Gilbert Durand
La foi du cordonnier
L’Harmattan, Paris 2014
Salutiamo con entusiasmo la seconda edizione, dopo quella del 1984, di La foi du cordonnier, testo a cui Gilbert Durand (1921-2012) era particolarmente affezionato in quanto esprimeva l’essenza del suo pensiero e conteneva in nuce anche quanto avrebbe sviluppato nelle successive pubblicazioni: era dunque già un manifesto del suo credo e dell’impegno intellettuale professato nella sua lunga vita.
Ma che cosa significa manifesto? Leggiamo nella bella prefazione di Françoise Bonardel, sua antica discepola e amica: «la lingua nasconde nelle sue pieghe sempre feconde un sottosuolo più profondamente parlante, più autenticamente militante: una materia diviene ‘manifesto’, cioè tangibile, palpabile, visibile proprio perché è stata urtata con la mano (manifestus). E questa presenza arcaica della mano umana nel passaggio dal visibile all’invisibile, dal tacito all’esplicito, testimonia da sola l‘onore poetico dell’uomo’ che Gilbert Durand, sin dal primo e magistrale manifesto in favore dell’immaginazione creatrice Le strutture antropologiche dell’immaginario (1960), ha sempre esortato a salvaguardare».
Il lato ‘atopos’ di Gilbert Durand lo ha portato a scandalizzare un po’ i dotti consacrando al lavoro del calzolaio (lavoro quasi completamente scomparso nell’epoca della grande industria) un testo importante, transdisciplinare, un manifesto, come dicevamo, da cui scaturirà una ricca corrente di pensiero e da cui nasceranno circa cinquanta centri dell’immaginario (CRI) diffusi in tutto il mondo. E il testo ha per epigrafe “«Cela me fait un profond plaisir de scandaliser nos fous savants avec ce cordonnier”» da Franz Von Bader, lettre à Varnhagen Von Ense, 30 avril 1822. Perché Gilbert Durand, eroico resistente pluridecorato, non si è mai ritirato nella turris eburnea dei suoi studi, se non per parlare con voce incontaminata ai suoi contemporanei proni dinanzi al diktat del ‘progresso’ che evitavano di domandarsi ‘di che lagrime grondi e di che sangue’.
Leggere la fois du cordonnier vuol dire entrare nel mondo del pensiero analogico più che semplicemente logico, del simbolo, che per Durand è la carta d’identità dell’Homo Sapiens. Allora si potrà scoprire con quello stupore che è all’origine di ogni vero conoscere, che se Saul e Davide sono i prototipi della regalità, in quanto in definitiva un re è un pastore del gregge umano, i calzolai appartengono alla nobiltà sacerdotale. Anche Mosé, se pur pastore, non fu mai re ma calzolaio, secondo la tradizione hassidica, e certamente portava sandali che gli furono utili nei quaranta anni di peregrinazione nel deserto e che egli abbandonò solo davanti alla Presenza del Roveto ardente, «perché quando si è alla Presenza non c’è più bisogno di pellegrinaggio».
Illustre la tradizione dei calzolai che può annoverare nomi come quello di Elia, Enoch, fino a Crispino e Crispiniano ‘santi patroni dell’università dei calzolari’ e il mistico Jakob Böhme. Ma soprattutto possiamo soffermarci a riflettere sulla loro arte che consiste nell’unire attraverso fili di resina o chiodi la suola che tocca la terra con la volta della tomaia. «E questo è il simbolo pontificale dell’arte del calzolaio. …alla suola si chiede la robustezza, la durezza indistruttibile, l’ostinazione di Giacobbe, alla tomaia la finezza, la morbidezza necessaria, l’eleganza di Giacobbe. Tutta l’arte è là, unire la rudezza la solidità della terra e la volta leggera del cielo.» Sorvolando sull’aspetto teofanico delle arti pontificali e sull’inesauribile agiografia ad esse inerente possiamo dire con Durand che l’arte di san Crispino che ha fatto sì che la pelle della bestia selvaggia permettesse il passo dell’uomo civilizzato è tra le più paradigmatiche e la calzatura, simbolo dell’atto sacerdotale per eccellenza, legame tra cielo e terra è segno dell’ominizzazione e della civiltà. Perché l’animale, come lo schiavo a Roma o l’angelo del paradiso camminano a piedi nudi, mentre coloro che viaggiano su questa terra, che siano erranti o pellegrini, hanno bisogno di calzature (persino gli dei come Hermes, pur se di calzari alati e con suole di vento). E quest’arte è dunque anche testimonianza del valore dell’umanità fabbricante, dell’Homo faber costruttore di ponti, di torri di ziggurat, di vesti e di calzature.
Ma – ci avverte Durand, sempre attento filosofo – non dobbiamo confondere quest’arte che allinea le necessità della terra ai voleri del cielo con l’aggiornamento di stampo prometeico che tenta di allineare i disegni del cielo, peraltro impenetrabili, con voleri terrestri, umani, troppo umani.
Durand si ispira al calzolaio di Görlitz, a Böhme per il quale il celeste si rivela nella creazione, nella creatura, nella natura e l’imaginatio vera è l’anima umana, filo di refe che unisce l’intenzione divina alla natura, che passa per l’intimità del cuore e, come ci insegna ogni gnosi, unisce il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto, “è ad un tempo conoscenza di sé e conoscenza di Dio” (Pierre Deghaye). E ricorda anche con affetto e gratitudine il suo maestro Gaston Bachelard «uno gnostico inconfessato» che proponendo con forza l’avvento del nuovo spirito scientifico contro il razionalismo classico, poneva l’equazione di raccordo tra la suola razionalista e la tomaia poetica, cercando di riconciliare i due poli in un solo sapere.
La riconciliazione dei due poli, soggetto e oggetto, immaginario e ragione, sacro e profano, il superamento della cesura che può avvenire quando l’immaginazione rende possibile intravedere in ognuno dei due i significanti di un significato – tertium datur – che struttura l’uno come l’altro ci collega ad un altro tema principe della ricerca di G. Durand, il tema dell’interdisciplinarità.
Nel 1979, a Cordova (città eponima della parola cordouannier, calzolaio) poeti, artisti, psicologi del profondo, specialisti di scienze religiose, fisici riuniti ad un anno dalla scomparsa di Henry Corbin, per il colloquio ‘Science et conscience. Les deux lectures de l’Univers resero omaggio alla sua memoria proprio nel luogo in cui nel XII sec. si era scavato lo iato tra la gnosi orientale la scienza occidentale. Il filosofo neoplatonico Ibn Arabi, secondo una leggenda riproposta da Corbin, recatosi a Cordova al funerale dell’aristotelico Averroé avrebbe osservato che i suoi libri non erano che il contrappeso al cadavere sulla mula del trasporto funebre e avrebbe deciso di allontanarsi per sempre dal mondo occidentale per muovere verso ‘l’oriente delle luci’. Così, mentre la filosofia occidentale nascente si sarebbe mossa per otto secoli sull’analisi dualista di Aristotele, Ibn Arabi in oriente affermava: «tra il si e il no gli spiriti prendono il volo fuori dalla materia e le nuche si distaccano dai loro corpi». L’incontro di Cordova, di cui Gilbert Durand fu protagonista, riuscì a conciliare le due letture dell’Universo rendendo così un doppio omaggio riparatore sia all’arte dei calzolai sia a Corbin che nell’attività universitaria come nei suoi scritti aveva sempre mirato a reintegrare le briciole del nostro sapere disintegrato dalla modernità.
Il capitolo introduttivo del testo-manifesto termina con la forte affermazione del segno del magistero in calzoleria: “considerare sempre l’emergenza del reale come una dualitudine, la qual cosa implica il ruolo dell’identità nell’alterità”. Ma anche il sigillo del valore occidentale passa, secondo Durand, per il riconoscimento dell’altro in seno allo stesso, dell’alterità del fratello, dell’Altrui. Di questo mito della fraternità, della magnificazione del prossimo del Vangelo, eco dell’ancora più antica fraternità israelita Thomas Mann ha voluto fare con il suo romanzo in quattro volumi Giuseppe e i suoi fratelli il mito salvifico per il secolo XX° macchiatosi per sempre del sangue di Abramo, del sangue dei fratelli.
Il secondo capitolo pone le linee guida della “scienza dell’uomo”, termine che viene coniato ad indicare che ogni scienza deve sempre ‘riguardare’ l’uomo. L’attenzione si centra sull’importanza della corrente simbolica e del processo di riscoperta del mito dopo che si è palesato l’esito fortemente riduttivo dei processi di demitologizzazione e di repressione dell’immagine: riduzione “positivista” dell’immagine a segno, riduzione “metafisica” dell’immagine a concetto, infine riduzione “teologica” dell’immagine alle servitù temporali e deterministe della storia e a giustificazioni didattiche.
D’altro canto Durand ricorda la pur sommessa voce dei poeti, soprattutto nell’epoca romantica. Cita in particolare Coleridge che ha sentito come proprio dall’imagination (distinta dalla fancy, fantasia) scaturisse il potere creativo della poesia, e acuto filosofo oltre che poeta, scopre il ruolo gnostico ed escatologico dell’immaginario. L’immaginazione poetica, vero intelletto agente, fa del poeta un veggente che può modificare la visione della realtà e ricreare una nuova realtà: “dissolve, dissipa, disperde per unificare e, come il solve et coagula degli ermetisti, ritrova l’unità del mondo e il suo senso al di là delle molteplicità ingannevoli”.
Grande considerazione è riservata al movimento surrealista, mosso dal desiderio di riappropriarsi dell’immaginazione, e alle nuove scienze umane quali l’etnologia e la psicologia del profondo che, soprattutto con Bachelard e Jung, seppure per vie diverse, hanno saputo ritrovare il simbolismo autentico e il profondo significato dell’immagine. Jung in particolare fa dell’inconscio non l’epifenomeno delle forze istintuali, ma la riserva della vocazione profonda e specifica dell’anima umana, luogo del mistero personale i cui messaggi si manifestano attraverso le immagini archetipali. Simboli e archetipi sono visti come i mediatori dell’energia costitutiva della psiche, coincidentia oppositorum che non può mai essere raggiunta sul piano puramente logico. Al simbolo, potere equilibrante per eccellenza, è riconosciuto il ruolo di guida nel processo di individuazione in cui le energie eterne del fondo inconscio indifferenziato si incontrano con le differenti situazioni temporali. Durand vede negli archetipi junghiani una sorta di angeli che governano i simboli e che permettono di individuare ‘gli orienti’ dell’energia psichica. Il simbolo diviene dunque il potere equilibrante per eccellenza, incontro necessario di due modi esclusivi di identità: l’identità del simbolizzante che ‘incarna’ il senso, e l’identità del simbolizzato che trascende i limiti locali e può essere situato, alla luce delle ultime teorie della fisica (cfr. G. R. Thom), nella ‘non separabilità’.
Ma è soprattutto a Henry Corbin, al quale è legato dalla lunga frequentazione al circolo di Eranos e dalla collaborazione all’Università di San Giovanni di Gerusalemme, che G. Durand dà il merito di aver compiuto la rivoluzione copernicana demistificando le pedagogie occidentali che privilegiano il materialismo e il positivismo storico e riscoprendo il senso della mediazione immaginativa, la Mediatrice per eccellenza, via d’accesso alle teofanie, angelo della Conoscenza e della Rivelazione. L’immaginale (termine che Corbin sostituisce al troppo svalutato ‘immaginazione’) trascende ogni altra attività della coscienza, è luogo della convocazione all’Essere.
Durand ci dice anche che la nostra cultura occidentale polarizzata da una pedagogia scientista che confina l’immaginazione alla sfera ludica e all’arte per l’arte, quasi a propria insaputa (ma sappiamo che l’inconscio muove per cammini segreti e sicuri), ha evidenziato le condizioni dell’esperienza simbolica autentica che sono proprio le due attitudini dialettiche e costitutive della realtà stessa dell’anima: un rifiuto e un acconsentire.
Il rifiuto è rivolto alle tre assi che sostengono lo scientismo: la riduzione dell’essere al fenomeno, l’unicità del metodo totalitario insieme alla svalutazione dell’immaginario ridotto a epifenomeno fantastico e patologia della percezione, e infine la riduzione del fiat umano a un factum collocato nel determinismo truccato della storia.
Opponendosi alla confusione tra l’immaginale e l’immaginario, ridotto a sublimazione di una pulsione soltanto animale, Durand, sulla scia di C. G. Jung, rovescia la visione freudiana e vede alla base della nevrosi, e soprattutto della malattia mentale la perdita del senso che porta l’uomo, incapace ad accedere all’esperienza simbolica, a proliferazioni insensate e automatiche e a prendere alla lettera tutte le figure immaginarie. Ma soprattutto si oppone all’evoluzionismo storico che trova particolarmente insidioso quando nella storia sacra la tensione escatologica del fiat viene ridotta a fatto storico e a premessa di una storia profana. Il senso autentico è non quello storico, ma quello figurato, nascosto dall’apparenza del racconto. La liturgia è ermeneutica del racconto sacro, e dunque un’antistoria, proprio come l’opera d’arte, secondo Malraux, è un antidestino. E ogni spiegazione explicatio del simbolo in quanto temporalizzazione diviene scorza della comprensione del senso vero che è invece implicatio (termine mutuato dal fisico David Bohm).
Idati immediati della coscienza non risiedono nello scheletro logico e sintattico del pensiero, né nel sentimento della durata ma proprio nella potenza poetica di dare un senso, un orientamento significativo. Il fenomeno della pregnanza simbolica è portato alla massima potenza quando si tratta dell’uomo, del suo destino, della sua realtà, della sua vocazione. E dunque ogni antropologia come ogni terapeutica sociale o psicologica, lungi dal voler cercare un’oggettività storica o clinica, dovrebbe innanzitutto risolvere lo squilibrio dei regimi dell’immaginario e la rarefazione simbolica.
Il terzo capitolo, dedicato alle strade dell’anno mostra come anche il calendario gregoriano – poggiando su quelle che Jean Servier ha chiamato le Porte dell’anno solstiziali e equinoziali di giudei e pagani – sia profondamente ancorato alla profonda sensibilità dell’immaginario dell’Occidente. Il capitolo conclusivo “Microcosmo e macrocosmo”, riprendendo questo tema mostra come nel profondo della psiche i vecchi schemi oroscopici finiscono coll’aver ragione sulle coordinate cartesiane.
Riteniamo che dopo trent’anni il valore di quest’opera sia ancora più attuale, proprio perché il pericolo di impoverimento della imaginatio vera, della capacità creativa, che fa di ogni uomo un faber, un artigiano, un creatore si sta palesando in maniera evidente proprio nell’epoca della tecnologia digitale e della gigantesca proliferazione delle immagini.
Già nel 1994 Durand in L’imaginaire, essai sur les sciences et la philosophie de l’image (tr. it. L’immaginario, scienza e filosofia dell’immagine, Como 1996) aveva messo in guardia sull’effetto perverso che questa invasione di immagini avrebbe scatenato in una cultura fondamentalmente iconoclasta. La nuova ‘civiltà dell’immagine’ ha solo anestetizzato la creatività individuale, passivizzato lo spettatore che, divenuto un bulimico consumatore di immagini da cui è sommerso, ha perso la capacità di esprimere giudizi di valore. Inoltre Durand denunciava il pericolo di un nuovo totalitarismo, quello del potere mediatico anonimo che sfugge ad ogni controllo ed è neghentropico (aumenta a dismisura senza portare in sé la propria distruzione), finendo col sopraffare le istituzioni che per loro natura sono entropiche sì che stiamo sperimentandoo più una società è informata, più le istituzioni su cui si basa diventano fragili.
La confusione caotica delle nostre società e le difficoltà sempre crescenti su ogni piano della cosiddetta civiltà globale debbono farci meditare sulle intuizioni di G. Durand, sulla sua nuova antropologia e sulla domanda fondamentale che egli si è sempre posta: che cosa è un uomo?