Saggezza orientale e sapere occidentale Ananda K. Coomaraswamy

 

(tratto da Lettera e Spirito n. 3)

Orient et Occident e La Crise du Monde moderne sono, a eccezione de L’Homme et son devenir che apparve sotto altri auspici (Londra, Rider, 1928), i primi volumi di una serie in cui tutte le opere del sig. René Guénon già pubblicate in francese appariranno in lingua inglese. Il sig. René Guénon non è un “orientalista”, ma quel che gli Indù chiamerebbero un Guru. Ha vissuto prima a Parigi, ora, da molti anni, in Egitto, dove le sue relazioni sono islamiche.

La sua Introduction générale à l’étude des doctrines hindoues apparve nel 1921. Come preliminare ai suoi successivi lavori sulla filosofia tradizionale, a volte chiamata philosophia perennis (e si deve sottintendere universalis, giacché questa “filosofia” è stata l’eredità comune di tutta l’umanità senza eccezione), Guénon ha sgombrato il terreno da ogni falsa concezione in due importanti volumi, di una lettura talvolta faticosa, ma in nessun modo inutile: L’Erreur spirite, un’opera alla quale la Bhagavad-Gîtâ XVII, 4 «sono uomini delle tenebre coloro che rendono un culto ai morti e agli spiriti» avrebbe potuto servire da epigrafe (Parigi, 1923), e Le Théosophisme, histoire d’une pseudo-religion (Parigi, 1921). Sono stati seguiti da L’Homme et son devenir selon le Vêdânta e L’Ésotérisme de Dante (Parigi, 1925), Le Roi du Monde (Parigi, 1927), Saint Bernard (Marsiglia, 1929), Autorité spirituelle et pouvoir temporel (Parigi, 1929), Le Symbolisme de la Croix (Parigi, 1931), Les États multiples de l’Être (Parigi, 1932) e La Métaphysique orientale (Parigi, 1939), una conferenza tenuta alla Sorbona nel 1925.

Ananda Coomaraswamy

Nel frattempo, importanti articoli di René Guénon apparvero mensilmente ne Le Voile d’Isis, in seguito Études Traditionnelles, rivista che fu, sotto molti aspetti, unica, ma il cui destino è sconosciuto a questo punto dopo il numero apparso nel maggio 1940. Questa rivista era consacrata alla “tradizione perpetua e unanime rivelata tanto dai dogmi e dai riti delle religioni ortodosse quanto dal linguaggio universale dei simboli iniziatici”.

Tra gli articoli che sono apparsi altrove, attireremo l’attenzione su L’ésotérisme islamique pubblicato ne Les Cahiers du Sud dell’anno 1935. Estratti dell’opera di Guénon con alcuni commenti sono apparsi in Triveni (1935) e ne The Visva-bharati quarterly (1935-1938).
Il linguaggio di Guénon è al tempo stesso preciso e chiaro e perde inevitabilmente nella traduzione; la materia trattata è di un interesse accattivante, almeno per chiunque tenga a quel che Platone chiama le cose realmente serie. Tuttavia, è stato spesso trovato poco gradevole, in parte per le ragioni già date abbastanza paradossalmente da un critico del Meister Eckhart di Blakney nel Harvard Divinity School Bulletin (XXXIX, 1942, p. 107), che dice che «in un’epoca in cui si crede alla personalità e al personalismo, l’impersonalità del misticismo è sconcertante; e in un’epoca che si sforza di gettare uno sguardo più acuto nella storia, l’indifferenza dei mistici per gli eventi del tempo è sconcertante».

Quanto alla storia, le seguenti righe di Guénon: «colui che non può uscire dal punto di vista della successione temporale e considerare tutte le cose in modo simultaneo è incapace della minima concezione dell’ordine metafisico» (La Métaphysique orientale, p. 17) completano in modo adeguato la definizione di Jacob Böhme de «la storia che una volta avvenne» come «puramente e semplicemente la forma (esteriore) del cristianesimo» (Sig. Rerum, XV, 24). Per gli Indù, gli eventi del Rig-Vêda sono “ora-sempre” e senza data, e la Lîlâ di Krishna “non è un evento storico”; la fiducia del Cristianesimo in presunti “fatti” storici sembra essere la sua grande debolezza. Il valore della storia letteraria è irrisorio per la dossografia ed è per questa ragione che tanti Indù ortodossi hanno pensato che gli studi occidentali fossero un “crimine”: il loro interesse non è in “ciò che gli uomini hanno creduto” ma nella verità.

Un’altra difficoltà sta nello stile intransigente di Guénon: «La civiltà occidentale è un’anomalia, per non dire una mostruosità». A questo proposito, un critico (Betty Heimann in BSOAS, X, 1942, p. 1048) ha detto che «delle vedute così radicali non possono essere condivise nemmeno dai critici delle imprese occidentali». Avremmo creduto che ora che il loro esito è sotto i nostri occhi, la verità del giudizio di Guénon avrebbe potuto essere riconosciuta da tutti gli Europei senza pregiudizi; in ogni caso, il professor La Piana ha detto che «quella che chiamiamo la nostra civiltà è solo una macchina omicida senza coscienza e senza ideale” (Harvard Divinity School Bulletin, XXVII, 27) e avrebbe anche ben potuto dire “suicida” invece d’omicida. Sarebbe molto facile citare le innumerevoli critiche dello stesso genere; Sir S. Radhakrishnan sostiene, ad esempio, che «la civiltà non vale la pena d’essere salvata se continua sulle stesse basi» (Eastern Religions and Western thought, p. 257) e questo sarebbe difficile da negare; il professor A. N. White Head ha parlato altrettanto vigorosamente: «Resta lo sfoggio della civiltà senz’alcuna delle sue realtà» (Adventures of ideas, 1933, p. 1358).

In ogni caso, se vogliamo leggere Guénon, dobbiamo disfarci di questa prospettiva temporale e ingenua che ha così lungamente e così compiacentemente considerato un progresso continuo dell’umanità culminante nel XX secolo, e consentire almeno a chiederci se non v’è stata una continua caduta “dall’età della pietra fino ad ora”, come mi disse una volta uno degli uomini più eruditi degli Stati Uniti. Non è con la “scienza” che possiamo essere salvati, «Il possesso delle scienze, se non ingloba la migliore, sarà utile solo in alcuni rari casi, ma il più delle volte sarà dannoso al suo possessore» (Platone, Alcibiade II, 144 b.). «Siamo obbligati a riconoscere che la nostra cultura europea è unicamente una cultura della ragione e dei sensi» (Worrington, Form in Gothic, p. 75); «la prostituzione della scienza può condurre a una catastrofe mondiale» (Leroy Waterman in JAOS, LVIII, 410); «la nostra dignità e il nostro interesse esigono che noi siamo i dirigenti e non le vittime del progresso tecnico e scientifico» (Herbert Morison in The British Association report, science and world order, gennaio 1942, p. 33); «pochi negheranno che il XX secolo ci abbia finora portato un’amara delusione» (professor J. M. Mecklin in The Passing of the Saint, p. 197); «dobbiamo ora affrontare la bancarotta completa in tutti gli ambiti della vita» (Lionel Giles in Luzac’s oriental list). Eric Gill parla della “mostruosa disumanità” dell’industrialismo e del modo di vivere moderno come «né umano né normale né cristiano … è il nostro modo di pensare che è bizzarro e snaturato» (Autobiography, pp. 145-174-279).

Il nostro sentimento di frustrazione è forse il segno più incoraggiante del nostro tempo. Abbiamo insistito su queste cose perché è solo a coloro che sentono questa frustrazione e non a coloro che credono ancora nel progresso che Guénon si rivolge; per coloro che sono soddisfatti, tutto ciò ch’egli ha da dire parrà assurdo.

Le reazioni dei Cattolici romani sono molto istruttive. Uno di loro ha osservato che Guénon è un “metafisico serio” convinto della verità che espone e ardente nel dimostrare l’unanimità delle tradizioni orientali e scolastiche, e quest’autore osserva che «in questioni simili, la fede e la comprensione devono andare di pari passo» (Walter Shewring in Weekly review, gennaio 1939). Crede ut intelligas è un consiglio di cui gli studenti moderni farebbero bene a tener conto; è forse proprio perché non abbiamo creduto che non abbiamo ancora capito l’Oriente. Lo stesso autore scrive d’Orient et Occident: «René Guénon è uno dei rari scrittori del nostro tempo la cui opera sia davvero importante … Egli difende il primato della pura metafisica su tutte le altre forme di conoscenza e si presenta come l’interprete di una superiore tradizione del pensiero, a predominanza orientale ma condivisa nel Medioevo dagli scolastici dell’Occidente … È chiaro che la posizione di Guénon non è quella dell’ortodossia cristiana ma molte, forse la maggior parte delle sue tesi, sono, in realtà, più in accordo con l’autentica dottrina tomista di quanto non lo siano molte opinioni di cristiani pii ma malinformati» (Weekly review, 28 agosto 1941). Faremmo bene a ricordarci che anche san Tommaso d’Aquino non disdegnava di fare uso di “prove intrinseche e probabili” provenienti da filosofi “pagani”.

Gérald Vann, peraltro, commette l’errore annunciato nel titolo del suo articolo The Orientalism of René Guénon (in New English Weekly, settembre 1941) giacché non si tratta di un nuovo “ismo” né di un’antitesi geografica, ma di un’antitesi tra la teoria tradizionale e l’empirismo moderno. Vann si lancia in difesa di quello stesso Cristianesimo in cui Guénon vede quasi l’unica possibilità di salvezza dell’Occidente; unica possibilità, non perché non vi siano altri corpi di verità, ma perché la mentalità dell’Occidente è adattata a una religione esattamente di questo tipo e perché ne ha bisogno. Ma se il cristianesimo doveva fallire, è semplicemente perché le sue prospettive intellettuali sono state sommerse ed esso è divenuto un codice morale piuttosto che una dottrina dalla quale tutte le applicazioni possono e debbono essere derivate. A malapena due frasi consecutive di certi sermoni di Meister Eckhart sarebbero comprensibili in un’ordinaria congregazione moderna, che non si aspetta dottrina ma attende solo che gli si dica come comportarsi. Se Guénon vuole che l’Occidente studi la metafisica orientale, non è perché è orientale, ma perché è la metafisica. Se la metafisica orientale differisse dalla metafisica occidentale – come la vera filosofia differisce da quella che viene spesso così definita nelle nostre università moderne – l’una o l’altra non sarebbe la metafisica. È dalla metafisica che l’Occidente s’è allontanato nella sua disperata impresa per vivere di solo pane, un’impresa i cui frutti da Mar morto sono sotto i nostri occhi. È solo perché quella metafisica si mantiene ancora come una potenza di vita nelle società orientali – nella misura in cui non sono state corrotte dal disseccante contatto con la civiltà occidentale o piuttosto con la civiltà moderna (giacché l’opposizione non è tra Oriente e Occidente come tali, ma tra “quelle vie che il resto dell’umanità segue in modo del tutto naturale” e quei cammini che dal Rinascimento ci hanno portato nell’impasse presente) – e non per orientalizzare l’Occidente ma per riportarlo alla coscienza delle radici della propria vita e dei valori che sono stati svalutati nel senso più sinistro che Guénon ci chiede di rivolgersi a Oriente. Non vuol dire, e mostra chiaramente che non vuol dire, che gli Europei dovrebbero diventare Indù o Buddisti, ma piuttosto che essi, che non arrivano a nulla con lo studio della “Bibbia quale letteratura” o lo studio di Dante “come poeta” dovrebbero riscoprire il loro Cristianesimo o, il che è lo stesso, Platone (“Questo Sommo Sacerdote” come lo chiama Meister Eckhart). Siamo sovente stupiti dell’immunità degli uomini nei confronti dell’Apologia o del settimo capitolo della Repubblica; supponiamo che sia perché non vogliono sentire la parola: «Sebbene ve ne fu uno che resuscitò dai morti».

La pubblicazione d’Orient et Occident non pone solo un problema teorico (dobbiamo ricordare al lettore moderno che, dal punto di vista della filosofia tradizionale, “teorico” non è per niente un termine spregiativo) ma anche un problema pratico urgente. Pearl Buck domanda: «Perché i pregiudizi sono così forti attualmente? La risposta, a me sembra, è facile. I mezzi di trasporto e altre circostanze hanno costretto parti del mondo una volta lontane le une dalle altre a entrare attualmente in uno stretto contatto cui i popoli non sono né psichicamente né spiritualmente preparati … Non è necessario credere che questa fase iniziale debba continuare. Se coloro che sono preparati a fare da interpreti vogliono fare il proprio lavoro, troveremo forse da qui a una generazione o due, o anche prima, che l’avversione e il partito preso saranno scomparsi. Questo è possibile solo se misure forti e tempestive sono prese dai popoli per rimanere mentalmente all’altezza del problema posto della crescente prossimità cui la guerra ci costringe» (Asia, marzo 1942). Ma se ciò dovesse accadere, l’Occidente dovrà abbandonare ciò che Guénon chiama “la sua furia di proselitismo”, espressione che non va riferita soltanto all’attività dei missionari cristiani, per quanto deplorevole a volte sia, ma all’attività di tutti i distributori di “civiltà” moderna e a quella di quasi tutti gli “educatori” che pensano d’avere più da dare che da ricevere da quelli che sono spesso chiamati i popoli “arretrati” o “che non progrediscono”; all’attività di tutti coloro ai quali non viene in mente che si può non volere il progresso o non averne bisogno quando si sia raggiunto uno stato d’equilibrio che contribuisce già alla realizzazione di quelli che si considerano come i più grandi scopi della vita.

René Guenon

È in quanto manifestazione di buona volontà e delle migliori intenzioni che questa furia di proselitismo assume gli aspetti più pericolosi. Proprio quest’anno, il Vicepresidente Wallace ha detto che «le nazioni più antiche avranno il privilegio d’aiutare le nazioni più giovani ad avanzare nel cammino dell’industrializzazione … Man mano che le loro masse imparano a leggere e a scrivere e a diventare dei meccanici produttivi (quel che Aristotele chiama “utensili viventi” e noi “schiavi prezzolati” o “braccia”!) il loro tenore di vita raddoppierà e triplicherà». Per molti, questo non può che ricordare la favola della volpe che perse la coda e convinse le altre a tagliare la loro … L’industrializzazione dell’Oriente può essere inevitabile ma non diamo il nome di benedizione al fatto che un uomo sia ridotto al livello del proletariato e non affermiamo per di più che un tenore di vita materiale più elevato comporta necessariamente una maggiore felicità. L’Occidente scopre solo ora, con suo grande stupore, che le «attrattive materiali, vale a dire il denaro e le cose che il denaro può comprare non sono in alcun modo una forza tanto irresistibile quanto s’era supposto»; «Al di là del livello di mantenimento, la teoria secondo cui questo stimolo sarebbe categorico è largamente un’illusione» (National Research Council, Fatigue of Workers, 1942, p. 143). Quanto all’Oriente, come dice Guénon: «L’unica impressione che le invenzioni meccaniche, ad esempio, producono sulla generalità degli Orientali, è un’impressione di profonda repulsione; tutto questo pare loro sicuramente molto più fastidioso che vantaggioso e, se si trovano costretti ad accettare certe necessità dell’epoca attuale, è con la speranza di sbarazzarsene un giorno o l’altro … Ciò che gli Occidentali chiamano elevarsi, vi sono alcuni che, per quanto li riguarda, lo chiamerebbero abbassarsi; questo è ciò che ne pensano tutti gli Orientali» (Orient et Occident, pp. 38, 64).

Non bisognerebbe supporre perché, per legittima difesa, tanti popoli orientali ci hanno imitato, che abbiano con ciò accettato i nostri valori; al contrario, è proprio perché l’Oriente conservatore nega ancora tutti i pregiudizi sui quali riposa la nostra illusione di progresso che merita la nostra più seria considerazione.

Non v’è nulla nei contatti economici che sia capace di ridurre automaticamente il pregiudizio o di provocare la reciproca comprensione. Anche quando gli Europei vivono in mezzo agli Orientali, «il contatto economico tra Orientali e Occidentali è praticamente l’unico contatto che vi sia. Vi sono scarsissimi scambi sociali o religiosi tra i due. Ciascuno vive in un mondo interamente chiuso all’altro, e per “chiuso” intendiamo non solo “sconosciuto” ma di più: incomprensibile e inaccessibile» (J. H. Boeke, Structure of Netherlands Indian Economy, 1942, 68). Ciò costituisce un’alleanza disumana con cui entrambe le parti sono disonorate.

Non bisogna neanche supporre che l’Oriente creda importante che le masse imparino a leggere e a scrivere. L’istruzione è praticamente una necessità in una società industriale, in cui la tenuta dei conti è di grande importanza. Ma in India, nella misura in cui i metodi d’educa zione occidentali non sono stati imposti dall’esterno, qualsiasi istruzione superiore è impartita oralmente, e l’avere ascoltato è molto più importante d’aver letto. Nello stesso tempo, il contadino, impedito dalla sua ignoranza e dalla sua povertà a divorare giornali e riviste che formano la lettura quotidiana e quasi l’unica lettura della grande maggioranza dei “letterati” occidentali, è, come i fattori Beoti d’Esiodo, e ancor più come gli Highlander che parlavano gaelico prima dell’era delle scuole primarie, del tutto edotti della letteratura epica di profondo significato spirituale, e di tutta una poesia e musica di valore incalcolabile; e non si può che rimpiangere l’estensione di un’“educazione” che comporta la distruzione di tutte queste cose o le conserva solo come curiosità sotto la copertina dei libri. Per dei bisogni culturali, non è importante che la massa sia alfabetizzata; non è necessario che chiunque sia alfabetizzato; è necessario solo che tra il popolo vi siano dei filosofi (nel senso tradizionale, non nel senso moderno della parola) e che il profano conservi un profondo rispetto per la vera conoscenza, il che è all’opposto dell’atteggiamento americano nei confronti di un “Professore”. Sotto quest’aspetto, l’intero Oriente è ancora di gran lunga avanti all’Occidente e di conseguenza la cultura dell’élite esercita sulla società in generale un’influenza ben più profonda di quella che il “pensatore” specializzato dell’Occidente potrebbe mai sperare d’esercitare.

Tuttavia, ciò che interessa soprattutto Guénon, non è la protezione dell’Oriente contro le incursioni sovversive della “cultura” occidentale, ma piuttosto questa questione: quale possibilità di qualche rigenerazione può essere considerata per l’Occidente? La possibilità esiste solo nel caso di un ritorno ai principi originari e ai modi di vivere normali che procedono dall’applicazione dei principi originari alle circostanze contingenti; e poiché è solo in Oriente che le cose sono ancora viventi, è verso l’Oriente che l’Occidente deve voltarsi … «È l’Occidente che deve prendere l’iniziativa, ma per andare veramente verso l’Oriente, non per cercare di tirare l’Oriente a sé come ha fatto finora. Quest’iniziativa, l’Oriente, non ha alcuna ragione di prenderla, anche se le condizioni del mondo occidentale non fossero tali da rendere inutile qualsiasi sforzo in questo senso … Ci rimane ora da indicare come tale tentativo può essere considerato» (Orient et Occident, pp. 145-146).

Si appresta a dimostrare che il lavoro dev’essere svolto nei due domini della metafisica e della religione e può essere intrapreso solo al più alto livello intellettuale, dove un accordo sui principi originari può essere raggiunto, lungi da qualsiasi propaganda o addirittura da ogni apologia della “civiltà occidentale”.

Il lavoro dev’essere intrapreso, perciò, da un’“élite”. Ora, siccome quello che Guénon vuol dire è qui, più che altrove, suscettibile d’essere volontariamente frainteso, dobbiamo comprendere chiaramente ciò che intende per una tale élite. L’opposizione tra Oriente e Occidente essendo solo “accidentale” il ravvicinamento di queste due porzioni dell’umanità e il ritorno dell’Occidente a una civiltà normale sono una sola e stessa cosa. «L’élite lavorerà prima per se stessa, poiché, naturalmente, i suoi membri raccoglieranno dal proprio sviluppo un beneficio immediato e indiscutibile» (Orient et Occident, p. 184). Un risultato indiretto, “indiretto” perché, a questo livello intellettuale non si pensa a “fare del bene” agli altri o a “servire” ma si cerca la verità perché se ne ha bisogno per se stessi – potrebbe, in condizioni favorevoli, indurre un «ritorno dell’Occidente a una civiltà tradizionale», cioè a una civiltà in cui «tutto appare come l’applicazione e il prolungamento di una dottrina puramente intellettuale o metafisica nella sua essenza» (Orient et Occident, pp. 215-216).

René Guénon insiste ripetutamente sul fatto che con tale élite egli non intende un corpo di specialisti o di eruditi che assorbirebbe e imporrebbe all’Occidente le forme di una cultura straniera o addirittura che persuaderebbe l’Occidente a ritornare a una civiltà tradizionale come quella che esisteva nel Medioevo. La cultura tradizionale si sviluppa attraverso l’applicazione dei principi alle contingenze; i principi, infatti, sono immutabili e universali, ma proprio come nulla può essere conosciuto se non nel modo del conoscente, così nulla di valido può essere realizzato socialmente senza tener conto delle caratteristiche degli interessati e in particolare delle circostanze del tempo in cui vivono. Non v’è da sperare in una “fusione” delle culture; un’élite non avrebbe in vista niente di simile a un “eclettismo” o a un “sincretismo”. Nello stesso modo, mai una tale élite sarebbe organizzata in modo da esercitare un’influenza così diretta come quella, ad esempio, che i tecnocrati vorrebbero esercitare per il bene dell’umanità. Se una tale élite mai nascesse, la stragrande maggioranza degli Occidentali non ne saprebbe nulla; essa agirebbe soltanto come una sorta di lievito, e certamente a favore di, e non contro ciò che può sopravvivere d’essenza tradizionale nei domini dell’Ortodossia greca e del cattolicesimo romano, per esempio. È, infatti, una cosa curiosa che alcuni dei più potenti difensori del dogma cristiano si trovino tra gli Orientali che non sono essi stessi cristiani o suscettibili di divenire mai cristiani, ma riconoscono nella tradizione cristiana un’incarnazione della verità universale che Dio non ha mai, né da nessuna parte, lasciato senza testimonianza.

Nel frattempo, René Guénon domanda: «… questo sarebbe veramente il “principio della fine” per la civiltà moderna? … perlomeno, molti indizi devono dar da riflettere a coloro che ne sono ancora capaci; l’Occidente arriverà a riprendersi in tempo?». Pochi negheranno che non siamo di fronte alla possibilità di una totale disintegrazione della cultura. Siamo in guerra con noi stessi e perciò in guerra gli uni contro gli altri. L’Occidentale è squilibrato e la domanda: può riprendersi? è di un’impellenza assai reale. Nessuno di coloro cui la domanda si presenta può permettersi d’ignorare gli scritti del miglior interprete contemporaneo della Saggezza tradizionale, che non è più essenzialmente orientale di quanto non sia occidentale, sebbene forse sia solo nelle parti più lontane della terra che ci si ricorda ancora d’essa e che dev’essere ricercata.


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