Pietre che danzano Ritmo e doppio senso nella scultura indiana

Intervento al Natyakala(*) – Venezia 29 giugno 2013

Nicola Licciardello

Kamala, padrona di tutte le arti
Madre del tempo, nera bellezza
Che distruggi l’orgoglio del Kali-Yuga
Misericordia
Mahanirvana Tantra

Madre, farò un filo di perle per il tuo collo
Con le mie lacrime di dolore.
Le stelle hanno creato cavigliere di luce
Per adornare i tuoi piedi.
Le mie perle adorneranno il tuo petto
Rabindranath Tagore

0. KALI – NUDA VERITA’

KaliInnumerevoli inni a Kali, madre e divoratrice del Tempo (Kala), per millenni i poeti hanno trasmesso e devoti ancora li cantano, nei santuari dell’Assam e del Bengala (Kolkata). Se c’è un culto popolare che riduce all’Uno la molteplicità degli dei indiani è quello della Dea (Devi Mahatmya), erede della Grande Madre. Durga “l’inaccessibile” è signora della guerra (come Mahishasuramàrdini uccide il demone Bufalo) e Kali, nata dalla sua collera, da’ il ritmo al ciclo cosmico, creazione e riassorbimento, vita e morte: si dice che torni in azione quando le energie maschili sono esaurite nella lotta contro gli asura o spiriti maligni. Kali possiede armi di distruzione di massa: frecce-droni, parole-spade di fuoco e sopratutto suonimantras (con la sillaba Hum ! disperde i demoni Sumbha e Nisumbha). Bevendo il sangue-seme (rakta-bija) di tutti mostra di essere la Nuda Verità (digambari, “rivestita di cielo”). E’ la nera bellezza della Shakti, o potenza di Shiva, l’asceta himalayano che trasforma la sua energia in estasi, la sua inscindibile polarità. Ma fin dal periodo vedico, la dea è anche Lakshmi o Shri (nata dall’oceano di latte), sposa di Vishnu e benigna fortuna; è Saraswati (fiume sacro), sposa di Brahma e signora delle arti, è la verde o aurea Tara: guida, protettrice e salvatrice (essenziale nel buddhismo tibetano).1 Nonché Vac, l’antica dea vedica della Parola: è con la sua metrica (Gayatri), con l’avvenenza di parola-canto-danza che gli dei riescono a riscattare dagli asura (che lo avevano rubato) il soma, la bevanda dei veggenti2 – oro-verità misura di tutte le azioni.

Questo baratto mitico riguarda, in senso contrario, anche noi ? Vediamo: la misura di tutti i desideri, il denaro, eclissandondosi in paradisi virtuali, blocca l’eros profano, e così forse rallenta il consumismo ‘erotizzato’ della terra; il femminile mostra il suo volto irato, Bhairavi; l’umanità continua però a sacrificare a una sola dea, la Tecnica, che mutandolo può renderlo immortale. Se siamo nel Kali Yuga, e la strada del successo mondano per tutti si svela illusoria, non rimane forse che mettere a valore il proprio sé, dedicandosi a tecniche interiori di sviluppo spirituale, e a una nuova coscienza del proprio ruolo in Gaya (o Pachamama o Prakriti). La Kali-Bhairavi irata è forse la Tecnica stessa, che secondo Severino rovescerà la situazione, eliminando a un certo punto il capitalismo che le è di ostacolo ?

La grafica New Age, ad esempio, riscopre ordine e simmetria, moralizza lo ‘psichedelico’ Novecento, eliminandone ogni residuo erotico e pornografico. Essa propone il lato dolce dell’archetipo femminile e olistico, offrendone mille menù di realizzazione individuale immediata: Illuminazione definitiva, estasi sessuale, shamanesimo etc. La sua musica, senza ‘crescita’ tragico-eroica né finale esplosivo, ma – come quella di Bali e di altre tradizioni – misura senza principio e senza fine, evoca più che una morte e resurrezione, un piano di creazione continua condivisa. Questa forma facile di Tantra contemporaneo può essere un avvio, ma per ‘aiutare nelle pulizie’ Kali Bhairavi occorrono anche le tecniche difficili: le comunità ecologiche, le reti di produzione, scambio e sostegno locali, le nuove soluzioni giuridiche etc. E un’immaginazione verticale, un amore per la bellezza invisibile, celata in quella visibile – già solo per poter accostare, se non riassaporare, le radici, i testi, le vestigia che l’India storicamente ha offerto.

1. MITOLOGIA E PSICOLOGIA – IL SE’ E’ UN DANZATORE

lakshmi4Le narrazioni indiane nascono come inni (slokas), più tardi i poeti ne faranno commedie e drammi, e gli artigiani silpin le scolpiranno sui templi. Il fulcro delle storie è sempre una danza, anche di ‘guerra’, fra principi cosmici: danza come potenza analogica primaria, ragione di una trasformazione. Gli dei indiani sono dei che danzano. “il sé è un danzatore” dice lo Shivasutra di Vasugupta3 (IX sec), “la scena è il sé interiore, i sensi sono gli spettatori”. Così Shiva, yogi sul monte Kailasa, dissolve in materia le forme fra cui quella dell’ego: il terreno della cremazione è il cuore dei devoti. Ma Shiva danza anche come Nataraja benigno che schiaccia l’ignoranza (il nano Apasmara) e riaccende il ritmo. Danza Uma, nata dall’Himalaya (“Parwati”), per diventare la nuova consorte di Shiva. Danza Durga-Kali-Chamunda (la fame) mietendo vittime. Danza Krishna (avatar di Vishnu) sulle rive dello Yamuna, con le pastorelle Gopis (anime in cerca della liberazione). Ed ecco la danza di sguardi con la sua Radha: “Krishna è separato perché sa che Lei è Hladini (“bellezza”) ‘vista da me’; Radha è separata perché sa che ‘io sono vista’”. E danzano le apsaras, fate e ninfe celesti alla corte di Indra: per mostrare all’umanità l’estasi dell’unione con l’assoluto.

E’ così, partendo dalle prime sculture sui templi, che le 108 forme di danza indiana, corrottesi nel tempo (ma vive a livello popolare), sono state ricomposte nel ‘900.

2. TEMPIO INDIANO – DIMORA DELL’EMBRIONE

Nella costruzione del tempio indiano è essenziale la scelta del luogo e del materiale, della misura (pietra cubica), e la sapienza dell’architetto (“artigiano universale” Vishvakarman) consiste nel visualizzare il disegno di un mandala a più dimensioni: esternamente un calendario solare-lunare, e internamente teatro della potenza installata, centro da cui passa l’axis mundi (miticamente il monte Meru). Il mandir indiano non è uno spazio assembleare4 (come la chiesa e la moschea) e, più che “la casa” di (un) dio, è arcaicamente il corpo stesso della divinità, una miniatura dell’universo. La spoglia e buia cella interna, dov’è solo l’idolo, è letteralmente la “dimora dell’embrione” (grabhagriha): la sua potenza vitale va nutrita con l’apertura degli occhi (nayanonmīlanā), il dono del soffio (prāna-pratishthā), ossia la parola recitante (magico-apotropaica), e l’accensione del fuoco sacrificale, su cui versare burro e aromi. L’officiante e il devoto (bhaktika) pagano qui il debito con la morte, suscitando il respiro di quell’embrione, e il ritmo di questa respirazione dev’esser tradotto, suggerito, immaginato nell’aspetto esterno: il tempio deve indossare l’abito più bello, attrarre il devoto proteggendo la divinità. L’intero perimetro di questa ‘montagna sacra’ diviene allora forma pulsante, teatro dello scambio fra umanità ed energia cosmica, fra il simbolo e l’invisibile – per esempio l’unione Shiva-Shakti nel lingam-yoni: l’emersione del lingam dallo yoni dimostra l’originaria supremazia femminile nella generazione così come nella sua assenza.

3. DONNE DI PIETRA

Fra i vari trattati d’architettura5 (silpa shastra), il Silpa Prakasha del tantrico Kaula Ramachandra dichiara: “Il naribandha, il fregio con donne in architettura è indispensabile. Come una casa senza moglie, o un gioco senza donna, un monumento senza figure femminili sarà di basso livello e non porterà alcun frutto”(I.392-395). Il Samaràngana Sutradhara precisa: “I templi vanno decorati con bell’adorna gioventù, le membra intrecciate in amore”6. Così, almeno all’esterno, le figure femminili sono adorne e spesso nude, libere e liberanti dai nodi dell’io. Le devi (divinità) evocano un mito, le yakshas sostengono architravi come cariatidi, le ninfe celesti apsaras e surasundàri, o belle donne (varastri) musiciste e danzatrici – storicamente le colte deva-dasi (“al servizio divino”) o ‘sacre’ prostitute del tempio – rallegrano la vista e il ritmo (chanda) dell’edificio. Il Samaràngana (II, 508) prosegue, distinguendo le kamakala-bhandas, i fregi di arte amorosa in keli, che mostrano un approccio sessuale e maithuna, una congiunzione.

3.1 Buddismo Antico

Nudità fin nella più antica scultura indiana, come nella “cortigiana ubriaca” del regno Kusana (II sec) al National Museum di Delhi, gruppo che si sarebbe detto ‘ellenistico’ non fosse stata la figura femminile così priva di panneggio. Persino i grandi Torana, gli ingressi allo Stupa buddhista di Sanchi (I sec), hanno yakshas femminili a sesso scoperto.

3.2. Pallava

Maballipuram (costa sudest),la dinastia dei Pallava (dal 700 al 1000) firmò eccezionali ‘sculture-affresco’ sbalzate sulla roccia – come la corale, cosmogonica “Ascesi di Arjuna”, il quale ottiene da Shiva che dal cielo il fiume Gange scorra sulla terra. Il simbolismo sessuale e insieme ascensionale delle figure si manifesta in pieno durante i monsoni. La terza immagine mostra un devoto che si immola davanti a Durga.

3.3. “Black Pagoda” Orissa

(così chiamata per il suo rapporto con il Tantra della “mano sinistra”, vamamarga). Il massiccio e sciupato tempio (Carro) del Sole (XIII sec.) a Konarak, e i meglio conservati Rajarani e Lingaraja di Bhubaneshwar (sec XI, coevi di Khajuraho), hanno famose sculture femminili a tutto tondo o rilievi in cornice. Qui le precarie condizioni della pietra (non locale) usata per la costruzione possono indurre una lettura ‘pornografica’ dei fregi, ma l’esibizione ‘realistica’, compiaciuta (ridente) di pratiche sessuali, assistite dalle Donne-Serpente (nagi), è arcaicamente lontana sia dal nostro erotismo (immagine allusiva) che dalla nostra pornografia (reificazione anatomica). Più miticamente, si tratta invece del benaugurante passaggio (tirtha) dalla temuta, squamosa Ondina all’abbraccio che la trasforma in Bella dama.7

4. IL CASO KHAJURAHO

YaKshi_sanchiAl centro-nord dell’India, sull’altopiano di Khajuraho – di cui già l’etimologia è doppia: da kharjura = palma da dattero e kharjura = scorpione (shivaitico) – la dinastia dei Chandella (nome da connettere a Chandra, Luna), che reggeva anche Benares, eresse dal 950 al 1050 si dice 85 templi (ne sopravvivono 22) in un inconfondibile stile Nagar. Non difesi da muri, prossimi fra loro e relativamente piccoli (il più grande non supera la trentina di metri), formano un diadema di ariosa compattezza, librati da una sottile piattaforma e sfolgoranti di sculture anche nel pradàskina, lo stretto passaggio di circoambulazione del sanctum. Miracolosamente sfuggiti agli assalti del sultano Mahmud di Gazni (ma Ibn Battuta nel 1342 li vide “mutilati”), poi sepolti nella foresta per oltre 5 secoli (come le grotte di Ajanta-Ellora, li scoprì nell’800 un ufficiale britannico), ora Patrimonio Unesco e sede di un importante Festival di danza classica.

4.1. Scandalo ‘erotico

Non cessano di attirare il voyerismo dei turisti e l’accanita ricerca degli studiosi, che tentano di decifrare il mistero delle straordinarie sculture sessuali in mostra sulle loro pareti. Lo stesso Mahatma Gandhi stava facendo abbattere questi idoli “indecenti e imbarazzanti”: per fortuna gli scrisse Tagore, spiegandogli che appartengono all’eredità culturale dell’India, e scongiurò una loro indegna scomparsa. Il primo sguardo che li scrosta e il loro ‘lancio’ in occidente avviene negli ultimi anni ‘30 con le splendide foto di Alain Danielou e Raymond Burnier esposte al Metropolitan di New York. Danielou ne parlò come di “pornografia sacra” e illustrazione del Kamasutra, ossia “strumento di educazione sessuale popolare”, poi parlò anche di erotisme divinisé. Prima di passare a interpretazioni successive, vediamo il contesto.

4.2. Estetica estatica

“Il viso come un uovo, un arco la fronte, occhi affilanti come un pesce, sopracciglia come le foglie dell’albero di Neem, mento come il nòcciolo di mango, mani e piedi come fiori di loto, vita di vespa, tondi seni e fianchi”. Le fattezze in osservanza ai canoni Silpa Sastra, qui (più che altrove in India) meno distanti dai nostri canoni di bellezza, e la buona conservazione dell’arenaria locale, consentono una prima fruizione ‘estetica’: il raffinato gioco di chiaroscuri grigio-rosa, l’armonia di rimandi, cenni, rispondenze – una ‘conversazione ritmica’ fra le figure, assorte in sottili emozioni (bhava) o sapori (rasa) ‘personali’, fermate o sospese nell’oscillazione di un tocco, una torsione, un denudamento, infine un’unione. Ma queste chiavi retoriche sono al tempo stesso – per usare i termini danteschi – morali, allegoriche e anagogiche. Il visitatore e il devoto che girano intorno al tempio sono in tal modo invitati a un processo di rivolgimentospoliazione identificazione.

5. I SENSI DELLA ‘SCRITTURA’ DI KHAJURAHO
5.1. Storico-letterale

L’ermeneutica di Khajuraho è una scala: impossibile restare su un solo piano, data la molteplicità di livelli e la distribuzione a prima vista casuale delle scene sessuali ‘impossibili’ e/o ‘bestiali’ (come quelle sulle piattaforme). Posizioni disapprovate nel sistematico catalogo amoroso Kamasutra di Yasodhara (II-III sec) – le cui uniche illustrazioni pervenuteci sono quelle suggestive ma nient’affatto tecniche, di scuola rajastana o Moghul (sec XVII). Le sculture di Khajuraho non sono un repertorio illustrativo8 del Kamasutra, non ne hanno la sistematica ‘freddezza scientifica’, né la compiuta “letteralità”. Semmai, la spiegazione storico-letterale sui cui tutti convengono è che la loro abbondanza rispetto ad altri siti sia espressione di una società agiata e colta, che in accordo con l’Artha Shastra prevede assieme al dharma (dovere entro la legge cosmica) e all’artha (successo e benessere), innanzitutto ai giovani le gioie dell’Amore: kama, figlio di Lakshmi dea della prosperità e bellezza (come Eros era figlio di Afrodite). L’interessante però è che lo stesso Kamasutra considera i piaceri, “ricompense offerte dalla religione e dal potere, non come fine ma come mezzo per sostenere il corpo tale quale il cibo”9.

5.2. Allegorico

ShivanatarajaIn che modo allora i “giochi amorosi” (ratikrida) raffigurati indicherebbero la via di un’estasi trascendente? Per Stella Kramrish, così come per Coomaraswamy, le sculture sessuali di Khajuraho sono un simbolo di moksha, la liberazione dal mondo illusorio, l’ultimo stadio della vita dopo kama, artha e dharma. Lo storico Panigrahi nomina l’implicita pratica di trascendenza: i piaceri sessuali in scena sarebbero per il visitatore un test di autocontrollo (o distacco, tyaga) sui desideri evocati, prima di poter entrare in contatto col divino nel sanctum. Questo yoga-bhoga (disciplina del piacere-bellezza) rinvia allora a un percorso tantrico – ne fiorivano scuole, come il Kaula Marga a Kalinjar, capitale di Khajuraho – comune anche al Vajrayana tibetano, in cui, dopo anni di iniziazione, per dichiarare qualcuno un Bodhisattva, gli viene richiesta un’ultima prova: rimanere immobile alla vista di una nudità femminile e/o alla congiunzione fisica con lei. Vediamo la forma di maithuna buddhista tibetana e due sue versioni New Age:

Tornando a Khajuraho, Devangana Desai10 sviluppa un’analisi linguistica, teologica e strutturale. La chiave strutturale è data dal fatto che le sculture sessuali più appariscenti si trovano (nei templi maggiori) sui pannelli della “giunzione”, kapili o antara, fra il grande vestibolo (mahamandapa) e il sanctum (grabhagriha), cioè fra l’area ‘laica’ e quella sacra. Sembrerebbe così intenzionale aver assegnato alle immagini di maithuna la funzione simbolica di “passaggio”. La giunzione strutturale kapili incarnerebbe sul piano architettonico uno slesha, un doppio senso, un equivoco o gioco di parole (inglese pun), il significare ‘questo’ e ‘quello’ insieme, la loro adesione.

Per la chiave teologica, Desai evidenzia l’intento sincretistico a Khajuraho, non solo palese nelle divinità che hanno attributi sia di Shiva che di Vishnu, ma vera cifra ‘filosofica’ del sito – uno dei più antichi con un tempio (ora rovinato) per le 64 yogini. Sintesi fra Brahmanesimo e Tantra, e fra Advaita Vedanta (non-dualità fra Atman e Brahman) e via della Bhakti o devozione – per esempio nella forma Jain. Lo provano le maithuna presenti sul tempio Parswanatha all’inizio Jain.

Per la decisiva chiave linguistica, Desai invita a rileggere un lungo passo di Mircea Eliade11 sul tantrico linguaggio intenzionale (sandhya-bhasa) e “crepuscolare”, insieme di luce e oscurità (alo-a-dhari) e suggestivo (dhvani), che dev’essere compreso solo in parte: da un lato nasconde la dottrina (e la pratica) ai non iniziati, dall’altro mantiene lo yogi in quella “situazione paradossale” indispensabile alla pratica stessa. Così ogni stazione meditativa ha un’espressione erotica: per esempio, la penetrazione dell’energia cerebro-sacro-spinale kundalini fino al quinto chakra, quello della gola, viene descritto nello Shaktisangàma come “la danza di una lavapiatti” (dombi), quindi abbiamo: “con la lavapiatti al collo, lo yogi passa beato la notte”. Il canale centrale sushumna, dove la kundalini salendo lungo la spina dorsale conduce unificati i due respiri prana e apana, sinistra e destra, luna e sole, è detta un’asceta-donna “pura” (avadhuti), oppure il “terreno della cremazione” (smasana), che come si è visto è il cuore del devoto. E in effetti, la dottrina del kama-kala-yantra, ossia l’arte d’amare attraverso uno yantra (diagramma da visualizzare) compare nel trattato Silpa Prakasha, che candidamente dichiara: “Lo yantra è un segreto che non si può svelare a chiunque. Per questa ragione nel fregio kamabhanda, sopra le linee dello yantra si deve scolpire una scena d’amore, che dà piacere alla gente.” (II, 538-39).

E di fronte alla famosa immagine dell’uomo capovolto con tre donne (primo piano della giunzione kapili nord del tempio Kandarya), persino Micheal Rabe (mancato l’anno scorso) sospende la sua ironica e demistificante lettura storico-politica delle sculture di Khajuraho, e accetta anche lui la spiegazione tantrica. Che ancora più calzante risulta nel caso dell’altra kamabhanda, quella in cui capovolta è la donna, sul kapili nord del tempio Viswanatha. Questo pannello infatti esibisce non solo una posizione sessualmente impossibile, ma la cui massa e simmetria sono quanto di più lontano da un ‘diletto’ erotico.

6. DUE-IN-UNO – LALITA TRIPURASUNDARI

Concludiamo con un ultimo punto, passato quasi inosservato agli interpreti. Effettivamente, nel pannello sulla giunzione nord del Viswanatha, la Desai nota qualcosa che non può sfuggire, tanto è evidente: una donna che “unwilling”, (“non consenziente”?) si copre gli occhi – e la legge come un passaggio meditativo. Ma un’apsara che si copre gli occhi di fronte a scene sessuali (o anche in loro assenza) è un tema ricorrente nei templi di Khajuraho.

SanchiStupa1A ben vedere però, con le mani le ninfe non si coprono entrambi gli occhi, ma ‘ipocritamente’ o ‘ironicamente’ uno solo, o mezzo dell’uno e mezzo dell’altro, lasciandoli aperti sotto la mano. Dietro questa apparente ‘timidezza’ (sharmala) o civetteria (gesto presente in certe forme di danza) c’è forse uno slesha, un doppio senso esemplare. Le apsaras che si coprono l’occhio stanno né qui né là, né di giorno né di notte, fra il manifesto e l’immanifesto, nell’impossibile non-luogo in cui tre mondi co-esistono – cioè qui e anche là – qui assistono e là, in contatto con lo yogi o fra loro, partecipano a un processo di conversione dell’energia, a una metamorfosi che si compie mediante un atto ‘fisicamente impossibile’, come cantare la propria morte.

Il quadro in cui due apsaras appaiono più intensamente partecipare all’estasi di una coppia impetuosamente e teneramente avvinghiata al centro (tempio Viswanatha), è forse l’immagine più armonicamente rivelatrice e insieme indecifrabile di Khajuraho. Certamente il ritmo (e il contrasto) che accomuna le figure, la loro nuda grazia, ha la luce atemporale di uno stato ineffabile, che solo l’arte e la meditazione più evolute possono sperimentare e indicare. La bellezza dei tre mondi (Tripurasundari) che esprime il “gioco divino” (lalita) è la verità dell’arte. Gioia (Ananda) è il seme e il frutto, il sapore (rasa) che la poesia dona12. Con la prodigiosa sintesi di un verso Dante scrisse: “noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle” (Purg XXXI,106)13.

A titolo di nota comparativa – per esempio, si veda il “dittico del Console Areobindo” (IX sec-Louvre) e l’Eva di Gislebertus del 1130 nella chiesa di Saint Lazare ad Autun – vediamo quanto diverso è il coprirsi gli occhi delle apsaras da quello della ‘vergogna’, nel senso biblico fissato dal Masaccio (poi Michelangelo etc) nella famosa Cacciata dal Paradiso (Cappella Brancacci, Firenze): Adamo con le dita tiene chiusi gli occhi nella più cocente disperazione, cui fa pendant il lamento di Eva che si copre gli attributi sessuali. E’ invece nella Tentazione di Masolino, che i testi di storia dell’arte sbrigativamente liquidano come “statica e inespressiva”, che si potrebbe tentare un raffronto o contrasto con la scultura di Khajuraho. La scena qui è ricca di elementi simbolici che trattengono un attimo immenso: due dita della destra di Adamo toccano il suo cuore, due della destra di Eva indicano la clavicola o la gola (quinto chakra della ‘lavapiatti’ tantrica !), lei abbraccia l’Albero ma il Serpente è come lei, una vergine (piccola, è un topos). Non ci sono possibili parole, Adamo ed Eva non si guardano direttamente, consapevoli di una tensione erotica che ha raggiunto fra loro il massimo. Se non sapessimo il seguito della storia, potremmo vederli sovranamente liberi nella scelta di risolvere o no quella tensione e del modo in cui farlo.

Per concludere (provvisoriamente). Mentre il pur irriducibile sorriso di Mona Lisa viene infinitamente, globalmente riprodotto e storpiato, così come le icone di un Masaccio, di un Masolino o di un Cranach – e così come le parole del Cantico dei Cantici – al contrario, il mistero tantrico di questo quadro non è spendibile nemmeno per la più sofisticata New Age.

Nicola Licciardello

BIBLIOGRAFIA

La bibliografia, specialmente indiana, su Khajuraho e le sue sculture è straordinariamente vasta: Micheal Rabe la riporta nel suo Sexual Imagery (qui op. cit.); altri riferimenti della presente relazione sono nelle note a piè di pagina (Nicola Licciardello).

NOTE:

 

(*) – Abbiamo volentieri pubblicato la comunicazione al Natyakala gentilmente inviataci dall’autore. Le foto originali sono presenti all’indirizzo:
http:// nicolalicciardello.wordpress.com2013/07/15/ pietre che danzano/

1 Le più recenti incarnazioni della Madre sono per esempio: AnandamayMa (“madre di beatitudine”), la contemporanea Amma AmritanandaMay del Kerala, e la Mère, compagna di Aurobindo e fondatrice della internazionale “Città dell’Aurora” Auroville vicino Pondicherry.

2 R. Calasso, L’ardore, Adelphi 2010. Cap. XXI, Il re Soma ritesse queste narrazioni.

3 Vasugupta, Gli aforismi di Shiva, con il commento di Kemaraja, trad. e cura Raffaele Torella, p. 210-15, Adelphi 2013.

4 Lo rileva con competenza Alice Boner, Principles of Composition in Hindu Scultpures, E. J. Brill Publ., Leiden, 1962.

5 Fra i più citati vashtu, come il Mayamatam, è Il Silpa Prakasa di Visvakarman (XI sec).

Samaràngana Sutradhara (scritto dal re Paramara Boja) 34, 32-34, in Micheal Rabe, Sexual Imagery on the Phantasmagorical Castles of Khajuraho, International Journal of Tantric Studies, 1996. http://asiatica.org/ijts/vol2_no2/sexual-imagery-phantasmagorical-castles-khajuraho/

Ananda Coomaraswamy ritesse questo tema trans-culturale, esaminandolo nei miti celtici e greci (Amore e Psiche). Si veda: “La sposa laida”, in Il grande brivido, Adelphi, Milano 1987, pp. 297-315.

 Anche se in un paio vi corrispondono: il latasàdhana, “come un rampicante su un albero”, e vrksadhirùdaka, “arrampicarsi della donna come su un albero”.

Kamasutra (I, 32), tr. W. Doniger e S. Kakar, Oxford University Press 2002 (tr it. Vincenzo Vergiani), Adelphi 2012

10  Devangana Desai, The religious Imagery of Khajuraho, Bombay 1979; Sex in Religion: Magico-religious Beliefs and Practices, Erotic Sculpture of India: A Socio-cultural Study, ii ed., New Delhi 1985.  

11  Mircea Eliade, Le Yoga. Immortalité et Liberté, Payot, Paris 1954 (tr. it. BUR 1999). Cap. VI, Yoga e Tantrismo.

12  Ananta Charana Sukla, Estetica indiana contemporanea (cura G. Marchianò), Rubbettino 1995, è prezioso sulla rinascenza dell’ “indianità” nei primi del 900 (Tagore, Coomaraswamy, Aurobindo); p. 46 cita il Sukranitisara e il Vishnudarmottara Purana (VI sec) di Yasodhara sui principi di composizione dell’immagine.

13  Si tratta delle “ninfe” attorno al Carro di Beatrice nel paradiso terrestre: virtù o potenze in cielo. In una prospettiva indiana ma trans-culturale, ecco alcune ispirate parole di Grazia Marchianò dalla postfazione 1977 a A. Coomaraswamy, La trasfigurazione della natura nell’arte (Abscondita, Milano 2007): “Prima che una sfera autonoma di attività concretata in stili, l’arte è una devozione, un’offerta di abilità, un mistero mimetico. Essa assolve praticamente ciò che mentalmente formula la preghiera. E’ l’essenza dell’inno, il tirocinio propiziatorio all’ascesi, il soggiorno nella forma per raggiungere il senza forma. … Nella misura in cui, per mandato e natura, l’arte rende accessibile alla mente relativa l’intuizione del ‘doppio stato’, del centro più recondito e sacro, rispecchiato in ciò che è manifesto, esterno, pro-fano, l’artista è l’officiante di un rito che utilizza la forma per risvegliare la coscienza, la memoria, la vocazione al senza-forma. Una anagogia, una ierofania, vissuta dall’artista e dal fruitore, il quale, ancora, è artista nella misura in cui ‘gusta’ e ri-crea dentro di sé l’evento della forma che si fa ‘cosa’ e diventa storia” (p.182).


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