La fotografia come linguaggio del processo trasformativo

Lorenzo Scaramella

La fotografia come processo alchemico

La storia della fotografia è molto ricca di procedimenti di stampa oggi quasi completamente abbandonati. Le ragioni di questo abbandono sono varie, ma possono essere riassunte, brevemente ed essenzialmente, nel fatto che all’inizio del nostro secolo la fotografia divenne sempre di più un fenomeno industriale, mentre tutti i procedimenti in questione richiedevano per la loro esecuzione molto tempo e lavoro; essi risultavano, quindi, inadatti ad una produzione di massa. Di qui il loro progressivo abbandono in favore di altri più rapidi e di minor costo.

Tutto questo non ha nulla a che vedere con la bellezza di queste tecniche ognuna delle quali è dotata di sue peculiari possibilità espressive e di una sua sintassi.

argento1Poter disporre di molti mezzi espressivi è come possedere un vocabolario ricco di parole: esse danno spazio e possibilità ad un’espressione molto ampia ed articolata: permettono di esprimere sfumature non altrimenti estrinsecabili.

I miei personali interessi verso queste tecniche risalgono a diversi anni fa: facevo fotografie, le sviluppavo e le stampavo con i metodi usuali, come tutti gli appassionati.

Imparavo dalla mia esperienza, da alcuni libri e, soprattutto dalle riviste fotografiche che, all’epoca (negli anni ‘70), avevano un giusto equilibrio tra immagini e tecnica.

Periodicamente ero incuriosito da qualche articolo in cui si parlava, un poco favoleggiandone di “stampa al carbone”, di “carta salata” o di “stampa al platino”.

In questi articoli si decantavano le qualità di queste tecniche ma si concludeva sempre ed invariabilmente sulla impossibilità di realizzarle al giorno d’oggi.

Feci qualche tentativo con la stampa al carbone, ignorando naturalmente che si trattava di una delle tecniche più difficili: i risultati non furono molto incoraggianti.

Finiti gli studi decisi di dedicare a questi argomenti qualche approfondimento, ma, per farlo, decisi di abbandonare le varie riviste più o meno attendibili e di rifarmi direttamente alle fonti. Cominciai quindi una assidua frequentazione di biblioteche leggendo vari manuali e riviste della seconda metà dell’800.

Così ripartendo dall’inizio rifeci quello che poteva fare un fotografo dell’epoca. Non fu facilissimo, ma fu possibile.

La mia attenzione si rivolse a quelli che erano reputati essere i procedimenti più belli con particolare attenzione a quelli più stabili.

Il procedimento fotografico può essere riassunto, simbolicamente (ma anche in pratica), in un cammino verso la luce. “Fotografia” etimologicamente indica proprio la possibilità di esprimersi attraverso la luce.

La luce è necessaria perché senza di essa non ci sarebbe immagine, la chimica lo è perché, senza, non la si potrebbe fermare.

Così la fotografia viene in qualche modo a coincidere con un processo alchemico. Storicamente i legami tra fotografia e alchimia sono intuitivamente evidenti: “solve et coagula”, nella nascita di un’immagine c’è una fase di contatto con il soggetto, una sua distruzione ed elaborazione ed infine la sua rinascita nella stampa. Dobbiamo ammettere che ogni immagine che produciamo è, in qualche modo, un nostro autoritratto; così possiamo dire che ogniqualvolta è una parte di noi ad essere distrutta, elaborata ed a nascere di nuovo.

Mi hanno sempre interessato tutti i sistemi atti a produrre immagini; ma quello che ha sempre attirato di più il mio interesse è stato quello fotochimico.

A volte penso al suo significato simbolico: il sistema fotochimico (o se vogliamo quello fotografico) è l’unico in cui dall’immagine finale deve essere sempre allontanato ciò che la ha generata. Ancora di più i prodotti chimici cui deve la sua nascita, se non allontanati, diventerebbero la causa della sua degenerazione.

Vi sono poi procedimenti che presentano strane e significative concordanze e rassomiglianze con il processo alchemico.

Nella comune tecnica della fotografia a colori ad esempio c’è una prima fase in cui la pellicola annerisce completamente che può essere assimilata alla alchemica “nigredo”, una seconda fase chiamata comunemente “sbianca”, cioè “albedo” ed una terza fase che è quella in cui appaiono i colori nella loro forma definitiva che potremmo identificare con la “rubedo”.

Da notare che i colori che appaiono e si rivelano alla fine del procedimento si sono formati proprio nella fase “oscura” dello sviluppo, quasi a significare che forse sono proprio le fasi più oscure quelle più determinanti e produttive.

Nessuno di noi è mai solo ed il nostro lavoro, anche quando sembra nostra esclusiva e solitaria creazione, poggia sempre su quello, spesso silenzioso, di altri.

Spesso mi domando se alcune immagini siano proprio opera mia; penso piuttosto che le nostre opere non siano altro che l’espressione di un’altra realtà e che il nostro compito sia quello di portarle alla luce.

BREVE DESCRIZIONE DELLE TECNICHE
Carta Salata 

La fotografia come è noto, è un procedimento argentico. La sensibilità alla luce è data dai sali d’argento (cloruro d’argento, bromuro, ecc.) e l’immagine finale, nella fotografia in bianco e nero, è costituita da particelle di argento metallico puro.

Essenzialmente lo stampare in bianco e nero consiste nell’operazione di trasformare i sali d’argento (che sono bianchi o colore avorio chiaro) in argento metallico nero. Questa trasformazione può avvenire, essenzialmente, in due modi: o in maniera diretta, esponendo la carta sensibile ad una luce intensa, cosa che provoca l’annerimento dei sali d’argento; oppure esponendo la carta ad una luce molto più debole e provocando poi l’annerimento con lo “sviluppo”.

Il primo sistema fu di gran lunga il più praticato nel XIX secolo, mentre il secondo è il procedimento più moderno, in pratica l’unico ad essere utilizzato ai nostri giorni.

La carta ad annerimento diretto denominata “carta salata” fu il primo materiale da stampa della storia della fotografia: si tratta di una normale carta da lettera o da disegno, di buona qualità, dapprima trattata con una soluzione diluita di cloruro di sodio, quindi, una volta asciutta con una soluzione più concentrata di nitrato d’argento: si forma cloruro d’argento con un eccesso di nitrato; essa è, in altre parole, molto simile ai primi materiali utilizzati per la ripresa prima della scoperta dello sviluppo.

Il negativo viene posto in un torchio a contatto con la carta salata ed esposto alla luce solare, l’annerimento viene controllato grazie ad un dorso incernierato che permette di sollevare un lembo della carta salata per controllare la densità dell’immagine. Dopo la stampa la carta viene lavata per eliminare l’eccesso di nitrato d’argento, fissata nella soluzione d’iposolfito, quindi lavata; il colore dell’immagine è bruno-rosso.

Inutile dire che anche la carta salata ha subito molte varianti, ad esempio per ottenere colori di stampa diversi, ad opera dei vari fotografi e ricercatori.

La carta salata può agevolmente essere virata all’oro, in questo modo è possibile ottenere una vasta gamma di tonalità che vanno dal bruno-porpora al violetto (V. paragrafo dedicato ai viraggi).

Questo materiale fu utilizzato per la stampa dal 1839 al 1855/60; in seguito fu sostituita dalle carte “albuminate” e quindi dalle cosiddette “carte aristotipiche”(le due furono le tecniche più diffuse di tutto l’800), sempre ad annerimento diretto.

Essa fu ripresa nell’ultimo decennio dell’800 e nei primi del ‘900, ed utilizzato prevalentemente come tecnica di stampa “artistica”: il suo aspetto matt era molto apprezzato per la ritrattistica, e il fotografo poteva facilmente preparare il materiale nel suo laboratorio secondo le sue preferenze.

Procedimenti al bicromato: Stampa al carbone, stampa alla gomma e stampa agli inchiostri grassi 

Senza timore di essere smentiti si può dire che con queste tecniche la “fotografia”, nel senso etimologico del termine, si realizzi come mezzo fotochimico perfettamente duttile in cui le possibilità della tecnica si uniscono e si integrano con le idee e la fantasia dell’autore.

I Bicromati (detti anche semplicemente “cromati”) sono sali dell’acido cromico. Quelli utilizzati in fotografia sono: il bicromato di potassio, di sodio e di ammonio, tutti con caratteristiche ed effetti analoghi.

I primi studi pubblicati sui bicromati risalgono al 1839, e si devono allo scozzese Mungo Ponton. Gli studi furono, poi, ripresi negli anni ‘50 da H. Fox Talbot e quindi da Alphonse Poitevin cui si devono le prime applicazioni pratiche fondamentali.

Cerchiamo di spiegare, brevemente, il meccanismo chimico su cui si basano i procedimenti al bicromato.

I bicromati sono di per sé insensibili all’azione della luce; se però vengono mescolati ad una sostanza colloide come la gelatina, la gomma arabica, l’albumina, la gomma lacca, ecc. questa mescolanza diviene un sistema fotosensibile.

La proprietà che viene utilizzata in fotografia ed in fotomeccanica è la seguente: se noi mescoliamo un bicromato con una sostanza organica (come la gelatina, la gomma arabica, l’albumina ecc.) ed esponiamo questo preparato alla luce, esso diventa gradatamente insolubile in maniera proporzionale alla quantità di luce ricevuta. La gelatina o la gomma, detto in breve, induriscono e non possono più essere sciolte dall’acqua come prima dell’esposizione alla luce.

Le sostanze organiche più utilizzate sono quelle colloidi, ed in particolare, come si è già accennato, la gelatina e la gomma arabica. Anche se non mancano procedimenti in cui vengono utilizzati altri colloidi come l’albumina, la gomma lacca, l’alcool polivinilico, ecc.; la gelatina e la gomma arabica occupano senz’altro un posto particolare.

Dopo il trattamento con acqua la gelatina o la gomma arabica si scioglieranno nelle parti non esposte alla luce, resteranno invece insolubili, e quindi aderenti al supporto nelle zone esposte: avremo, in questo modo un’immagine costituita da uno strato di gelatina (o gomma arabica o altro colloide) sul supporto cartaceo. L’immagine sarà in rilievo: più spessa nelle zone maggiormente esposte, più sottile nelle altre.

Un altro effetto prodotto dall’esposizione alla luce avrà applicazioni molto importanti: la gelatina insolubilizzata ha una notevole affinità per gli inchiostri grassi, al contrario di quella non esposta che, assorbendo acqua, li respinge.

Su questo fenomeno (analogo, per intenderci, a quello che accade nella litografia) si baseranno numerosi procedimenti fotografici e fotomeccanici.

Essenzialmente il fenomeno di insolubilizzazione si produce poiché l’esposizione alla luce, in presenza del colloide, provoca la trasformazione del bicromato in ossido di cromo. Questa trasformazione ha come effetto secondario quello di rendere insolubile il colloide (gelatina o altro) utilizzato. Nella zone non esposte il bicromato resta inalterato e il colloide, quindi, resta solubile.

Questa è, dunque, la descrizione sommaria del fenomeno su cui si basano i procedimenti al bicromato. Per questa ragione essi vengono chiamati anche procedimenti ad “insolubilizzazione”.

I più famosi ed importanti furono, in fotografia il procedimento al carbone, la “gomma bicromata ”, il procedimento agli inchiostri grassi (procedimento all’olio e bromolio) e le tecniche fotomeccaniche.

Una particolarità delle stampe realizzate con i colloidi bicromati consiste nel fatto che possono presentarsi in una grande varietà di colori. Questo è naturale dal momento che i colloidi sono di per sé incolori e per ottenere l’immagine visibile vengono addizionati di pigmenti colorati: il nerofumo fu utilizzato soprattutto all’inizio (ma anche successivamente) per ottenere toni neri; ben presto si iniziarono ad utilizzare altri colori.

I procedimenti al carbone ed alla gomma sono per questo anche chiamati, in generale, “procedimenti ai pigmenti”.

Nell’ epoca di massima utilizzazione di questi materiali alcuni fabbricanti arrivarono ad offrire carte ai pigmenti con una possibilità di scelta tra 50 colori diversi; a questo si aggiunga, come si è detto, la possibilità di preparare alcuni tipi di carte in maniera autonoma.

Tra i colori preferiti, tuttavia, specie per la carta al carbone, vi saranno i toni bruni, che, come è noto, erano tra i preferiti nel XIX secolo.

Nella carta al carbone si utilizza uno strato di gelatina colorata steso su carta. Al momento dell’uso il foglio viene sensibilizzato con una soluzione di bicromato: una volta asciutto il foglio è pronto per l’uso e l’esposizione alla luce insolubilizza lo strato in maniera proporzionale alla sua quantità e lo sviluppo viene quindi fatto semplicemente immergendo la stampa in acqua calda dove le zone restate solubili si sciolgono.

In realtà la tecnica precisa richiede il trasferimento dell’immagine su un supporto definitivo, ma non vogliamo scendere in particolari troppo tecnici che esulano da queste note. L’importante è sapere che una stampa al carbone (o al pigmento che dir si voglia) è costituita in definitiva dal supporto cartaceo su cui poggiano i pigmenti trattenuti sulla carta dallo strato di gelatina insolubile. La sua stabilità è molto superiore a quella delle normali stampe argentiche in bianco e nero.

La gomma arabica è una resina estratta da una varietà di acacie. Commercialmente può presentarsi in forma di pezzi irregolari lentamente solubili in acqua, oppure in polvere più o meno bianca. Viene comunemente utilizzata come colla o anche per preparazioni alimentari. Una differenza importante rispetto alla gelatina risiede nel fatto che la gomma è solubile in acqua fredda mentre la gelatina lo è solo in quella calda, oltre naturalmente alla sua origine vegetale e non animale.

Benché la gomma come colloide fosse stato utilizzato negli anni ‘50-’60, all’epoca degli studi sul carbone, esso iniziò ad essere utilizzato elettivamente in epoca pittorialista (1890-1920/30).

Nel procedimento alla gomma sul foglio di carta viene steso con l’aiuto di un pennello uno strato di soluzione di gomma arabica colorata ed addizionata di bicromato. La stampa esposta viene sviluppata semplicemente immergendola in acqua a temperatura ambiente. Le particolari caratteristiche adesive della gomma permettono ampi interventi da parte dell’operatore: si può rendere più chiara l’immagine semplicemente agitando leggermente l’acqua o aumentandone leggermente la temperatura, si può versare un getto d’acqua per schiarire dei punti localizzati o intervenire con un pennello per togliere un eccesso di colore.

Possono essere aggiunti altri strati di gomma colorata (stampa multipla) per eseguire delle sovrastampe allo scopo di aggiungere ulteriori sfumature, per rendere più profonde e ricche di dettaglio le ombre o le luci dell’immagine. Possono essere eseguiti ulteriori passaggi con gomma colorata con pigmenti diversi in modo di ottenere delle stampe policrome.

Il procedimento, insomma, è analogo alla pittura: durante lo sviluppo si può agevolmente togliere il colore in eccesso, mentre con la tecnica della stampa multipla si possono aggiungere gradazioni mancanti o altri colori.

Questa grande malleabilità, unitamente alla relativa facilità ed economicità della preparazione, fanno della gomma bicromata senz’altro una delle tecniche più libere e creative della fotografia.

Il procedimento agli inchiostri grassi, detto anche all’olio, sfrutta la caratteristica, propria della gelatina insolubilizzata, di essere affine alle sostanze grasse e quella, propria di quella solubile, di assorbire acqua e di respingerle.

Un foglio di carta gelatinata e sensibilizzato con bicromato viene esposto quindi lavato in acqua fredda (in modo di lasciare assorbire acqua alla gelatina senza scioglierla).

Dopo questo trattamento la stampa viene posta su un piano e, ancora bagnata, inchiostrata con un inchiostro di tipo litografico: questo andrà ad aderire, per così dire automaticamente, nelle zone insolubilizzate, mentre sarà respinto dalla gelatina solubile rigonfia d’acqua.

Si tratta di una tecnica corrispondente alla litografia. L’inchiostrazione può avvenire con un rullo o con pennelli, di varia foggia, per ottenere gli effetti più vari.

Procedimenti ai sali ferrici: Stampa al platino, Kallitipia. 

Tra le tante sostanze fotosensibili studiate nel XIX secolo alcune meritano un’attenzione speciale per l’applicazione e l’importanza che ebbero nella storia della fotografia: i composti del ferro sono tra queste.

Il principio di funzionamento delle carte ai sali di ferro può essere descritto brevemente: i sali del ferro possono presentarsi in due forme dal comportamento chimico diverso tra loro; si distinguono i sali ferrici dai sali ferrosi. I sali ferrici sono normalmente stabili, ma per svariate ragioni, a volte possono trasformarsi in ferrosi.

Se esponiamo alla luce un sale ferrico (soprattutto un sale organico), esso, più o meno rapidamente si trasformerà in ferroso, in quantità proporzionale alla luce ricevuta.

Per esemplificare meglio faremo un esempio: prendiamo una soluzione di un sale ferrico e stendiamola, con un pennello, su un foglio di carta, quindi attendiamo che asciughi. Prendiamo ora un normale negativo fotografico, poniamolo a contatto sul foglio, ed esponiamo il tutto alla luce; avverrà che nelle zone trasparenti del negativo la luce trasformerà il sale ferrico in ferroso. Insomma avremo un’immagine formata da sali ferrici (zone non esposte alla luce) e sali ferrosi (zone esposte).

I sali ferrosi hanno la caratteristica di essere chimicamente dei riducenti; nel nostro caso, dunque, se mettiamo del nitrato d’argento insieme ai sali ferrici, nelle zone esposte alla luce, i sali ferrosi formati trasformeranno il nitrato d’argento in argento metallico (chimicamente: “ridurranno” il nitrato d’argento ad argento metallico).

Il procedimento appena descritto come esempio va sotto il nome di “kallitipia”, e permette di ottenere immagini argentiche mediante un uso appropriato dei sali ferrici.

Se al nitrato d’argento sostituiremo il cloruro di platino o di palladio otterremo delle immagini costituite di platino o di palladio (Platinotipia o Palladiotipia). Se, invece, metteremo del ferricianuro di potassio otterremo delle immagini blu intense costituite prevalentemente da Blu di Prussia e Blu di Turnbull (Cianotipia). Quest’ultimo procedimento è ancora in uso al giorno d’oggi per la sua economicità e praticità: è la comune cianografia.

Insomma, combinando opportunamente sali ferrici con determinati sali metallici potremo ottenere, e mettere a punto procedimenti in grado di fornire immagini di diversa costituzione fisico-chimica e di differente aspetto.

Storicamente i sali ferrici furono studiati fin dai primordi della fotografia da Sir J. Herschel, cui si deve, tra l’altro, la cianotipia. Il procedimento senz’altro più famoso sarà la platinotipia.

Questa tecnica merita un posto a parte tra i procedimenti ai sali ferrici e, più in generale, tra i procedimenti di stampa fotografica in genere: ci troviamo di fronte, infatti, ad una delle più famose e raffinate tecniche di tutti i tempi.

Esistevano diversi modi per la preparazione della carta al platino, quello che descriveremo brevemente fu, però, senz’altro il più praticato.

Storicamente il procedimento fu brevettato nel 1873 da William Willis; ebbe il suo apice nel periodo pittorialista (sebbene non sia stato assolutamente utilizzato solo dai pittorialisti), cioè tra ‘800 e ‘900.

Alla fine della prima guerra mondiale fu progressivamente abbandonato, come molti altri procedimenti di stampa; una ragione ulteriore che contribuirà alla sua scomparsa fu il forte aumento del prezzo del platino.

La carta al platino era prodotta industrialmente (una delle più famose industrie fu la “Platinotype Company”, fondata dallo stesso Willis) ma frequentemente il fotografo stesso provvedeva alla sua preparazione.

Questo permetteva sia di personalizzare al massimo il procedimento sia di poter preparare di volta in volta il quantitativo di carta strettamente necessario al momento: uno dei problemi principali del procedimento al platino, infatti, era la sua scarsa conservabilità; la carta pronta all’uso poteva essere conservata solo pochi giorni; in presenza di umidità addirittura si poteva alterare in poche ore.

La carta prodotta industrialmente veniva venduta in confezioni metalliche sigillate: una volta aperta la confezione i fogli dovevano essere utilizzati nel più breve tempo possibile anche se conservati nel migliore dei modi. La preparazione “in proprio” consentiva, quindi, di ovviare a questo problema.

Brevettata nel 1873 da Willis, che si era basato per le sue ricerche sulle già citate scoperte sulla sensibilità alla luce dei sali ferrici fatte da Sir John Herschel, la platinotipia si diffuse intorno agli anni ’80 fino alla fine della I guerra, in ambito pittorico e non, essendo uno dei più apprezzati procedimenti di stampa.

Un notevole contributo alla diffusione del procedimento venne dagli studi di G. Pizzighelli e A. Von Hübl che, all’inizio degli anni ‘80, pubblicarono “Die platinotipe”, uno studio fondamentale che fu prontamente tradotto in francese ed in inglese, e divenne un riferimento al riguardo.

Il rapporto tra il costo dei sali di platino e quelli, più comuni, dell’argento, non era così proibitivo come oggi. Il divario divenne maggiore alla fine della I guerra mondiale, il cui effetto fu, tra i tanti, quello di determinare enormi aumenti di tante materie prime; tra questi il platino.

Nel 1919 il maggior produttore di carta al platino introdusse una carta al palladio (platino e palladio sono due metalli dal comportamento molto simile e con minimi aggiustamenti possono essere interscambiati tra loro o anche mescolati) poiché quest’ultimo metallo era più economico pur fornendo immagini di grande qualità. Tuttavia, nonostante questo tentativo, la stampa al platino o al palladio subì la medesima sorte dei tanti raffinati procedimenti fotografici creativi : lentamente scomparvero dalla produzione soppiantati dalle più pratiche carte da stampa a sviluppo.

Al giorno d’oggi chi voglia cimentarsi in questo, che rimane uno dei più bei procedimenti fotografici, si scontra con due ordini di problemi: I) la difficile reperibilità dei prodotti chimici necessari. II) : l’elevato costo, se reperiti, dovuto essenzialmente alle piccole quantità necessarie per il singolo praticante. Per avere prezzi ragionevolmente più bassi ed accessibili occorrerebbe una richiesta molto maggiore che ne giustificasse una produzione su più vasta scala.

La preparazione pratica della carta al platino, una volta che si disponga dei prodotti chimici necessari, è relativamente facile: su una carta di ottima qualità di stende con l’aiuto di un pennello una mescolanza di sali ferrici e di sali di platino. Una volta asciutto il foglio viene esposto alla luce a contatto con il negativo: la luce ridurrà i sali ferrici in ferrosi. Una volta terminata l’esposizione la stampa viene immersa in una soluzione di ossalato di potassio dove l’immagine appare quasi istantaneamente.

I prodotti chimici vengono eliminati con una soluzione diluita di acido cloridrico e la stampa viene poi lavata.

Naturalmente esistono diverse varianti ma quella sopradescritta è la più praticata.

L’immagine finale è data da particelle di platino (o palladio) finemente suddivise ed estremamente stabili nel tempo.

La kallitipia è un procedimento di stampa introdotto negli anni ’80, poco tempo dopo la platinotipia; nella kallitipia si fa uso dei soliti sali ferrici e di sali d’argento, al posto dei ben più costosi sali di platino.

Storicamente esso si può inquadrare nella vasta ondata di procedimenti di stampa nati nel periodo a cavallo tra ‘800 e ‘900 . Periodo in cui una continua creazione e ricerca di nuove possibilità espressive, portò anche alla riscoperta di tecniche cadute in disuso o non giustamente valorizzate.

La kallitipia può definirsi un procedimento al platino “economico”: si basa, infatti, sulla medesima fotochimica ed anche il trattamento è molto simile, anche se, ovviamente, essendo l’immagine finale costituita da argento, le sue caratteristiche saranno differenti, sia nell’aspetto che per quello che concerne la stabilità.

I Viraggi

A parte le tecniche di colorazione manuale fatta con colori vari, un modo di variare ulteriormente la tonalità di una stampa è il “viraggio”.

Con questo termine si indica, in fotografia, un trattamento che alteri la struttura chimico-fisica di un fototipo con scopi prevalentemente estetici (o anche conservativi). Questa trasformazione è ottenuta trattando il fototipo stesso con soluzioni adatte, ed è resa possibile grazie alla notevole reattività delle particelle d’argento che costituiscono l’immagine.

Con il viraggio l’argento viene sostituito da altri composti di comportamento diverso.

Si ricorda che il colore dell’immagine argentica dipende in maniera sostanziale dall’interazione tra la struttura delle particelle dell’immagine e la luce: ad esempio particelle molto piccole conferiscono tonalità calde (argento fotolitico).

Da quanto detto, in maniera generale, a proposito del viraggio, si evince facilmente come un’alterazione nella struttura dell’immagine possa provocare anche mutamenti nel suo aspetto.

Un esempio chiarirà meglio quanto detto: uno dei viraggi più noti, ancora oggi, è il “viraggio seppia”, che conferisce alle foto in bianco e nero la caratteristica tonalità bruno-seppia; questo è dovuto al fatto che con suddetto viraggio l’argento dell’immagine viene trasformato, in parte o del tutto, in solfuro d’argento: le particelle di solfuro d’argento interagiscono con la luce diversamente da quelle di argento dell’immagine primitiva, da cui la diversa tonalità.

Poiché l’argento può reagire con numerosissime sostanze, sono esistiti molti viraggi, per l’ottenimento dei risultati e dei colori più vari.

Sempre per la medesima ragione riguardante la dimensione delle particelle che costituiscono l’immagine e del loro stato fisico di aggregazione, i viraggi possono fornire risultati sensibilmente diversi a seconda delle carte su cui vengono applicati: le carte al bromuro d’argento hanno una struttura d’immagine sensibilmente diversa da una carta al cloruro d’argento, che ha una struttura molto più fine e fornisce risultati di colore più caldo. Il medesimo viraggio darà luogo, dunque, a risultati diversi a seconda che venga utilizzato su una carta al bromuro oppure al cloruro.

Vi sono numerosi altri fattori che possono avere la loro influenza: lo sviluppo, la sua durata, la temperatura ecc. In ultima analisi tutto ciò che può incidere, durante la formazione dell’immagine, sulla sua struttura microscopica, può riflettersi in seguito nell’eventuale viraggio.

Un particolare riferimento va fatto riguardo il viraggio all’oro, uno dei più uilizzati (anche nelle immagini presentate).

Questo viraggio fu introdotto già fin dal 1840 ad opera del fisico Hyppolite Fizeau, fu poi impiegato costantemente durante tutto l’800 sulle carte ad annerimento diretto.

Con esso una parte dell’argento dell’immagine viene sostituito da oro metallico; questo ha un profondo effetto sull’immagine: il colore cambia fino al violetto e la stabilità nel tempo risulta considerevolmente aumentata.

Questo viraggio al giorno d’oggi è molto poco usato. Il suo impiego sulle moderne carte in bianco e nero a sviluppo produce in genere un leggero ma sensibile cambiamento della tonalità verso il blu-violetto ed aumenta la stabilità dell’immagine.

Utilizzato, invece, su stampe già precedentemente virate in toni bruni (ad esempio in seppia) produce tonalità di un rosso piuttosto acceso e, per alcune immagini, molto d’effetto.

Lorenzo Scaramella


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