Bussare e aprire un percorso semplificato dall'Ego al Sé

P. Emmanuele Jablczynski
(Abbazia delle Tre Fontane)

E’ l’intimo che agita,
come è l’intimo che calma.”1

 

Mi è stato proposto di contribuire con qualche articolo alla Rivista Átopon. Superate alcune perplessità iniziali, ho deciso di accettare, nella convinzione che lo spessore del cristianesimo risulti decisamente più tangibile nella riscoperta e nell’approfondimento della sua Tradizione, qualunque sia l’areopago a cui si rivolge.


Vorrei presentare allora un testo del XII secolo: un breve sermone di San Bernardo (30 righe appena nell’edizione critica), a cui farò seguire alcune considerazioni personali, allo scopo di attualizzare certe espressioni del testo che potrebbero suonare piuttosto enigmatiche.

Il sermone in questione si intitola “In rogationibus” e porta come sottotitolo un’ulteriore specificazione: “De tribus panibus”2. Il termine rogare fa indubbiamente allusione sia al domandare, che alla preghiera in quanto tale, l’Autore, infatti, prende spunto da una brevissima parabola lucana (Lc 11, 5 – 8 ) che nel Nuovo Testamento serve da cerniera fra il testo del “Padre nostro” (Lc 11, 1 – 4) ed un’esortazione alla perseveranza nell’orazione (Lc 11, 9 ss.). Bernardo ritaglia dunque questa minuscola unità letteraria, estrapolandola dal contesto, e le conferisce un’autonomia tutta propria. Il passo evangelico recita :

Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.” (Lc 11, 5-8)

Inaspettatamente il Santo, che i contemporanei definivano mire cogitativus, si domanda come mai il viandante che bussava in modo tanto insistente alla porta di un suo conoscente, fosse così affamato (tam voracem). Chiedeva infatti tre pani, quando ne sarebbe bastato uno solo per placare la sua fame. Se ne voleva tre, conclude il nostro autore, ciò significa che non era solo. Certamente altre due persone lo accompagnavano, per esempio la moglie e un servo. Dunque tre erano le persone ferme davanti ad una porta chiusa. Ma chi era in realtà quello sconosciuto, reduce da un lungo viaggio con i suoi due compagni? Chi altri, se non io stesso3, spiega Bernardo: “Chi, infatti, può essere più caro o più intimo a me4, di me stesso? ”. Lasciata cadere ogni realtà transitoria (transitoria deserens, ad cor redeo), sono proprio io a cercare una risposta adeguata, per placare quell’ansia che mi obbliga a vagare senza posa !

E’ necessario sapere che colui che giungeva da tanto lontano (regio longinqua – regio dissimilitudinis), era caduto in miseria, tanto da ridursi a pascere un branco di porci per sopravvivere, tentando perfino di saziarsi con le loro carrube5. Costui si trovava, dunque, in gravissime difficoltà, era allo stremo6, ma, povero me ! ha scelto un amico davvero povero ( sed, heu me! pauperem elegit hospitem ), ha bussato ad una abitazione priva di tutto ( vacuum habitaculum ). Data la situazione d’emergenza, che alternativa c’era per un ospite senza risorse, se non quella di bussare a sua volta alla porta di Qualcuno veramente in grado di sovvenire a tanta necessità ? Ecco allora che l’intermediario fra il gruppetto di sprovveduti e il Cristo formula la sua richiesta ufficiale: “Prestami tre pani, Amico, affinché io possa comprendere ( ut intelligam ), perché riesca ad amare ( ut diligam ), perché agisca motivato da una progettualità chiara ( ut faciam voluntatem tuam ). Metaforicamente, dunque, i tre pani hanno un nome preciso: “veritas” il primo, in relazione all’uomo, cioè alla ragione ( vir = ratio ); “caritas” il secondo, detto in riferimento alla donna, vale a dire alla dimensione affettiva ( uxor = voluntas ); “fortitudo” il terzo, pensando al servitore ( mancipium = il corpo )7.

Il sermone di San Bernardo sostanzialmente termina qui. Ora si impongono alcuni approfondimenti a dir poco necessari. Per cominciare, chi è esattamente il misterioso mediatore fra i pellegrini e il Cristo? Colui che paradossalmente si riconosce nei tre viandanti, non sa poi come rispondere alle loro richieste. Per l’uditorio monastico, sempre attento agli imprevedibili sviluppi dell’oratoria del Doctor mellifluus, non c’erano dubbi! Si trattava della memoria o coscienza. Quest’ultima recupera se stessa proprio quando diviene consapevole di non poter dare una spiegazione soddisfacente, una risposta definitiva alle facoltà che la complementano ( ragione, affettività, corporeità ).

In altre parole, il processo di individuazione dell’io comincia quando esso avverte il proprio limite, sente il bisogno di un riferimento estrinseco, di un orientamento motivazionale. Solo passando da un’autonomia illusoria all’esperienza della relazione, percepisce l’utilità di uno schema antropologico, di una progettualità. Tutto questo lo si evince dal substrato remoto presente in filigrana nella narrazione; si tratta di un’altra parabola lucana, quella del Figlio prodigo, ove è detto che il protagonista del racconto rientra in se stesso, quando è spinto dai morsi della fame:

Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” ( Lc 15, 16 – 17).

La ricerca del pane, in questo caso non solo metaforica, è la causa accidentale che produce una vera rivoluzione interiore nella persona che ha abbandonato tutto, fino a perdere ogni riferimento con le proprie origini, pur di non rinunciare al fascino di un’illusione a lungo coltivata. Solo il principio della realtà in tutta la sua crudezza riuscirà ad incrinare tanta spavalderia8.

Oggi si parla di rapporti problematici fra coscienza d’accesso e coscienza fenomenica, nel senso che, mentre della prima si possono formulare alcune operazioni esplicite, quali la consapevolezza dei procedimenti mentali, oppure la coscienza di sé, la seconda rimane avvolta in un alone di mistero, dal momento che affonda le sue radici nel patrimonio genetico della persona. Sulla base di questi presupposti, gli sviluppi ulteriori si rivelano avvincenti, ma estremamente complessi. La tradizione cristiana invece utilizzando altre categorie, entra nel vivo dell’identità personale parlando piuttosto di conversione:

Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.” (Rm 12,2) 

καὶ μὴ συσχηματίζεσθε τῷ αἰῶνι τούτῳ ἀλλὰ μεταμορφοῦσθε τῇ ἀνακαινώσει τοῦῦ νοὸς εἰϛ τὸ δοικιμάζειν ὑμᾶϛ τὶ τὸ θέλημα τοῦ θεοῦ, τὸ ἀγαθὸν καὶ εὐάρεστον καὶ τέλειον” (Rm 12,2)

Troviamo in questa citazione un interessante collegamento fra due poli di riferimento: la mentalità di questo secolo da un lato, a cui non bisogna conformarsi, e quella trasformazione interiore che consente un duplice confronto orientativo. Sono importanti i termini utilizzati da Paolo Συσχηματίζεσθεe μεταμορφοῦσθε; σχημα significa “abito” e quindi “contegno”, “comportamento” (in latino: habere, habitus, = mos), e forse anche il termine “abitudine” trova qui la sua collocazione filologica. Lo “schema” di una particolare mentalità indotta e quindi inconscia, abitudinaria, ripetitiva, pregiudiziale, non è certo l’espressione più elevata della libertà interiore. Ecco perché occorre una vera metamorfosi9 per cambiare, per essere veramente liberi. Questo termine, presuppone una modifica della forma, ma anche, in senso traslato, della mentalità, delle idee, e ciò avviene sempre all’insegna della bellezza10. E’ normale quindi che abbia esercitato un fascino speciale nel mondo letterario di tutti i tempi. Viene spontaneo pensare alle metamorfosi di Ovidio, ad Apuleio, e, perché no, anche a Kafka11. La metamorfosi così intesa, sembra alludere ad un profondo bisogno di cambiamento, di riscatto, denota anche una implicita insoddisfazione nei confronti del presente e il desiderio di modificare relazioni stantie, insostenibili. In senso biblico al contrario, μεταμορφόω assume delle potenzialità “luminose”che non stravolgono la realtà, ma le consentono di mostrarne le implicazioni più profonde. È il verbo della “Trasfigurazione” ( cfr.: Mt 17, 2; Mc 7, 2; ) la quale nel racconto evangelico ha appunto la funzione di sondare il significato vero del passato e del futuro; ad esempio la rilettura delle Scritture operata dal Risorto (Lc 24, 27. 44-46 ) è preparata e anticipata dalla comparsa di Mosè e di Elia ( la Legge e i Profeti ) i quali successivamente scompaiono durante la Trasfigurazione, perché assimilati ed esplicitati nell’unica persona del Cristo, che ne attua pienamente il messaggio portandolo a compimento12.

Tornando al nostro testo del XII secolo, c’è da aggiungere che esso ha inoltre una valenza mnemotecnica, con un intento pedagogico ben preciso, a cui si piegano con disinvoltura le risorse retoriche del latino di Bernardo. Lascerei cadere quindi il fenomeno del “doppio”, quello sdoppiamento di personalità cioè che ricorda l’espediente letterario del sosia. La specificità del sermone, a mio avviso, consiste piuttosto nell’indulgere volutamente alla ricchezza del mondo simbolico. Il simbolo però non va inteso in senso riduttivo, quale puro scambio convenzionale fra significante e significato, quanto piuttosto come indice di appartenenza sicura ad una cultura ( o subcultura) ben precisa. Non accogliere la dimensione simbolica o sottovalutarla, equivarrebbe allora a provocare un vero e proprio sradicamento, un’esperienza di estraneità dal contesto in cui si vive, produrrebbe una sorta di spaesamento dell’io nei confronti del sé.

L’antropologia agostiniana di stampo neoplatonico, è probabilmente alla base della formidabile reazione di Bernardo nei confronti di Abelardo, anche se il secolo successivo, quello di San Tommaso (†  1274) per intenderci, ne porterà le intuizioni metodologiche al loro pieno sviluppo. Condividere le potenzialità culturali e sociali di questo nuovo assetto equivarrà, nel XIII secolo, a non temere il confronto con tendenze estremiste, quali l’averroismo di matrice arabo-ebraica, che stava diffondendosi, a partire da quel ricco crogiolo di pensiero che fu la Spagna meridionale, nei principali centri universitari dell’epoca: Oxford, Parigi, Bologna. Toccherà all’ultimo Bonaventura (†  1274) correggerne gli eccessi mediante le sue magistrali Collationes.

Mi sembra che il dipanarsi di queste vaste categorie di pensiero diano un’idea adeguata della portata culturale della dimensione simbolica, in cui ciascuno è immerso, lo sappia o meno. Il simbolo è garante della relazione e quindi dello scambio, dell’appartenenza. La sua capacità aggregativa caratterizza ogni epoca storica e dunque anche la nostra.

Il Postmoderno, con le sue connotazioni nichiliste e relativiste, ci propone una dimensione simbolica più fluida, cangiante, la cui caratteristica forse è quella di non lasciarsi imbrigliare da nessun tipo di definizione. Questo conduce l’uomo contemporaneo ad una sorta di smarrimento, provocato da un’assenza di significato in relazione sia alle cose, che agli eventi, e spiega l’estrema tolleranza della società attuale, dove tutto è lecito o si misura in termini di pura convenienza e di consumo.

Credo che la densa proposta della tradizione cristiana consenta invece di recuperare una dimensione simbolica più stabile e profonda, che permette ad un’interiorità perplessa, se non smarrita, di scoprire la valenza storica della propria identità, accettando anche la sfida del conflitto tra interpretazioni opposte, impensabile dove tutto si presenta come un collage variopinto, ma provvisorio.

 P. Emmanuele Jablczynski

 


NOTE:

1 Sabino Chialà, Parole in cammino, Ed. Qiqajon, 2006, pag. 8.

2 J. Leclercq – H. Rochais, Sancti Bernardi Opera / 5, Editiones Cistercienses, Romae, 1969, pp. 121-123.

3 “Ego quidam amicum venientem ad me, non alium intelligo quam meipsum” (ivi)

4 “Carior et germanior mihi…”(ivi)

5 Cfr.: Lc 15, 15.

6 “Venit de regione longinqua…Venit fame laborans…Venit necesse habens invenire amicum
» (ivi)

7 “Deficit quippe ratio mea – ipse est enim vir – prae ignorantia veritatis; languet et voluntas prae inedia affectionis
; infirmatur caro prae inopia fortitudinis
» (ivi).

E’ appena il caso di mettere in luce qui un riferimento scontato per il XII secolo, forse un po’ meno per noi; si tratta dell’antropologia agostiniana, secondo la quale l’anima è composta da tre facoltà : memoria, ratio, voluntas. Essa, assieme al “corpus” costituisce la dimensione esistenziale nella sua totalità. Cfr.: S. Agostino, De Trinitate, XIV,7,10.

8 E’ incredibile come un autore del XII secolo possa rivelarsi tanto attuale allorché tratteggia con sicurezza i contorni della vicenda che stiamo seguendo. Dal punto di vista strettamente spirituale questa situazione coincide per lui con una fase decisiva del percorso di conversione. San Bernardo ne parla nel sermone 8,5 de Diversis, e nella Parabola 1,3; descrive in senso più ampio il fenomeno in De conversione ad clericos II,3 ( cfr.: Opere di San Bernardo, II/IV Scriptorium Clarevallense, Milano 1990 -2000) e nel sermone per la Vigilia di Natale 6,10 (cfr.: Sancti Bernardi Opera / IV, op. cit. 1966)

9 Cfr.: Rm 12, 2; Fil 3, 21;

10 Μορφή significa : figura, forma, forma del corpo, corporatura, avvenenza, bellezza, forma pura libera da imperfezioni, idea,qualità. G. Gemoll, Vocabolario Greco-Italiano, Firenze (1961).

11 Sarebbe anzi intrigante rileggere il racconto kafkiano “La metamorfosi” (1915) alla luce di quella rielaborazione successiva a livello di autoconsapevolezza che fu la “Lettera al padre” (1919).

12 Nel testo greco di Luca, Mosè parla con il Signore dell’esodo pasquale che Egli porterà a compimento a Gerusalemme!


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