Luci e tenebre Antropologia ed escatologia in Plutarco

(da átopon Vol. VI)

Carlo Santaniello

L’eccezionale importanza di Plutarco nella storia dell’escatologia risultò chiara all’inizio di questo secolo dal commento di Eduard Norden al sesto libro dell’ Eneide. Rinvii alla concezione dell’aldilà ricorrono frequenti soprattutto nei Moralia, ma all’escatologia sono dedicati in particolare i mythoi esposti – secondo un modello platonico o platonico-aristotelico – in tre fra i dialoghi più noti e più complessi: quelli Sul demone di Socrate Sulla tarda vendetta degli dèiSul volto che appare nel disco della luna .

lucietenebreQui mi propongo di svolgere un breve confronto tra i miti dei primi due dialoghi.

Nel Demone di Socrate, in cui si intrecciano discussioni teologiche e la rievocazione della cacciata degli Spartani da Tebe – le une connesse all’altra dal comune tema della libertà – il mito è narrato da Simmia (lo stesso che da giovane compare nel Fedone platonico). Il protagonista del racconto, Timarco, desideroso di sapere quale sia la potenza del demone di Socrate, si cala nell’antro di Trofonio, ove ha un’esperienza di estasi: la visione, abbracciando insieme il mondo dei “vivi” e quello dei “morti”, rivela una struttura del cosmo bipartita dal punto di vista religioso ed escatologico: in basso, un abisso avvolto in un’oscurità, impenetrabile allo sguardo e densa di tempesta, da cui provengono grida e gemiti di uomini, donne, bambini, animali; in alto, luci in rapido e vario movimento. Come risulta dalle spiegazioni fornite a Timarco da una voce misteriosa, le anime tentano di risalire dal profondo dell’abisso (che rappresenta quindi il nostro mondo) sino al ciglio della voragine (la luna). Qui – come si legge con maggior ricchezza di dettagli nello scritto Sul volto … della luna – solo poche riescono a stabilirsi saldamente e, meno ancora, ad ottenere la completa purificazione dalle colpe che risparmi loro una nuova incarnazione: è difficilissimo uscire dal “ciclo della nascita” (kyklos geneseos). Le anime nel momento decisivo del loro tormentato itinerario sono rappresentate da punti luminosi che suggestivamente emergono dalle tenebre.

Dunque, il mondo che conosciamo è identificato col luogo della punizione, l’Ade, e i castighi dell’oltretomba divengono, alla lettera, rappresentazione delle pene dell’al di qua.

a al lettore del Demone di Socrate si presenta anche una conflazione di escatologia ed etica: alla descrizione delle anime, che con vario esito si affaticano nell’ascesa dall’esistere mondano verso la salvezza, si sovrappone la tassonomia della vita morale. Tutte le anime sono partecipi del noûs , la mente; ma alcune sono travolte dalle passioni (pathe) e, quindi, secondo un’efficace immagine, completamente sprofondate nel corpo; di altre, meno condizionate dalle passioni, emerge dal corpo solo la parte più pura; di altre ancora – le anime “degli uomini di cui si dice che hanno senno” – Timarco scorge le menti: sono le luci che si spingono verso l’alto.

Si tratta di una rappresentazione puntuale della realtà antropologica ed escatologica: quella che i “molti” chiamano mente è un demone esterno all’uomo.

La tripartizione morale delineata trova – come è stato segnalato dagli studiosi, in particolare da Daniel Babut, un benemerito della ricerca plutarchea – un’evidente corrispondenza nel dramma storico che si svolge contemporaneamente alle discussioni filosofico-teologiche narrate nell’opuscolo: alla categoria di coloro che hanno completamente smarrito la ragione nella tempesta delle passioni appartengono gli ufficiali spartani, destinati alla sconfitta politica come all’ignominia morale; i patrioti tebani sono esponenti della seconda categoria, a cui le passioni non lasciano se non discontinuamente la possibilità di vivere secondo ragione; della terza categoria fanno parte gli uomini eccezionali, i quali godono di uno speciale rapporto col proprio demone come Socrate, o, almeno, sanno sempre elevarsi al di sopra delle passioni, come Epaminonda.

uesta visione, narrata da Simmia, è integrata dall’esposizione dell’ospite della famiglia di Epaminonda, il pitagorico Teanore (l’“uomo divino”), proveniente dalla Magna Grecia, il quale spiega come i daimones corrispondenti alle anime definitivamente liberate dal ciclo delle incarnazioni prestino aiuto alle anime impegnate nella difficile ascesa verso la purificazione. Non piccola parte della tradizione greca è raccolta e connessa insieme: dai demoni di Esiodo, custodi degli uomini, alla terra, luogo delle incarnazioni, e perciò della punizione, già nel pitagorismo, in Empedocle (a lungo studiato e spesso citato da Plutarco), e in altri; al demone di Socrate, espressione di un rapporto diretto di pochi uomini privilegiati con la divinità, rapporto che prescinde dagli incerti segni offerti agli altri esseri umani dalla divinazione. E ancora il demone, oltre a valere in parte del mito come misteriosa e potente espressione dell’immortalità, è più spesso identificato con il noûs , la “mente” (si confronti il mito del Volto … della luna ), che ricorre in Platone ed Aristotele.

D’altra parte – lo si è visto – la mente non è “interna” all’uomo, ma esterna: un riferimento, come è stato notato da tempo, alla dottrina del peripatetico Cratippo (testimoniata da Cicerone, Sulla divinazione, I, 32, 70); questa potrebbe essere interpretata come un’enfatizzazione in senso mistico della tesi aristotelica (Sulla generazione degli animali , II, 3, 736 b 28), secondo la quale solo il noûs viene dall’esterno, essendo costituito da una sostanza più nobile di quella da cui è fatto il resto dell’uomo. Anche i punti luminosi che emergono dalle tenebre possono suggerire un richiamo all’“anima-luce” immaginata da Eraclide Pontico, pitagorico, poi platonico, poi, se non aristotelico, almeno uditore di Aristotele, al quale altrove ( Sul precetto del “vivi nascosto” , 1130B) Plutarco attinge.

Insomma, si direbbe, un coacervo di dottrine: ma tutte dovevano apparire all’Autore armoniosamente connesse tra loro nella temperie neopitagorica caratteristica del suo tempo.

L’escatologia del Demone di Socrate è costruita intorno al problema della comunicazione tra uomo e Dio; e i limiti della conoscenza umana sono fissati anche nel mythos del dialogo Sulla tarda vendetta degli dèi , con la condanna dell’errore di Orfeo, che sostenne l’esistenza di un oracolo comune ad Apollo ed alla Notte, i quali nulla hanno a che spartire; e con la sanzione dell’impossibilità per l’uomo – legato alla materia come il noûs è legato al resto dell’anima immerso nel corpo – di contemplare la luce proveniente dal tripode delfico.

a visione narrata nel secondo opuscolo (ove sono frequenti, come nell’altro, i riferimenti al pitagorismo ed ai misteri) trae origine da un interrogativo religioso che investe insieme l’ambito mondano e quello oltremondano: la questione della giustizia divina.

Perché la giustizia divina non trionfa o non trionfa immediatamente in questo mondo? È per questo che nel mito escatologico – narrato questa volta direttamente da Plutarco – l’aldilà è considerato innanzitutto come il luogo del ristabilimento della verità, che è fondamento della giustizia, attraverso il rituale (desunto dalle religioni misteriche) della confessione. Tale rituale trova del resto un impressionante parallelo nell’interrogatorio sotto tortura imposto alle anime dei malvagi da Radamanto nell’ Eneide , VI, 566 ss. (in generale, cf. già il Gorgia platonico): nel dialogo plutarcheo i malvagi sono costretti a confessare dinanzi ai congiunti ed agli antenati quelle colpe infamanti che hanno saputo dissimulare in vita.

l confronto tra i due mythoi plutarchei è interessante dal punto di vista strutturale. All’ordine bipartito caratteristico del mito del Demone , che distingue solo tra l’Ade-Terra e il mondo luminoso delle anime alla ricerca della purificazione, si contrappone quello tripartito del racconto della Tarda Vendetta . Qui sono presenti un oltretomba (aereo, come del resto nel Demone di Socrate e nel Volto…della luna ), riservato alle anime definitivamente liberate; un luogo dei penitenti (anch’esso sospeso in cielo, ma più in basso), i quali sono perseguiti da Dike, la giustizia divina, che solo nell’aldilà compie appieno il suo corso (lascio da parte le anime definitivamente condannate alla sede “innominata ed invisibile”); e la terra, il luogo delle successive reincarnazioni, anche in forme animali (si ricordi il cenno in questo senso nel Demone di Socrate). Nel secondo scritto, insomma, si distingue tra il mondo dei vivi e il luogo dei penitenti; di conseguenza, se la teologia e la filosofia presupposte nei due miti sono sostanzialmente analoghe, differente è la figura retorica per mezzo della quale Plutarco rappresenta in ciascuno dei due racconti l’aldilà : nel Demone , la metafora – conformemente alla tradizione pitagorica, le pene dell’oltretomba non sono che l’allegoria delle sofferenze patite dall’uomo sulla terra – ; nella Tarda Vendetta , l’inversione – assistiamo ad un capovolgimento, violento, tragico, paradossale, del falso ordine che ipocritamente regola il mondo dei vivi: la sopraffazione e l’inganno palesano la loro essenziale debolezza; la vita dopo la morte ed il sogno si dimostrano reali anziché illusori; mentre vano risulta tutto quel che conta nel nostro mondo. Inoltre, nelle due categorie di anime che, stando a quest’ultimo mito, aspirano alla reincarnazione (le une spinte dal desiderio della vita attiva, le altre, ben peggiori, da quello di fruire dei piaceri del corpo) si possono riconoscere i tipi, presenti nel Demone di Socrate , dei patrioti tebani, la cui ragione è più d’una volta oscurata dalla passione, e degli ufficiali spartani, perduti dall’esclusiva dedizione alla vita voluttuosa: un simile confronto offre forse un indizio della seriorità della Tarda Vendetta rispetto al Demone .

Nel secondo opuscolo, la diversificazione tra Terra e Ade consente di spiegare ed articolare meglio il complesso e vario destino dei defunti. E l’importanza assegnata nella rappresentazione dell’aldilà al destino individuale (si pensi a Nerone, al quale è risparmiata la dannazione perenne per i benefici elargiti all’Ellade, malgrado i gravi delitti commessi) corrisponde alle esigenze avvertite da Plutarco, il quale doveva ormai aver intrapreso la redazione delle Vite (1).

Carlo Santaniello

Nota 1. Ho discusso più ampiamente alcuni dei temi svolti qui in “Nascita, conoscenza, morte: metafora e capovolgimento della vita terrena nelle descrizioni plutarchee dell’aldilà ”, contributo al IV Congresso internazionale della International Plutarch Society su Rhetorical Theory and Praxis in Plutarch (Lovanio, 3-6 luglio 1996) i cui atti sono stati pubblicati a c. di L. Van der Stock, presso le é ditions Peeters, Lovanio/Namur 2000.


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