L’iridescenza dell’Anima

Ezio Albrile

C’è una singolare sincronicità tra le suggestive opere dei Subsonica e il pensiero gnostico, in parte dovuta alla presenza quale «complice di parole» di Luca Ragagnin, un poeta e scrittore intimamente legato e ispirato alle immagini del misticismo antico.

L’esplorazione nei territori incogniti del dualismo inaugurata con Terrestre , continua nel videoclip de «L’odore» (regia di Kal Karman). Nel video ogni componente del gruppo possiede una suadente e agressiva controparte femminile: un tema caro a Carl Gustav Jung e agli Gnostici antichi, i quali parlano spesso di come l’anima si unisce, nella misterica «camera nuziale», con il suo angelo. È la concezione spiritualizzata dell’angelo, inteso quale specchio segreto dell’anima, sulla quale discorre abbondantemente il Vangelo di Tomaso .

Nei testi più arcaici della religione zoroastriana sono presenti concezioni legate alla natura dell’anima, la Daênâ , simili a quelli che si riscontrano nei testi gnostici. L’anima nel mazdeismo zoroastriano, esprime tanto la facoltà immaginativa dell’uomo quanto l’oggetto in cui essa di volta in volta si manifesta. Tale facoltà è considerata creativa e realizzatrice ed essenzialmente femminile; facoltà umana, la Daênâ è anche una facoltà divina e come tale è personificata come paredra di Ahura Mazda nell’iscrizione di Arabisso. Questa coppia Ahura Mazda-Daênâ è l’unione di un principio attivo, maschile, che crea per mezzo del suo manah- , il pensiero, e di un principio femminile (la Daênâ ) che rappresenta la facoltà immaginativa e plastica, vale a dire l’immagine in cui il pensiero si realizza e prende forma. Questi concetti sono uguali in sostanza ai processi d’illuminazione descritti nello gnostico Apokryphon Johannis e in documenti analoghi.

mazdaSono le linee fondanti l’escatologia iranica, dove alla morte, passati tre giorni, vicino al corpo del defunto compare nelle vesti di una bella e profumata fanciulla la Daênâ ; l’anima, appaiata così in forma di syzygia, aiuta il pio mazdeo a varcare il ponte Cinvat, e ad attraversare le tre sfere celesti, quella del Sole, della Luna e delle Stelle fisse, per raggiungere infine la dimora dei beati.

Nella religione mazdea quest’anima individuale è parte di una grande economia divina, così come nella gnosi valentiniana tutte le forme psichiche separate dal Demiurgo sono parte integrante della Sophia caduta. Nel mazdeismo zoroastriano una grande Daênâ riunisce in sé tutte le daênâ individuali, costituendo così un’unica e possente Daênâ risultato di tutte le anime individuali rivolte al medesimo fine: un’unica e fortissima catena di pensieri, parole ed azioni, un ente collettivo animico: la «Chiesa», come comunità di fedeli. Quotidianamente il pio zoroastriano cingendosi con il cordone sacro, il kustîg , entra in sintonia con questa grande catena animica. Il cordone divide infatti il corpo umano in due parti, una natura attiva e una passiva, un pensiero maschile ed un’anima femminile. L’antitesi gnostica fra l’Intelletto, il Noûs , e la sua controparte femminile, il Pensiero- Ennoia , come direbbe Simon Mago. Analogo simbolismo ricorre nel manicheismo per definire la « Chiesa » come comunità di fedeli.

Tutto ciò evoca un singolare racconto di J.L. Borges, dal titolo Tlön Uqbar, Orbis Tertius , che mette curiosamente in relazione gli specchi con lo sperma umano: entrambi sarebbero veicoli della propagazione delle immagini e quindi della duplicazione dei corpi. La valenza che ha tale simbolismo è dunque estremamente negativa. In uno dei miti centrali dello gnosticismo, che convenzionalmente passa sotto il nome di «Seduzione degli Archonti», si ha qualcosa di simile. Prendiamo in considerazione una delle più importanti versioni di questo mito, codificata nella dottrina manichea: il Tertius Legatus , il Narisahyazd delle fonti manichee in medio-iranico, issato nel suo «naviglio» celeste, la Luna, per liberare le ultime particelle luminose ancora racchiuse nei mostruosi corpi degli Archonti escogita uno stratagemma: egli appare nudo nel Sole nelle sembianze di una creatura androgina, ora sotto forma di femmina (la virgo lucis, kanig roshn in medio-persiano) agli Archonti maschi, ed ora sotto forma di maschio (l’Adamo luminoso) agli Archonti femmine. Gli Archonti, vinti dalla brama e dal desiderio, lasciano cadere in terra il loro sperma, e con esso la Luce che avevano inghiottita. Una parte della semenza luminosa viene recuperata dallo Spiritus Vivens , il «dio Mithra» (Mihryazd) dei testi medio-iranici, e dal Tertius Legatus Narisahyazd, una parte cade in mare e genera un drago marino, mentre una terza parte dà origine al mondo vegetale ed ingravida gli Archonti femmine. Queste ultime, colte dalla nausea per la rotazione della sfera zodiacale alla quale sono legate, partoriscono degli Aborti che si danno a loro volta, in preda alla concupiscenza (personificata poi da Âz, il demone operatore della contro-creazione ahrimanica), alla riproduzione della loro specie demoniaca.

Elemento centrale di questo mito è il desiderio delle potenze demoniache verso il mondo divino: esse desiderano la Luce, restano avvinte dalla sua bellezza, ed in qualche modo tentano di «afferrarla». La stessa situazione si propone nelle dottrine di Basilide gnostico, che gli Acta Archelai presentano quale antesignano della gnosi manichea. In questo scritto antiereticale si descrive il dualismo di Basilide come di tipo assoluto e radicale: ab initio si contrappongono infatti due sostanze, la Luce e le Tenebre. In un modo non precisato le Tenebre giungono a «conoscere» la Luce, il cui splendore e la cui bellezza suscitano in esse la concupiscenza ed il conseguente desiderio di «unirsi con lei». La Luce osserva le Tenebre «come attraverso uno specchio», mostrando ad esse la sua splendida immagine, «cioè un certo colore della Luce». Questo simbolismo, oltre a evocare la classica speculazione platonica tra modello e copia, tra idea e forma – così come reperibile nel Timeo –, esprime una concezione teologica in cui l’immagine mediata attraverso uno specchio giunge alle Tenebre, suscitando il loro desiderio e provocando il disgregarsi della sostanza luminosa dalla quale trae inevitabilmente origine il cosmo. E, cosa importante, in questo mito lo specchio ha la stessa funzione che lo sperma degli Archonti ha nel mito manicheo; entrambi infatti sono ricettacoli della Luce e costituiscono il preludio alla creazione del cosmo. Lo specchio, secondo Basilide, duplica le immagini del mondo intellegibile, eidetico, perfetto, affinché di esso non rimanga che «solo un’apparenza di bene», allo stesso modo che lo sperma nel mito manicheo duplica i corpi degli Archonti e feconda il mondo della natura, imprigionando fatalmente la sostanza luminosa nella Materia. Entrambi gli elementi sono dunque i veicoli prediletti dalle forze delle Tenebre, tramite i quali esse incatenano la Luce e le anime spirituali al vincolo del fato e della heimarmene .

Il mito narrato in testi gnostici quali l’ Apokriphon Johannis , la Pistis Sophia o lo Scriptum sine Titulo , ha lo stesso significato: nelle acque inferiori, che fungono da «specchio oscuro», appare l’immagine dello archanthrôpos , che suscita nelle potenze demoniache un desiderio emulativo; esse, nel tentativo di duplicare l’immagine celeste intravista nelle acque, creano un involucro corporeo (cioè Adamo), al quale però non riescono a trasmettere il soffio vitale (la stessa situazione mitica si riproporrà, secoli più tardi, nel mito di Satanaele narrato nella Interrogatio Iohannis catara).

Secondo un mito narrato nel Ginzâ , il testo sacro degli gnostici Mandei tuttora stanziati nella Bassa Mesopotamia, il «grande segreto della Tenebra», ossia ciò che ne assicura la «saldezza» e che ha «formato» i demoni, è rappresentato da uno specchio. Questo specchio, in mandaico naura , è posto in fondo ad un’immensa sorgente. Esso è il «mistero nascosto» entro il quale Qin , la «Signora della Tenebra» e «madre dei demoni», riflette la propria immagine, un po’ come avviene nella fiaba di Biancaneve dei fratelli Grimm, dove la strega cattiva, specchiandosi, chiede: «Chi è la più bella del reame?». Il tema è molto arcaico: nel mito orfico Dioniso viene attirato in una trappola mortale dai Titani per mezzo di uno specchio. La curiosità di Dioniso per quest’oggetto permette difatti ai Titani di catturare, uccidere e smembrare il giovane dio (anche per Basilide la Luce si «frantuma» nel riflesso delle Tenebre). La metafora è chiara: lo specchio è ciò che provoca la «caduta dell’anima»; non a caso nell’antichità cristiana Dioniso è sovente identificato con l’ anima mundi , la neoplatonica pegaia psyche (l’«anima sorgiva» analoga alla asn xrat , la «sapienza sorgiva» della religione zoroastriana). Una situazione affine la troviamo nel Corpus Hermeticum , dove in Noûs , Padre del tutto, principio vitale e luminoso, crea un uomo, un Anthrôpos , che in realtà è la sua stessa immagine ( eikon ).Questo Anthrôpos, lacerando gli involucri delle sfere celesti si riflette, come in uno specchio, nelle acque inferiori, e disvela l’immagine del Dio supremo alla Physis , la Natura.

Questo tema, che ha precedenti illustri nel mito di Narciso, è passato nel mondo gnostico in epoca remota. All’inizio, come nel caso del Corpus Hermeticum , esso non ha la connotazione tipicamente anti-cosmica e negativa che avrà nello gnosticismo: il mito di Noûs Anthrôpos Physis è infatti espressione di una «orizzontalità di manifestazione» in cui il collasso ontologico tra mondo superiore e mondo inferiore, tra Luce e Tenebra, viene visto come necessario all’armonia del kosmos .

L‘elaborazione successiva di questo mitologhema porta ad un’evidente negativizzazione di determinati simboli o immagini. È un tema che stranamente troviamo anche nelle vicende di Alice narrate da L. Carroll: nonostante nella critica estetica e letteraria si sia dato un valore positivo al viaggio della bimba nel «Paese delle Meraviglie» attraverso uno specchio, lo sfondo iniziatico che fa da cornice alle vicende narrate nel libro di Carroll rappresenta una svalutazione del reale sotto forma di proiezione e di distruzione dell’immagine onirica.

Quell’immagine, secondo la tradizione manichea, è legata alla propagazione della «Religione della Luce»: le fonti neopersiane sono concordi nel definire Mani come il più sublime dei pittori, autore di una grande opera illustrata, il cosiddetto Ârdahang, l’ Eikon , l’«Immagine». Errando nelle estreme regioni orientali, Mani giunse ad una montagna, nella quale si apriva una accogliente caverna. L’antro, irrorato dalle fresche acque di una sorgente, servì da dimora per il profeta; dopo aver immagazzinato viveri per un anno egli si rivolse ai discepoli dicendo: «Ora salirò al cielo e mi tratterrò per un anno nelle sfere celesti. Trascorso l’anno, tornerò dal cielo sulla terra e vi porterò la testimonianza di Dio». Detto questo scomparve nella caverna e per un anno non fece che dipingere. Dipinse meravigliose immagini su di una tavola. Dopo un anno riapparve ai suoi seguaci tenendo in mano la tavola istoriata con splendide, coloratissime pitture: era la nascita della miniatura persiana. Mai s’era vista un’arte simile a quella, e mentre i discepoli erano in estasi davanti alla tavola, Mani spiegò: «L’ho portata con me dal cielo poiché valga con la sua testimonianza a confermarmi profeta». L’Apostolo della Luce scendendo dal cielo porta con sè la la rivelazione scritta, il Libro recatogli da Dio. Ma siffatto Libro — caso assolutamente unico nella storia del pensiero religioso — era un Libro colmo di disegni e di immagini colorate. La cosa è in perfetta sintonia con il credo manicheo, secondo cui i colori, ornamento di piante, fiori e frutti, sono il segno della Luce ivi imprigionata. Ne «L’odore» dei Subsonica affiora una metafora analoga: l’atomizzarsi dell’anima, del suo «riflesso», nell’iridescenza, si sovrappone alla vicenda della Luce dispersa nel mondo. L’Anima lucente e vivente è frantumata nella hyle , solo il tempo e l’universo cromatico, suo riflesso visibile, consentiranno per uno strano paradosso, il ritorno alla condizione di purità iniziale.

La fine del peregrinare terreno avvolti nella Tenebra si compie quindi in una «nuova nascita», in quell’embrione cosmico che Kubrick aveva rivelato al culmine della sua «Odissea», ormai cronologicamente bissata. Ma il corpo glorioso si è inevitabilmente trasformato nel suo opposto, quello dipinto dall’«uraniano» Oscar Wilde nel suo Dorian Gray : un’immagine che progressivamente si macula in sintonia con le blasfemie commesse.

Ancora un riferimento erudito: pare Wilde si fosse ispirato all’allora esotica visione dell’aldilà mazdeo, nelle fattezze della Daênâ , il cui sembiante corporeo è sincronizzato sulle azioni, buone o cattive, compiute in vita. Le modificazioni corporee della Daênâ sono quindi l’esito di un percorso esistenziale: a buone azioni, pensieri e parole corrisponde un Corpo suadente; mentre al contrario se le azioni, i pensieri e le parole sono cattive, la Daênâ si trasforma in una orrenda megera da telepromozione. L’alchimia araba parlerà di una coniugazione mistica tra Hermes e la «Natura Perfetta» visualizzata nella dicromia tra Rosso e Bianco: è la congiunzione di Eros e Logos celebrata nel Tempio di Venere, mistero da cui sorge una nuova figura, il «Fanciullo della Risurrezione» (al-walad al-jadîd), il «Fanciullo Perfetto» (al-walad al-tâmm), l’ homunculus dell’alchimia latina. Una percezione del «reale» che affiora, senza ritegno alcuno, nell’opera oracolare di Luca Ragagnin, Lìnkati Stockhausen (Portofranco, Torino-L’Aquila 2001): un singolare libro che narra la catabasi del poeta nell’abisso di Internet. Dell’Abisso (Bythos) gnostico-valentiniano s’è perso il Silenzio ( Sigê ), permane unicamente un soffocante senso di finitudine. Ragagnin come Dorian Gray: l’icona dell’anima è mutata in una complessione di pixel, uno schermo schiuso su una realtà eternamente cangiante.

 Ezio Albrile


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