Da sempre gli uomini hanno visto il Sole risplendere sulle vicende umane e hanno sentito il bisogno di tributargli onori e farlo oggetto di un culto imponente.
Nel nostro emisfero, per l’uomo che guarda il cielo, l’astro regale nasce ad oriente, si dirige verso Sud a mezzogiorno, tramonta ad occidente. Allo stesso modo, per l’uomo che vive la terra come un piano nel quale egli occupa il centro, il nascere e il tramonto del sole segnano due regioni dello spazio, che si incrociano con il Sud del mezzogiorno e con il Nord che gli è contrapposto (il quale di notte è indicato dalla Stella Polare). Ed ecco costituita la rosa dei venti con i suoi quattro punti cardinali, al quale si può aggiungere, come quinto punto cardinale (cfr. il Rig Veda)un quinto, il centro, il qui.
L’essere del Sole è colto dall’uomo attraverso un vissuto analogico: l’uomo come il sole, guarda le cose del mondo ed è animato da un desiderio di dare vita. L’uomo e il sole si fondono dunque in un unico “contesto” mitico all’interno del quale la loro ricca potenzialità trova magnifica espressione. Ed il sole diviene simbolo della coscienza diurna, della chiaroveggenza, della comprensione e dell’intelligenza attiva, discriminatrice, “luminosa”.
Il sole, il cui raggiante volto tutto vede ed ascolta, è per gli uomini il testimone più affidabile e dunque in suo nome vengono pronunciati i giuramenti.
Il disco solare è simile ad un grande occhio nel cielo che tutto vede («Omnia qui video, per quem videt omnia tellus, mundi oculus», Ovidio) e assume quindi anche la funzione di padre che sa giudicare e provvedere: il momento etico della qualità di testimone si radica infatti nell’atteggiamento genitoriale.
«Il padre [lo] guardi! Non il mio, ma quello che vede tutto ciò: Hêlios!», invoca Oreste nella tragedia di Eschilo Le Coefore. Le sue parole ci riportano ad una mitologia solare presente in Grecia già in epoca preellenica.
Nell’iconografia greca, come nella splendida immagine fidiaca che adorna le pareti di un cratere apulo (vedi figura), Hêlios appare come un giovane di straordinaria bellezza, nel fiore degli anni, la cui testa è circondata da raggi che formano la sua capigliatura dorata. Egli percorre il cielo con un cocchio regale trainato dai quattro cavalli alati (Piroide, Eoo, Etone e Flegone) i cui nomi evocano la fiamma, il fuoco, la luce. In altri casi il carro di fuoco è trainato da draghi che ne esprimono il carattere violento.
Il mito racconta anche (cfr.Platone, Fedro) che l’anima umana guida nel cielo un carro trainato da due cavalli alati, uno bianco e uno nero, e mentre il cavallo bianco è docile alle direttive dell’anima e tende verso l’alto, il cavallo nero, indocile, cerca di muovere verso il basso.
Al di fuori di questo splendido contesto mitico, quando si abbandona la ricchezza immaginifica del mito e ci si limita al linguaggio del logos si perde il fascino del dio Hêlios, ma anche tutto il potere del mondo divino-solare che ruota intorno all’uomo (Kerényi, p. 25)1.
I cavalli, animali sacri a Poseidone, il signore degli abissi, richiamano la sfera ctonia, il lato profondo e tenebroso dell’essere. Sul monte Taigeto veniva sacrificato un cavallo a Hêlios e, sempre in suo onore, a Rodi veniva affogato in mare un tiro di quattro cavalli. Tali sacrifici di animali ctonii in onore del Sole evidenziano, secondo Kerényi, lo stretto rapporto tra il mondo diurno e quello notturno, tra il luminoso mondo solare e il tenebroso mondo degli inferi.
L’accostamento dell’immagine del Sole a quella del carro è certamente molto antica, e appartiene a culture anteriori a quella greca. In Grecia la figura di Hêlios, il viandante del cielo, il visibile che rende visibile e si muove su un cocchio trainato da cavalli bianchi è contrapposta ad Ade (a-idês nella lingua omerica, cioè l’Invisibile), il dio dei morti, signore del mondo sotterraneo, degli Inferi, il cui stesso nome era impronunciabile, che guida un cocchio trainato da quattro cavalli neri. Poiché solo chi può dare la visibilità la può togliere, evidentemente Hêlios, nella figura di Ade rappresenta quella mancanza (e qui si manifesta tutta l’inquietudine espressa dall’alpha privativo) di vista e di visibilità che viviamo ogni notte e che sperimentiamo in maniera definitiva con la morte. Lo stretto collegamento tra Hêlios e Ade rappresenterebbe l’unità di colui che dispensa la vita e di colui che la sottrae come l’unità del vivere e del trapassare nella morte. Hêlios «lascia sorgere il giorno di vita di ciascun uomo, con quel destino di cui [è] carico, ma può anche sottrarre giorni di vita, e insieme la vista, la visibilità e la vita» (p. 31).
Del resto nella tradizione egizia, molto più esplicitamente, era detto che il dio sole scendeva con la sua imbarcazione ogni notte ad occidente nelle acque di Nun, oceano primordiale, regno dei morti che percorreva interamente per risorgere il mattino dopo ad oriente.
I poeti greci più arcaici, come i testi epici cantano di un Sole o di figure solari (Eracle) che navigano su una barca, su una coppa o su un calice le correnti dell’Oceano (vedi figura a pagina 143), per salire poi sul cocchio celeste quando Eos, l’Aurora dalle rosee dita, la dea del mattino apre le porte del Cielo.
Per i pitagorici il Sole girava intorno alla terra, che essi già rappresentavano sferica e solida di modo che mentre su una parte era la notte, dall’altra splendeva il giorno.
Una mappa neobabilonese del VI secolo a. C. (copia di un originale del secolo VIII) mostra l’oceano primordiale “fiume amaro” che scorre intorno al disco circolare della terra.
Il mitologema del sole natante in un piccolo recipiente sulle primordiali acque dell’Oceano che scorrono senza fine al di là dei confini della terra e l’immagine di Hêlios che sorge da “Oceano dalle profonde correnti” in realtà si riferiscono ad un unico evento: l’inabissarsi di Hêlios e il suo risorgere.
Il rito dell’animale sacrificato al sole amplifica il senso proposto dall’immagine del calderone che fluttua sulle correnti. Ambedue parlano del dio Sole che addormentandosi si nasconde, nella “dimora di Ade”, il regno tenebroso di Oceano dalle correnti spumeggianti, per risvegliarsi e rinnovarsi ogni giorno. Oceano è il dio che si trova fuori da ogni delimitazione (solo la terra è circoscrivibile e delimitata) e il suo luogo non è un luogo bensì un confine ed una separazione da “ciò che sta oltre”. Ma sono proprio le sue rapide correnti che portano Hêlios in verticosa velocità da occidente ad oriente, per ridare ogni giorno sulla terra, la luce, la vista e la vita. L’apparente opposizione e incomunicabilità tra queste due regioni è risolta nel mito.
«Soltanto in modo contraddittorio può essere descritto quel luogo fuori di ogni luogo, dove Hêlios è sull’Oceano e insieme dentro la sua corrente. – Scrive Kerényi – Neppure il “di fuori” in rapporto alla terra risulta determinato da quella posizione. Poiché tutto ciò di cui si racconta che giaccia fuori dei confini della terra, avvolto nella tenebra, come la casa di Ade, viene anche trasferito nelle profondità della terra. “Tenebra” e “profondità terrestre” sono soltanto espressioni diverse per dire che vi è qualcosa al di fuori della vicenda di giorno e di notte, e quindi non soltanto fuori di ogni luogo [sottolineatura nostra], ma anche del tempo».
Parmenide (fr. 1), nel proemio del suo poema Sulla natura racconta la vicenda del viaggio ai confini del suo desiderio, in cui ha potuto conoscere ogni cosa e, ritornato tra gli uomini, narrarla. Egli sale sul cocchio di Hêlios, guidato da cavalle alate che possono portarlo fin dove può giungere il suo desiderio: «L’asse dei mozzi, premuto da ambedue le parti dai cerchi ruotanti, mandava un suono sibilante, quando le figlie del sole, lasciate le case della notte, tolti i veli dal capo, si affrettarono a spingere il carro verso la luce. Là è la porta che divide i sentieri del giorno e della notte» (fr. 1, vv. 6-10). Qui lo accoglie la dea rivelatrice della verità, che prendendo la sua destra così dice: «O giovane, che insieme a immortali guidatrici, giungi alla nostra dimora portato dalle cavalle, sii il benvenuto, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto per questa via, che è fuori dal cammino battuto dagli uomini, ma un divino comando e giustizia. Bisogna che tu tutto conosca e l’animo indomito della Verità ben rotonda e le opinioni dei mortali la cui verità non è affidabile. Ma anche questo imparerai: come le cose che appaiono era necessario che fossero nel modo in cui appaiono, essendo tutte in ogni senso» (fr. 1, vv. 24-32). Attraverso il mito giungiamo a cogliere più completamente ciò che il logos del filosofo esprimerà più tardi in altre parole: «Indifferente è per me da dove iniziare, là infatti nuovamente dovrò ritornare» (fr. 5). L’Essere nasce dall’Atopon e il suo senso può divenire chiaro quando percorsi tutti i luoghi si sarà compreso che essi sono figura di quell’Altro che non può essere luogo. Vediamo dunque «la genesi stessa nella aspazialità e atemporalità dell’Essere assoluto. E di qui affaccia il suo splendente volto, nuovo ogni giorno, il padre Hêlios» (Kerényi, op. cit., p. 40).