Buddha sulle rive del Bormida

Ezio Albrile

Trinita7Smarrita nei campi che circondano una cittadina in provincia di Alessandria, Castellazzo Bormida, c’è una piccola chiesa dalla lunga storia. Sfigurata dalle vicissitudini che nei secoli ne hanno stravolto la fisionomia originaria, è ora riconoscibile unicamente dal campanile svettante nella monotona pianura. Sorta all’interno di un complesso monastico forse intorno al 1130, la chiesa ai giorni nostri è nota come «Chiesa della SS. Trinità da Lungi»; il titolo «da Lungi» venne dato nell’Ottocento per distinguerla dall’Oratorio in Castellazzo Bormida anch’esso dedicato alla SS.Trinità. Del primitivo assetto romanico rimangono oggi solo pochi ma notevoli elementi: gran parte dell’abside, il tracciato di alcune murature e nell’interno una serie sofisticati di capitelli di fattura bizantina, testimonianza dell’interferenza fra Medioevo occidentale e culture centro-asiatiche. S’è già sottolineato più volte come tali presenze derivino da un’arte genericamente definita «del Gandhāra», dalla quale giunsero le più antiche immagini del Buddha, sapiente unione di grecità e iranismo.

Il toponimo «Gandhāra» indica ciò che in termini moderni è la Valle di Peshawar con inclusi a Nord i distretti montani dello Swāt e del Buner e prolungantesi ad est sino alle sponde dell’Indo. Serrato in una catena montuosa ma con la valle dell’Indo che si espande a sud sino a toccare l’Oceano Indiano, e tramite un valico a nord-est collegato con il vicino Afghanistan, il Gandhāra è stato per secoli una delle vie commerciali e culturali percorse dalle carovaniere che dalla Cina raggiungevano l’Occidente. Queste regioni, agli albori dell’era volgare, vennero inurbate dai Kushāna, una vasta etnia centroasiatica che formò un ampio impero. I Kushāna ebbero successo nell’inserirsi attivamente nei commerci della via della seta, lungo la quale viaggiavano oggetti, uomini e idee. E poiché nelle terre da essi dominate si era diffuso il buddhismo, la via dei traffici commerciali favorì anche l’espansione di quella dottrina e dell’arte che a essa si ispirava. Il buddhismo costituì un fortissimo vincolo e le manifestazioni artistiche ad essa ispirate che nacquero nel Gandhāra influenzarono profondamente l’arte occidentale, prima attraverso i contatti con Roma e in seguito con Bisanzio.

Ritroviamo questi influssi orientali nei capitelli della SS. Trinità da lungi: in queste straordinarie sculture spiccano per originalità e stranezza due serpenti cobra, al centro c’è una specie di conchiglia sovrastata da un fiore a dieci petali, un loto; in basso troviamo ancora due specie di serpenti svettanti da una conchiglia. Tutti elementi che in misura più o meno rilevante fanno parte della simbolica buddhista. Al centro, il fiore ricorda la ruota del dharma, l’ordine universale, la legge religiosa e morale che è parte dell’insegnamento del Buddha. A tal punto che il Buddha stesso è il dharma.

Icobra richiamano la figurazione del Buddha che siede su Mucilinda, il re dei serpenti, attorcigliato, che protegge dalle intemperie il Beato in meditazione formando un copricapo di teste di serpente aperto come un ombrello. E ancora, c’è un ricordo della prima statua nota di divinità induista, l’immagine di Balarāma, il fratello maggiore di Vāsudeva-Krishna, scolpito in piedi con un cobra sulle spalle. È la «discesa» terrena del Serpente Cosmico Ananta o Śesha, il quale, con le sue spire attorcigliate, funge da giaciglio per il dio Vishnu disteso sull’oceano primordiale. Un modello iconografico che nel jainismo corrisponde alla figura di Pārśvanātha, il ventitreesimo Tīrthamkara, il maestro o profeta ciclico che dall’epoca kushāna (I sec. a.C.-II d.C.) venne rappresentato con un ampio cappuccio di serpenti.

Ma le immagini dei serpenti rimandano a un più generico sfondo arcaico della religiosità induista, cioè al culto dei nāga, parola sanscrita con cui si designa il serpente abitante le acque e la terra, in particolare nell’aspetto semidivino di Nāgarāja «Re dei Serpenti». Il culto dei nāga assunse una notevole importanza in epoca kushāna; nell’arte religiosa induista, buddhista e jaina, i nāga vennero quindi riciclati come figure che accompagnano le divinità maggiori e i santi, adoratori degli dèi o discepoli dell’insegnamento del Buddha, venendo progressivamente a fondersi con le figure divine del culto ufficiale.

Già nei Veda il «Grande Serpente» era considerato sacro nel suo aspetto di Serpente Cosmico, Ananta, l’«infinito». Come in numerose altre culture, anche in India il serpente era associato, a causa del ciclico mutare della sua pelle, al concetto di rigenerazione e rinascita. Ma non solo, poiché la sua immagine si lega simbolicamente alle pratiche e discipline yoga: serpenti sono i canali energetici per i quali scorre l’energia vitale nel corpo umano, chiamati nādī, che convergono e si intersecano in determinati cakra «ruote» o centri psicoenergetici, di cui i principali sono situati lungo l’asse del busto e che portano al risveglio di energie sopite o kundalini.

Trinita13Qualcosa di simile al caduceo del dio greco Hermes, se pensiamo che lo stesso Platone riconosceva nel corpo umano l’esistenza di due canali paralleli alla colonna vertebrale (Timeo77d), come le nādī. Certo non si tratta di casualità, e se non si vuole dare credito all’idea che Platone abbia ricevuto queste idee dalla tradizione pitagorica e che Pitagora le avesse a sua volta acquisite durante un viaggio in Oriente, occorre postulare che siano esistiti contatti fra la Grecia e l’India anche anteriormente alla conquista di Alessandro Magno, e in particolare sotto l’Impero persiano, che dalla fine del VI sec. a.C. aveva riunito in un unico stato terre lontane come il Sindh, l’Egitto e la Ionia.

La religione vedica, da cui trae origine l’induismo, era sacrificale e priva di immagini, aniconica, così come aniconico era all’inizio anche il buddhismo. È solo a partire dall’epoca kushāna, cioè da una cultura allogena centro-asiatica, che sembra affermarsi la concezione dell’immagine di culto in termini figurativi. Nelle origini la presenza del Buddha poteva essere espressa soltanto mediante simboli: le impronte dei piedi, il loto, l’albero dell’illuminazione (bodhi), la ruota del dharma, il tumulo ricettacolo delle reliquie corporee del Buddha (lo stūpa); parte di questi simboli li ritroviamo nei capitelli della SS.Trinità di Castellazzo Bormida. In seguito il Buddha fu raffigurato nell’aspetto di uno yogin, avvolto in una veste e caratterizzato dai segni distintivi della sua persona: il nodo dei capelli o protuberanza sul capo (ushnīsha) e il punto di rilievo sulla fronte o ciuffo di peli tra le sopracciglia interpretato come «terzo occhio» (ūrnā). Proviene dall’arte del Gandhāra la prima statua del Buddha, una raffigurazione che ha due punti di riferimento e di ispirazione: le statue del dio greco Apollo e l’idea iranica dell’aureola, del nimbo luminoso, lo Xvarənah, che si irradia dal capo degli esseri eletti.

Il buddismo mahāyāna è andato incontro a una mutazione dottrinale che lo ha portato da una parte ad accentuare l’aspetto soteriologico, dall’altra a trasformare la figura del Buddha da storica a metafisica, fino a concepire i cinque Buddha supremi di cui uno, Amitābha/Amitāyus, è il «Buddha della luce» e «della vita infinita», un epiteto ereditato dal dio iranico Zurwān, il «Tempo infinito». Per esprimere questa emanazione di splendore l’artista impiegava simboli diversi: l’aureola ampia e circondata di raggi che escono dalle spalle del Buddha. Caratteristica dell’immagine gandharica è infatti quella di presentare il capo circondato da un nimbo, manifestazione della luce irradiantesi dal personaggio e che designa il possesso della bodhi, dell’illuminazione.

Sempre l’arte del Gandhāra è la prima a rappresentare la protuberanza sul capo, l’ushnīsha, a forma di conchiglia, e il Buddha seduto nella posa della predicazione con il fiore di loto usato come seggio, pianta che nascendo dall’acqua è assunta a simbolo della cosmogonia. Il trono di loto è proprio di Śākyamuni in particolare nell’episodio del Grande Miracolo di Śrāvastī, ove egli opera una serie di prodigi, tra i quali quello di colmare lo spazio di innumerevoli Buddha emanati dalla sua persona, situati anch’essi su fiori di loto. Ma il retaggio è vedico, se pensiamo che Sūrya, il Sole, è equivalente al loto, simbolo di conseguimento e rinascita spirituale. Disco solare, nimbo e fiore di loto tendono nell’iconografia a sovrapporsi.

Sempre di epoca kushāna il loto e la conchiglia sono attributi del dio Vishnu, che muta la sua fisionomia in dio salvatore: è la teoria delle incarnazioni, avatāra, probabilmente legata all’idea del Saoshyant, il Salvatore iranico. Il loro numero varia a seconda dell’epoca di composizione dei testi, ma di norma sono considerati canonici dieci avatāra. Il termine esprime l’idea della discesa di Vishnu. sulla terra in veste di liberatore, che può avere caratteristiche animali o umane o anche miste. Le dieci incarnazioni del dio sono: Pesce (Matsya), Tartaruga (Kurma), Cinghiale (Varāha), Uomo-Leone (Narasimha), Nano (Vāmana), Paraśurāma, Rāma-Daśarathi, Krishna o Balarāma, Buddha, Kalkin.

Scomparsa la figurazione di ogni divinità, smaterializzata l’immagine del Buddha, nei capitelli della SS. Trinità da lungi persistono solo gli attributi, simboli di un incontro tra Oriente e Occidente datato l’anno mille. Il diffondersi di motivi provenienti dal mondo indo-iranico verso Bisanzio era probabilmente da collegarsi con il fenomeno dell’iconoclastia, che vietando l’immagine umana favoriva quella animale. Metalli, ceramiche, smalti e sete con decorazioni di tipo orientale venivano prodotti per la corte imperiale ed esportati in Occidente. Naturalmente nei secc. X-XI questi motivi erano veicolati dall’arte islamica, sia nella capitale sia nelle regioni occidentali dell’impero o anche fuori di esso. Secoli prima delle odierne retoriche sulla globalizzazione l’arte era diventata strumento di comunicazione e di unione fra fedi e culture differenti. La ruota del dharma, i serpenti cobra, il fiore di loto e la conchiglia, univano l’assenza del Buddha alla presenza del Dio cristiano.

Ezio Albrile


Articoli correlati