In questo intervento punterò la mia attenzione su quegli aspetti della genitorialità che rimandano ad elementi arcaici non traducibili sempre e solo nella dinamica relazionale. Mi riferirò pertanto alla dimensione archetipica che si attiva sia nel genitore sia nel figlio a dispetto, a volte, di tutte le cure e|o i rifiuti che vengono vissuti nella relazione e a dispetto anche di tutte le buone intenzioni che vengono messe in campo.
La scelta di generare un figlio veicola, infatti, significati molteplici e attiva energie istintuali e affetti che portano nel campo contenuti arcaici rispondenti al nucleo complessuale di ciascun partecipante. L’entrata in scena di un nuovo personaggio reale determina inoltre dei cambiamenti considerevoli nella dinamica di coppia non tanto e non solo perché modifica l’assetto strutturale e richiede nuove programmazioni, ma soprattutto perché modifica il rapporto che ciascuno dei partecipanti vive nei confronti del bambino interno da cui è abitato e nei confronti del bambino da cui l’altro è abitato. Tutto quell’insieme di aspettative e desideri custoditi come dei tesori nel proprio mondo interno e condivisi emotivamente con l’altro e tutta la progettualità affidata alla parte adulta del coniuge necessitano ora di una sorta di trasloco in un luogo altro, in un Novum che, in qualità di terzium, non è detto che si faccia contenitore delle proiezioni altrui.
L’aspetto che vorrei sottolineare per la sua rilevanza nella comprensione della complessità della situazione e nella decifrazione dei disagi che possono attivarsi è il senso di tradimento che ciascuno dei coniugi può sperimentare nei confronti di quella promessa di assistersi per tutta la vita. Al di là, infatti, della responsabilità civile che un vincolo può sancire, il patto profondo si aggancia a bisogni primitivi e risponde alle esigenze determinate dal proprio nucleo complessuale. Il coniuge rappresenta infatti l’alleato nel progetto di vita ma personifica anche, ad un livello più profondo, il protettore delle proprie fragilità, il contenitore delle proprie paure e l’occasione di riscatto per la propria infelicità. Il partner assume cioè, sia pur inconsapevolmente, il ruolo di protettore del proprio bambino interno e compensa, con un ruolo anche sociale, le zone rimaste in ombra nel proprio percorso individuativo.
Dice Jung: “La mancanza di consapevolezza produce indifferenziazione, identità inconscia. La conseguenza pratica è che l’uno presume che l’altro abbia una struttura identica alla sua. La sessualità normale, in quanto esperienza condivisa e apparentemente analoga per entrambi, rafforza il senso di unità e identità. Una condizione questa, definita di assoluta armonia e magnificata come una grande fortuna (“Un cuore e un’anima”); e a ragione, perché il ritorno a quella condizione originaria di inconsapevolezza e di identità inconscia è come un ritorno all’infanzia (da qui i gesti puerili degli innamorati), anzi di più, è come un ritorno nel grembo materno, nelle acque misteriose di una pienezza creatrice ancora inconscia”.
Nella coppia quindi, ad un livello più o meno consapevole, ciascuno mette in campo la propria parte adulta per rispondere ai compiti adattivi richiesti in un determinato contesto sociale e, con il patto implicito di mutuo soccorso, copre le inadempienze dell’altro proteggendolo dal dolore che potrebbe provare al cospetto della propria inadeguatezza.
La presenza del bambino reale, a dispetto di tutta la condivisione emotiva che può essere sperimentata nella fase progettuale che idealmente ricalca lo stile affettivo fino ad allora sperimentato, richiede una revisione del patto implicito e un nuovo confronto con i bisogni e i desideri disattesi nel proprio percorso individuale. La coppia genitoriale, idealmente condivisa, si confronta ora con un altro bambino che spiazza, con le sue richieste totalizzanti, quelle dei bambini interni fino a quel momento amorevolmente corrisposte.
Questa premessa ci aiuta a comprendere la complessità degli accadimenti interni nell’assunzione del proprio ruolo genitoriale che attiva nel campo la polarità archetipica adulto-bambino, genitore-figlio e rimanda quindi necessariamente alle proprie origini e al senso dell’origine tout-court.
Ciò che a volte appare incommensurabile, infatti, nella narrazione che i genitori fanno del proprio figlio è la risposta di quest’ultimo rispetto a tutta l’attenzione cosciente che loro mettono in campo ed effettivamente spesso il terapeuta dell’età evolutiva si confronta con genitori reali che non corrispondono all’immagine che egli stesso si è costruito attraverso la relazione con il bambino.
Spesso nei vissuti controtransferali ci confrontiamo con il vissuto e con le immagini di madri e padri terrifici che influenzano i comportamenti difensivi del bambino e che sono anche responsabili delle sue manifestazioni patologiche.
Ma i genitori reali sono davvero così terribili? Cosa si attiva nella dinamica genitore-figlio? Cosa contribuisce a creare l’imago genitoriale a dispetto di una madre che potrebbe essere definita sufficientemente buona? Perché l’archetipo della madre terribile si impossessa della relazione e vanifica gli sforzi reali che la madre mette in atto? Perché al posto del bambino celestiale tanto desiderato il genitore si confronta con la personificazione di un demonio che costituisce un attacco vivente alla propria dimensione di accudimento genitoriale? Cosa accade quando l’archetipo si scinde nelle due polarità senza lasciare spazio ad alcuna forma di integrazione?
Quando mi telefona la prima volta Lorena, 47 anni, mi dice che ha dei problemi con la figlia di 10 anni. Crede proprio che si debba fare qualcosa perché, (le sembra), ora sta proprio male. Sa che io aiuto i bambini ma le hanno detto che aiuto anche i genitori a capire i loro bambini. Mi colpisce la formulazione della frase e nel suo tono sento l’urgenza di una richiesta.
Le propongo di incontrare lei “perché”, esplicito, “lei può aiutarmi a comprendere di quale bambina dobbiamo preoccuparci”.
Appena entra commenta: “ha avuto molto intuito a far venire me anziché mia figlia”.
L’omaggio che mi porta è il ringraziamento per essermi presa cura di lei? Mette le mani avanti per paura? Qualcosa, in quella frase generica, detta al telefono anche se per ora incomprensibile, ha forse fatto segno dentro di lei? E’ molto emozionata. Sta vivendo un momento molto faticoso perché si sta separando da un uomo che le ha reso sempre tutto difficile, si sente offesa e su di lei grava tutto il peso della separazione. Emergono immediatamente ricordi della infanzia, di figlia di genitori separati, di bambina sofferente e piange lacrime inarrestabili che la meravigliano perché “non succede mai”.
Commento che ora per prima cosa possiamo accogliere queste emozioni e darci tempo per capire. Per alcuni incontri mi porta le lacrime che non ha mai versato e di cui si vergogna sempre meno perché alla sua immagine di donna stressata, incapace di controllo, contrappongo quella di una bambina che non ha potuto mai disperarsi con gli adulti che dovevano prendersi cura di lei. Le hanno voluto bene ma lei non ha potuto mai dire alla madre che con il padre si divertiva né che con lui c’era un’altra donna anzi tante né il padre intuiva le sue difficoltà.
La madre è una donna autoritaria che le ha sempre chiesto e da cui si è sentita giudicata.
Nel matrimonio lei ha gestito la relazione sopportando soprusi e comportamenti “anomali” (così li definisce) pur di continuare ad avere il controllo. Il marito d’altra parte non è stato all’altezza della situazione e le ha completamente delegato anche l’educazione dell’unica figlia. Nessuno dei due è riuscito a parlare esplicitamente della separazione con la figlia e la figlia sogna che la madre la divora.
Lorena ha terrore di questa immagine, non può accettare di essere cattiva con la figlia.
In un sogno, successivo a quello della figlia è sua madre che cade e si fa male e lei l’accompagna in Ospedale ma poco dopo il medico accompagna la madre all’uscita salutandola in modo galante e lei pensa che la madre rimorchia sempre. Si può appena parlare di una madre che la fa preoccupare ma sembra tenere per sé dei tesori.
Emergono ricordi sulla sua unica sorella, più grande e più brillante di lei ma poi tutto ritorna alla figlia reale, al suo ruolo di madre finché un giorno con una pacata rassegnazione afferma “non ho più argomenti con mia figlia” e si rende conto di averne paura. Nel mio tentativo di deletteralizzare i contenuti che mi porta riusciamo a parlare della sua interiorità, di un femminile che non ha mai potuto incontrare (per motivi esterni ed interni) un adeguato maschile.
Sua figlia non ha un padre e lei non ha mai avuto un marito. Riesce a dedicarsi un po’ di tempo e di attenzione e poi, per la prima volta può parlarmi della rabbia che prova per la figlia che le fa passare i guai peggiori, che la costringe ad una tolleranza che ora sente esagerata. Sono passati otto mesi dal nostro primo incontro e nei miei commenti ho sempre tentato di separare la figlia reale dalla bambina che lei difende. Ma è molto difficile.
Sua figlia è sempre altrove e lei deve rincorrerla ma non può rinunciare alla propria bambina abbandonata che solo attraverso la figlia può ricevere le dovute attenzioni. Il patto implicito con il marito è infatti miseramente crollato e lei si trova al cospetto di una Imago materna terrifica che si attiva costantemente nel campo archetipico con la figlia e da cui lei è, nell’accezione di Conforti, trascinata. Come madre i suoi sentimenti oscillano tra il sentirsi un condor (così l’ha sognata la figlia) o un essere totalmente inadeguato, inerme.
La sua bambina ferita, che ha avuto paura senza poterlo dire, che ha tremato di fronte ad una madre che le chiedeva di essere grande, educata e coraggiosa la mette in rapporto con l’immagine del condor. Ha paura cioè, in qualità di madre, di essere insensibile alle sofferenze della figlia e non riesce ad imporle dei limiti per la preoccupazione di identificarsi in un condor rapace.
Ma la figlia reale, che solo nel sogno si sente divorata dalla madre, continua a disperdersi senza tregua in comportamenti bizzarri perché non trova mai il limite di una madre “sufficientemente buona”.
La paura di un prelievo diventa ansia panico e non bastano rassicurazioni di ore, spiegazioni o promesse. L’ansia-protezione della madre rende impossibile alla figlia reale di affrontare la pur minima frustrazione e lei Lorena, così preoccupata per una bambina che è in rapporto con un condor, non riesce a presentare mai un No alla figlia reale per la preoccupazione di sentirsi tremendamente cattiva e poi essere divorata dalla colpa. Le difficoltà che quotidianamente devono affrontare si traducono quindi in una costante delusione di una madre reale nei confronti di una figlia reale e viceversa.
Per qualche seduta Lorena parla della rabbia nei confronti della figlia e mi dice: “quando sono uscita da qui mi veniva da vomitare”.
Nella seduta successiva un sogno “si trova in una campagna brulla e selvatica con la figlia e sua madre e ad un tratto si accorge che la figlia ha i piedi nell’acqua ed è molto piccola. La prende in braccio e si accorge che ha solo una camicia. Cerca un asciugamano e guardandosi intorno trova solo pezzi di bambola, elettrodomestici e impianti per musica. Chiama la madre che non risponde. Ha paura di rompere tutto e presa dal panico chiama ancora la madre che non risponde e si sveglia urlando mamma”.
Il sogno sembra dar forma a due dimensioni psichiche dentro di lei (le immagini del sogno come parti sue). La figlia come figlia reale ma, per quel che ci interessa in questa sede, come parte infantile, come bambina interna, che può essere in rapporto con l’acqua di una natura selvatica, con una base istintiva naturale e dall’altra la madre interna, la dimensione materna, una madre in questo caso connotata come “meccanica” (pezzi di bambole, elettrodomestici, impianti di musica) che le impedisce di entrare in contatto, di avvicinarsi alla propria bambina interna.
Nel sogno emerge la sua disperazione di figlia verso una madre che non risponde, una madre connotata non solo dall’assenza di Eros ma anche dall’assenza di fronte alla disperazione per un aiuto che non arriva. Quella stessa disperazione che ha impedito fino ad oggi di presentare a sua figlia anche la madre cattiva.
Le immagini del sogno sembrano aver offerto a Lorena l’occasione di cominciare a guardare la propria immagine di madre cattiva. Lei può così assumere dentro di sé la dimensione della cattiveria senza la necessità compulsiva di doverla sempre esorcizzare nella relazione con la figlia reale. Le polarità dell’archetipo sembrano cioè trovare per la prima volta un’integrazione e le Imago possono lasciare il posto ad una umanizzazione della dimensione materna.
Nei mesi successivi Lorena si impegna, con non poche fatiche, in un’adozione che si prefigge come principale obiettivo di madre l’educazione dei comportamenti della figlia reale. Succedono nuove cose, la figlia diventa un po’ più autonoma e a volte le sembra quasi impossibile che l’ascolti e torna a tratti la paura di essere troppo cattiva. Ma la madre si sta risvegliando e, come dice Hillman: “si accorge che le buone immagini producono cattivi effetti”.
Le cose vanno e lei può concedersi un abbandono, può sentirsi stanca e svuotata. E’ quella sensazione descritta da Hillman come sunyata, vuoto o nulla metafisico in cui la madre si sente abbandonata “da tutte le fantasie normative, senza alcuna bontà ……”. In questa condizione svuotata la donna può nutrirsi di momenti in cui non è altro che quello che è. Le reazioni non meditate confermano il legame”.
Possiamo ora parlare dell’intimità psicologica, della possibilità che si è data di portare qui i suoi eroismi, i suoi conati di vomitò, le vergogne e le aspirazioni di madre. Le sofferenze della bambina abbandonata non sono però facili da lenire e questa volta è la figlia reale a venirci in aiuto.Un giorno, in un momento di rabbia per un limite postole dalla madre urla “non sei tu la mia mamma, mi hanno scambiato la mamma, tu sei cattiva”.
Ma Lorena riesce a reggere lo scontro, non ne esce distrutta e mi porta l’emozionalità e la fatica di questa elaborazione. Ora possiamo finalmente parlare più apertamente di bambine e madri scambiate, di madri e figlie reali e archetipiche rendendo, per la prima volta, commensurabili gli scambi affettivi esistenti.
La sua fantasia sulla bambina, la sua bambina abbandonata non ha lasciato posto alla bambina-figlia reale. L’integrazione di quegli elementi che lei aveva sempre rifiutato perché associati ad una madre cattiva la rendono ora più tollerante verso alcune manchevolezze della figlia. Può finalmente parlare delle proprie necessità, delle proprie disillusioni e può prendersi cura della propria bambina senza assillare la figlia di protezioni che, non essendo richieste, assumono le connotazioni di un incombente aleggiare da condor.
E’ lei che deve riconquistare il lecito di uno spazio protetto.
Questa nuova coscienza la mette in rapporto con lo scarso contatto che la madre ha avuto ed ha con i suoi desideri. Emergono ora ricordi più profondi che hanno ferito la sua sensibilità di bambina.
“Mi ricordo” dice Lorena con un tono che fluttua dalla vergogna alla rabbia “che quando facevo qualcosa che non andava bene mia madre si chiudeva nella sua stanza e metteva fuori dalla porta regali che le avevo fatto in precedenza. Ricordo in particolare una bottiglia di profumo che le avevo regalato a Natale e che era stata già consumata a metà. Mi ridava indietro una cosa già usata”.
Commento che è molto difficile e forse impossibile accettare un limite quando questo significa rottura di un legame. Non c’è più dentro né fuori. Quella porta chiusa non delimita spazi, è una contrapposizione a un comportamento.
Forse esprime l’incapacità della madre di incontrarla nel mondo ctonio, in un territorio più prosaico dove la perdita del controllo può destabilizzare la propria immagine materna. Ripercorrendo la storia in direzione delle origini commento che potremmo scoprire un avvicendarsi di modalità diverse per far fronte alla immagine della madre cattiva. Nei fatti comunque lei come figlia reale ha sentito il rifiuto di una madre reale e quella bambina ha dovuto rifugiarsi in una fantasia di madre che protegge. E poi quanti significati ci sono in quella bottiglietta di profumo, come dono squisitamente femminile che viene rifiutato dopo essere stato utilizzato a metà ?
Lorena può ora vivere il dolore delle proprie ferite profonde e recupera la fantasia della bambina abbandonata. “Mi immaginavo come figlia, una bambina solare, snella, un pesce che scivola insinuandosi tra le rocce” mi dice “e invece mi ritrovo una figlia pesante, lenta che si arresta di fronte alla minima difficoltà ; è lunare”. Le restituisco l’immagine del sole come qualcosa che forse appartiene alla sua bambina e commento che può essere molto confortevole vivere accanto al calore del sole mantenendo segretamente la luce per restituirla come fa la luna.
D’altra parte la luna attraverso il fascino di un ciclico ritorno può insegnarci molto sui misteri. L’interesse di una madre che può riconoscersi solare, a una figlia lunare apre prospettive reali nel rapporto di Lorena con la figlia.
La figlia le chiede di parlare di mestruazioni, argomento fino a ora rifiutato, esprimendo le sue preoccupazioni ma le regala un poesia riconoscendola verbalmente come mamma buona e svelandole il segreto delle poesie che da tempo scrive.
La storia di Lorena sembra ben sintetizzare il difficile percorso che una madre reale deve fare per liberarsi delle fantasie archetipiche sul materno, per recuperare la bambina abbandonata dentro di sé e incontrare, attraverso le fatiche dell’adozione, una figlia reale che ha bisogno di una madre che sia solo “sufficientemente buona”.
Ma a volte l’Imago genitoriale si costella in riferimento a limiti oggettivi e non soggettivi, come avviene, per esempio, nelle patologie severe del bambino, dove madri e padri reali non possono mettere in atto le normali cure perché il figlio non è in grado di attivare le risposte adeguate. Penso alla patologia determinata dal Disturbo Autistico che depaupera il bambino e quindi la relazione di qualsiasi possibilità comunicativa e porta nel campo immagini di Madri Terrifiche incapaci di condividere anche il minimo scambio con il bambino.
Mi sembra importante, a questo punto, sottolineare il fatto che la costellazione negativa del rapporto originario dipende, nel caso del bambino autistico, da un’esperienza negativa non commensurabile alle cure della madre reale. Siccome però” dice Neumann “nel primissimo stadio di crescita il bambino sperimenta non solo il mondo e il tu, ma anche il proprio corpo e il Sé, come se si trovassero dentro la madre, e li sperimenta nell’immagine di lei, tutti i suddetti tipi di esperienze negative si presentano come disturbi del rapporto originario con la madre….Una “buona” madre può diventare per suo figlio “terribile” in seguito alla preponderanza di fattori transpersonali incresciosi, fastidiosi come la malattia e il bisogno”. (E. Neumann La personalità nascente del bambino Red Como 1991)
L’immagine della madre negativa non sarebbe dunque, in questo caso, la proiezione dell’aggressività primaria del bambino ma la manifestazione di un’angoscia secondaria determinata da una seria minaccia alla vita. Al posto della Grande Madre che garantisce la protezione nella continuità dell’esistenza compensando e bilanciando tutte le esperienze spiacevoli, viene a costellarsi la Madre Terribile con i suoi attacchi alla vita e con la sua costante forza disgregatrice.
E’ inevitabile allora che l’adulto che si trova a interagire nel campo archetipico della Madre Terribile si identifichi con tale Imago genitoriale sia nelle sue componenti sadiche sia negli aspetti che portano a una rinuncia radicale di contrapposizione.
Analizzando insieme alle madri reali di questi bambini i penosi sentimenti attivati da una profonda impotenza e dal conseguente senso di inadeguatezza si evidenzia quanto il trascinamento inconsapevole nel campo archetipico attivato dal figlio determini sensi di colpa totalizzanti che condizionano tutte le cure possibili. Ed è spesso proprio da questo senso di fallimento, che mina alla base la preoccupazione materna primaria, che si articolano risposte confuse che finiscono per attivare ulteriormente le valenze del campo con una simmetria che costringe il rapporto in routines mai elaborabili in schemi d’azione. Bambini impegnati nello strenuo sforzo di annullare ogni stimolo sonoro proveniente dall’esterno alla ricerca di stimolazioni interne (le “forme” autistiche brillantemente descritte dalla Tustin) che rimandino solo al proprio corpo come strumento di gratificazione e di contatto con la vita, e, dall’altra parte dell’interazione, madri impegnate a rimuovere lo stimolo nocivo nel tentativo disperato di far arrivare almeno la propria voce al bambino ed ottenere così una risposta che testimoni il senso della propria presenza. Sequenze che si ripetono a volte fino allo sfinimento lasciando costanti dubbi sul proprio operato e sulle reali potenzialità del bambino. Perché si copre le orecchie di fronte a rumori anche insignificanti e non risponde anche quando lo chiamo ad alta voce? Forse gli parlavo troppo forte quando lo allattavo o è stata la musica che ho sentito durante la gravidanza? Domande senza risposta, se si procede attraverso un ragionamento di tipo lineare, che ossessivizzano il pensiero e allontanano sempre di più l’adulto dai “luoghi” dove il bambino si trova a vivere le sue protezioni alla ricerca di pause che possano almeno lenire l’affaticamento delle sue azioni.
Il senso di colpa che la visione psicoanalitica ha concorso ad amplificare nelle madri ha determinato, nell’immaginario collettivo e nel mondo riabilitativo, una reazione simmetrica tendente a deresponsabilizzare le modalità di accudimento e ad azzerare la ricerca di una visione ontologica della patologia autistica.
Quando si è trascinati in un campo la simmetria è inevitabile e il tentativo di ottenere una risposta per salvare la vita al bambino può diventare più violento e terrifico dei meccanismi che quest’ultimo mette in atto per difendersi dalla distruzione avvertita come immanente. Le tecniche coercitive che spesso vengono proposte come unico tentativo di civilizzazione del bambino non favoriscono l’umanizzazione degli opposti archetipici insiti nel Sé e non facilitano una conoscenza più ampia del problema.
Solo l’allineamento all’archetipo della Madre Terribile consente all’adulto una presa di coscienza delle forze e delle forme presenti nel campo in cui interagisce con il bambino autistico e promuove un tentativo di umanizzazione e di integrazione degli elementi presenti. Solo riconoscendo la presenza di una forza non analizzabile secondo le categorie che spiegano l’evoluzione di una relazione si può aprire un nuovo tipo di pensabilità che non riconduca tutto all’unica logica lineare che ci è dato sperimentare in sede scientifica. Il confronto con la limitatezza della propria responsabilità consente, infatti, un ridimensionamento di quel senso di onnipotenza che si è costretti ad agire quando l’impotenza costella i contenuti della coscienza e conferisce un senso di responsabilità nei confronti di un individuo le cui forme non corrispondono a quelle delle nostre teorie di riferimento.
La riflessione più significativa che mi sono trovata a fare in tanti anni di clinica con i bambini autistici riguarda l’assunzione di responsabilità dei lati poco dignitosi della vita (secondo la felice espressione di Lopez.Pedraza), quelli che vengono descritti unicamente come sintomo di patologia e\o regressione e che sono considerati, nel nostro immaginario, di pertinenza del bambino istintuale. Questi lati, che diventano troppo spesso solo oggetto di rieducazione, ci permettono, invece, il confronto con i lati oscuri dell’esistenza facilitando la comprensione di forme che possono così assurgere al rango di immagini rappresentabili. La rabbia sperimentabile dopo un morso diabolico, il disgusto che si può provare di fronte a un’evacuazione, la disperazione ascrivibile ai momenti prolungati di indifferenza, il dolore, la paura e il rifiuto attivati in noi da quel bambino demonico, nonostante le migliori intenzioni, rimangono spesso in un’area di incomunicabilità che depaupera il contesto degli unici sentimenti veramente autentici. Accettare di poter essere trascinati da un campo la cui energia è superiore alle nostre possibilità individuali consente un ridimensionamento sia del bambino sia delle nostre finalità educativo-terapeutiche e consente un’apertura agli unici scambi possibili in base alle potenzialità reali.