico e condurrebbe ad accreditare una loro lettura ipergnostica, analoga cioè a quella applicata dai dottori alessandrini dei secoli II e III alla Bibbia, per ricavarne complessi romanzi metafisici.

L’idea che i grandi testi debbano venire sfogliati nella loro molteplice stratigrafia semantica e che in particolare vada decodificato il gioco di Platone si può condividere. D’altronde sappiamo bene che questi non ritiene serio affidare allo scritto le verità più profonde: e ciò va inteso nel senso che la verità più profonda per lui non può essere fissata e congelata nell’immobilità senza vita di segni tracciati in un tempo passato, perché essa invece consiste sempre in un’esperienza attuale. In Platone il rapporto con lo scritto deve comportare il senso di questa distanza e questa distanza rimbalza in essi nel suo caratteristico stile, fatto di eleganza raffinatissima e composta, di ambiguità, di sorriso e di ironia.

L’ironia platonica, incarnata nella grande figura di Socrate, impasta di sé gli scritti proprio perché il pensiero non si può fissare e chi pensa può scrivere solo con ironia.

L’ironia filosofica risponde così a una precisa scelta etica; anzi, essa equivale allo spirito stesso della filosofia. E se la filosofia coincide con l’eros allora sussisterà un rapporto molto intimo tra ironia ed eros1.

Gli agrapha dogmata fanno perno sull’identificazione dell’uno con il bene. E la sorpresa di Reale, in sintesi, deriva dall’aver scoperto che guardando controluce i discorsi dei tipi che intervengono al famoso banchetto, si intravvede proprio questa dottrina prendere via via drammaticamente i suoi contorni.

Purtroppo non si capisce bene come si configuri il mascheramento (nel senso che Reale attribuisce a Nietzsche) dei vari personaggi, i quali dalla interpretazione che leggiamo – a dire il vero – vengono confermati come piuttosto trasparenti. Persino Socrate-Diotima non pare coprire alcun particolare segreto e l’unico a essere usato per comunicare in modo coperto e simbolico il nucleo fondamentale della dottrina riservata sarebbe Aristofane, il grande comico di successo. Il discorso di Aristofane, lo ricordiamo, spiegava la passione erotica come dovuta alla ricerca reciproca della ricomposizione della creatura originaria da parte di ognuna delle due metà (sia di eguale sesso sia di diverso) in cui gli umani furono spezzati da Zeus, per fiaccare la loro potenza dopo che avevano tentato l’assalto all’Olimpo. La dottrina segreta oralmente comunicata senza veli ai soli iniziati verrebbe mascherata, in questo caso, dal mito della nostalgica erotica ricerca della ricomposizione dell’uno (p. 25).

Secondo Reale, in un gioco di specchi e di riflessi incrociati quattro maschere diranno ciò che Eros non è e tre diranno ciò che è; a metà strada dei loro discorsi la rappresentazione di Agatone, l’ospite, l’uomo di teatro raffinato e vacuo che celebra col banchetto la vittoria nella gara della festa di Dioniso, si pone come “vero e proprio contro-modello” del discorso ieratico e ispirato di Socrate, che riferisce a sua volta la rivelazione della sacerdotessa Diotima (p. 24).

D’altronde, Socrate fa da perno a tutto il dialogo, il cui sviluppo si rovescia proprio a partire dalla sua entrata in scena in ritardo, a banchetto inoltrato. Mentre era già sulla soglia, Socrate resterà infatti simbolicamente fuori, come abbiamo visto, estaticamente concentrato sul vero Eros (p. 46).

Tutto il simposio ha l’andamento di un rito, inserito a sua volta in una più ampia sfera liturgica dedicata a Dioniso.

Ma il suo procedimento conduce, per Reale, alla trasformazione di un rito dionisiaco in uno apollineo (p. 51), attraverso l’affermazione della vittoria della filosofia nel confronto con la poesia. Allorché i commensali sono ormai travolti dal sonno, nel finale, all’alba Socrate continua a discutere con il comico (Aristofane) e il tragico (Agatone) «costringendoli ad ammettere» (p. 253) che appartiene allo stesso uomo di saper comporre commedie e tragedie. Così, il tipo del filosofo prevale sui tipi della poesia tragica e della poesia comica e dimostra che la vera arte è la «poesia filosofica fondata sul vero», il quale coincide con il bello (p. 254).

La sintesi superiore che il filosofo realizza mostra altresì, nel finale (e i finali in Platone contengono importanto messaggi: così nel Fedro con la preghiera a Pan, come nel Fedone con la raccomandazione di sacrificare un gallo ad Asclepio), che Apollo – sotto il cui segno sta Socrate filosofo, per Reale – e Dioniso sono uniti da «un vincolo eterno» (p. 251).

E il messaggio della eterna alleanza tra Apollo e Dioniso altro non è che il messaggio dell’eterno valore di Eros, demone mediatore.

Il Simposio sta sotto il segno di Dioniso, e Socrate ne risulta essere una maschera dionisiaca. Come una di quelle statuette di Sileno, brutte di fuori, che aprendosi mostrano le cose divine che contengono. Quel Socrate che, dopo aver confutato i discorsi degli altri, ammutolendoli con la rivelazione di Diotima (che espone il mito di Eros nato da Ingegno e Povertà e la scala dei gradi della sua ascesa) resiste per un fine più alto all’offerta carnale del bellissimo Alcibiade ebbro. “Ciò che è espresso in dimensione apollinea nel Fedro2 nel Simposio lo è in dimensione dionisiaca (…). Nel gioco delle maschere Socrate-Alcibiade, Platone ha velato ciò che sentiva di più prezioso nell’intimo” (pp. 240 ss.).

In conclusione, Socrate non si muove soltanto sul piano teorico e astratto ma è l’autentico partecipe dell’amore vivente, il vero erotico, il vero iniziato, il posseduto dal demone nella più alta espressione.

Penso che sia interessante ripercorrere con Reale le interrelazioni e i rimandi, peraltro attesi in uno studioso che da così gran tempo si occupa di Platone. In effetti, molte delle cose che si possono ritrovare nel suo libro vanno anche aldilà del criterio da lui adottato o del modo con il quale lo applica.

Abbiamo già detto, a esempio, di alcune perplessità circa l’applicazione del criterio della maschera. Reale prende la maschera nella accezione di Nietzsche, che vuole che «(…) un uomo il quale abbia da nascondere qualcosa di prezioso e di facile a guastarsi, rotoli attraverso la vita tondo e rozzo come una grande, vecchia botte di vino pesantemente cerchiata di ferro (…). Un tale uomo (…) vuole e esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una sua maschera. (…) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera» (p. 241).

Ora, fra i personaggi del Simposio uno solo o al massimo due sarebbero autenticamente profondi e di conseguenza bisognevoli, nietzscheaneamente, di maschera; e questi sono Socrate e, probabilmente, Aristofane; gli altri, assai superficiali a detta dello stesso Reale, fungono da gradini dialettici per l’affermazione del valore incarnato da Socrate e in senso stretto non avrebbero bisogno di maschera perché non hanno molto da coprire.

Ma c’è di più: non tutti i personaggi coprono la loro tesi. A rigore ciò si verificherebbe addirittura soltanto con Aristofane; e con lo stesso Socrate non ci si trova dinnanzi ad una tesi coperta, anzi al contrario egli risulta piuttosto esplicito.

Tuttavia, se ammettiamo che tutti insieme portino la maschera in modo appropriato, sarà allora il dialogo nella sua interezza a valere da effettiva ed unica maschera per Platone uomo e filosofo.

In tal caso, caso che lo stesso Reale – a parte le oscillazioni predette – sembra riconoscere come quello prevalente, bisognerebbe però ripensare il concetto di maschera, abbandonarne quello di mera dissimulazione e mero trucco e renderne invece lo spessore metafisico.

In altre parole, dovremmo usare l’intuizione della maschera in senso più vicino all’idea dello stesso agone tragico dionisiaco. Del resto la tragedia, canto in occasione della festa del capro, viene notoriamente recitata da maschere, nel tempo sacro al dio della maschera.

E che tipo di maschera è Dioniso? Non certo una copertura allegorica. La maschera di Dioniso contiene piuttosto la terribile doppia polarità, vitale e mortifera, insita nella dialettica dell’apparire. Con essa il dio irrompe insegnando che ogni apparire comporta insieme un celare; e che il visibile in tanto si rende visibile in quanto resta nel contempo sigillo di una potenza invisibile3.

Una tale maschera, pertanto, coinciderebbe proprio con il demone “povero ed ingegnoso” intermediario tra i due mondi del visibile e del non visibile. Sarebbe Eros la vera maschera e i suoi elogiatori in tanto se ne fanno seguaci, a grado a grado sempre più fedeli, in quanto ne assumono la potenza demonica, lasciando cadere la loro maschera quotidiana per farsi prendere dalla sua.

La sinteticità e lo spessore del doppio versante ontologico della maschera platonica, affacciata sul visibile e sull’invisibile, abitatrice insieme dei due mondi, esprime perfettamente il grande dio della coincidentia oppositorum. E si realizza nella dinamica di Eros, nella sua tensione unificatrice, dai bei corpi alla città perfetta, dalla scienza alla forma pura dell’abbagliante bellezza in sé.

Il percorso iniziatico risulta essere un percorso di progressive rinunce per progressive acquisizioni, felice e doloroso, drammatico e non astratto. Quello che il Simposio dice è sconvolgente e lontanissimo dalla psicologia contemporanea: per esso, la filosofia viene mossa intimamente e essenzialmente dall’eros, la filosofia non è niente di intellettualistico bensì furore e desiderio demonico.

Riusciamo noi a capire ancora cosa significhi questa tesi di Platone, che la filosofia e l’eros siano la stessa cosa, e non l’eros mistico bensì quello che media e fa sintesi tra il mondo fisico e il mondo della pura forma? Riusciamo a capire come mai l’eros si incarni in Socrate, perfetto amante, nel Socrate dialogico e ironico?

La maschera che mostra il volto di ciò che nascosto resta dietro, terribile e potente, nel Simposio si presenta annunciando che la verità è un demone e che questo demone, Eros, lo si raggiunge e assume nel dialogo, in quel tipo di dialogo incarnato e diretto da Socrate, estatico, invasato, partecipe del vero sapere.

Il percorso iniziatico proposto da Diotima-Socrate sembra riprendere lo schema di un rito misterico4, di un rito di avvicinamento a ciò che sfugge alle parole. I gradi vengono via via acquisiti e superati, in un procedimento di approfondimento e di scoperta, di affermazioni successive che dimostrano progressivamente l’insufficienza delle precedenti. Il percorso iniziatico del vero e perfetto amante coincide con la progressiva corrosione da parte dell’ironia, nelle volute del dialogo, delle affermazioni che via via risultano provvisorie e vere solo parzialmente, di modo che debbono essere fatte esplodere di fronte alle più alte e più piene.

Dice Hegel5 nelle sue Lezioni di storia della filosofia, che per i Greci – agli inizi del pensiero – l’essere si apre come evidenza immediata della bellezza. La verità, in quell’epoca6, ha il volto della bellezza. E la bellezza muove gli uomini e apre dinnanzi a loro gli stati molteplici dell’essere, per usare l’espressione dello studio di Guénon sul Vêdânta.

Per i Greci, ogni mondo che si apre è un dio. Per Platone, un demone ci conduce verso la sorgente nascosta di questa apertura. Se non si diventa questo demone, se non si diventa suoi seguaci, non si può riuscire nell’impresa e la spinta che sentiamo rimane sterile.

Anche Reale, come prima di lui – fra gli altri – soprattutto Léon Robin, vede di taglio nel Simposio un tutto-Platone, e il tutto-Platone di Reale si riporta a quello dei ricercatori della scuola di Tubinga – K. Gaiser, H. Krämer, Th. Szlezà k –, che vanno facendo centro da tre decenni particolarmente sulle dottrine non scritte.

Cogliamo l’occasione per sottolineare come il nucleo della dottrina orale esoterica di Platone potrebbe corrispondere alla tesi vedantica della superiorità del principio rispetto all’essere. Tale nucleo, infatti, consiste nell’affermazione che il bene è superiore all’essere, e il bene è l’idea delle idee, il supremo fondamento del tutto. Tuttavia Platone, mentre corrisponderebbe al Vêdânta nell’affermazione di questa superiorità, se ne distanzierebbe quando poi propone l’identificazione del bene con l’uno; infatti, il Vêdânta considererebbe l’uno-bene su un gradino inferiore rispetto alla totalità. Questa preferisce indicarla come assenza di ogni determinazione e quindi come zero assoluto, mentre l’uno, per quanto collocato al principio, non sarebbe comunque il vero principio, essendo pur sempre una affermazione-determinazione e come tale non capace di comprendere l’infinita potenzialità del tutto.

Naturalmente le cose starebbero così se si dimostrasse fondata l’interpretazione di H. Krämer, riferita da Reale7, circa il concetto che il bene sia al di sopra dell’essere, epekeina tes ousias (Rep. VI, 509 B 9).

La esatta interpretazione della natura del principio in Platone riveste fondamentale importanza. Lo stesso Heidegger, ad esempio, nel seminario già citato8 e nei suoi studi su Parmenide ed Eraclito, sostiene che l’intuizione greca primitiva dell’essere pone questo come differente dagli enti manifestati e non esauribile in essi. Anzi, pone l’apertura dell’essere come la condizione perché gli enti stessi si rendano presenti. Per Heidegger, l’apparire comporta per intima costituzione che sia apparire di un principio che tuttavia resta celato: nessuna espressione-rivelazione sarebbe tale se non collocandosi in un orizzonte più ampio di non espresso-rivelato9; la parola infatti riesce a significare qualcosa proprio perché si accompagna costitutivamente al non detto.

Tornando alla linea della scuola di Tubinga, si può osservare che forse potrebbe tornare utile provare a compiere anche il percorso inverso a quello del nostro interprete, che – in certo modo – riscontra il Simposio a partire dalle dottrine non scritte (aventi al centro l’uno-bene, il bene-numero); tale inverso percorso muoverebbe viceversa dal Simposio alle dottrine non scritte, partendo dalla constatazione che, quale che fosse il valore da Platone attribuito alla scrittura, egli comunque ha usato la scrittura e che pertanto anche questa doveva far parte della visione che aveva dei propri compiti; così come si è occupato di politica, ancorché in senso alto, e ha voluto menare vita di impegno nel mondo e non di ascesi.

Sulle idee segrete dei filosofi ci sembra valga bene l’opinione di Hegel10, che il filosofo non possa tenere di riserva nessuna idea importante senza esprimerla in qualche modo, dato che in definitiva sarà essa a possedere l’uomo e non il contrario.

In conclusione intendiamo che il professor Reale, in fondo, abbia presentito proprio questo quando si adopera a svelare le maschere degli attori del Simposio.

Del resto, i segreti filosofici non sono tali perché restino conservati in dossier di archivi sottratti alla vista dei più, ma perché – pur stando bene in vista per chiunque sappia leggerli – non tutti li sanno riconoscere, leggere, vivere. E solo chi abbia curato se stesso secondo i precetti del dio o del demone improvvisamente capisce e decifra ciò che da sempre era davanti a tutti.

Ciò che è profondo ama la maschera” non tanto perché il profondo si copra camuffandosi, ma perché ciò che è profondo è una maschera; e cioè un volto e una rivelazione che non basta guardare per vedere cosa siano.

Maria Pia Rosati

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Note 

1) V. anche Paul FriedlaenderPlatonI, Seinswahreit und Lebenswirklichkeit; Berlin 1954; tr. it. Platon. Eidos – Paideia – Dialogos ; Firenze 1979; pp. 190 ss.

2) L’amore filosofico nei riguardi di Dione di Siracusa.

3) In proposito v. di G. LampisMaschera e daimon, in Atopon, IV, 1996; pp. 22-23.

4) Mistero da myein, ammutolire.

5) Reale lo cita attraverso Hans-Georg Gadamer,Wahrheit und Methode; Tübingen 1960, nel suo Platone. Tutti gli scrittiop. cit., p.XXX, n. 80.

6) La tesi di Hegel tuttavia non voleva essere positiva per i Greci ma piuttosto attribuire loro una certa ingenuità (v. Martin Heidegger,Le Thor 1969 in Vier Seminare; Frankfurt a. M. 1977; tr. it. Seminari; Milano 1992, p. 93: «Quello che Hegel vuole effettivamente dire è che i Greci non hanno ancora pensato il soggetto come mediazione, e quindi come nucleo dell’oggettività. (…) I Greci hanno l’esperienza dell’immediato. Ma questo significa per lui qualcosa di negativo, una povertà da principianti ai quali manca ancora l’esperienza della mediazione dialettica»).

Al contrario, per Nietzsche, nell’intuizione greco-dionisiaca dell’apparire fenomenico (più quella di Eraclito che non quella di Platone, tuttavia) si affaccia un ethos della pienezza della fisicità. Questo ethos fa perno su un soggetto che «diventa capace di vivere l’unità di essere e significato»(v. Gianni VattimoIl soggetto e la maschera.. Nietzsche e il problema della liberazione; Milano 1974, p. 211), avendo rinunciato a contrapporsi all’oggetto e avendo riportato e ridotto la coscienza alla corporeità animalesca (Vattimo,op. cit., pp. 218 e 245).

7) Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone; Milano 1990, IX ediz. pp. 318 ss.

8)  Reale,op. cit, pp. 92 ss.

9) V. in questo vol. la recensione di Giuseppe Lampis di Guénon R., Gli stati molteplici dell’essere.

10) Georg Wilhelm Friedrich Hegel,Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie; Berlin 1833; tr. it. Lezioni di storia della filosofia, Firenze 1932; vol. II, ediz. 1985, p. 163.


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