Prosartemata

Ezio Albrile

Recentemente mi è stato donato un interessante libro di Aldo Natale Terrin, Scientology. Immortalità e libertà, Morcelliana, Brescia 2017, che di fatto è una esaustiva introduzione al sistema gnostico della Chiesa di Scientology fondata da R. Hubbard. Nell’insieme della disciplina, mi sono soffermato a considerare il concetto di “engramma” come “momento di incoscienza” che racchiude un dolore fisico suscitato da una emozione dolorosa, espresso in termini tecnici di Scientology quale “registrazione errata di un evento” (p. 124); concetto che può essere avvicinato alle  concrezioni psichiche che si sono stratificate nella vita mentale del soggetto, cioè il karma, la zavorra legata allo spirito, il fardello che vincola la scintilla luminosa al ciclo trasmigrativo. Sono le prosartēmata, le «appendici» dello gnostico Basilide che avvincono l’anima al mondo, inclinandola al male (Clem. Alex. Strom. 2, 113, 4); anche Valentino si addentrava nel problema: nel cuore abitano molti spiriti che maculano l’anima, sono addentellati demonici che impediscono di vedere Dio, quello vero (Clem. Alex. Strom. 2, 114, 3-6), come ho argomentato nel mio libro L’illusione infinita. Vie gnostiche di salvezza (Mimesis, Milano 2017).

Tali influssi simboleggiano ciò che nell’esperienza empirica buddhista è definita «rinascita» (paisandhi), ossia il collegamento karmico di causa ed effetto tra una vita che è terminata e una vita che inizia. La reincarnazione intesa come trasmigrazione (sakamati) della medesima coscienza o anima attraverso molte esistenze è un’ingannevole definizione del sasāra dal punto di vista della mente che, essendo identificata col contenuto della propria esperienza, crede erroneamente di essere il medesimo soggetto cosciente di tutte le vite ritenute «proprie».

Di fatto, per tornare in Occidente, a una esperienza diffusa appartiene il legame tra eros e thanatos, tra amore e morte, cioè la «concrezione» secondo la quale l’amore può provocare la morte, proprio perché il coinvolgimento dell’uomo nella passione amorosa è recepito nei termini di una patologia, la cosiddetta «malattia d’amore».

In termini gnostici, il tempo custodisce le formule autolesive in grado di attaccarsi alla memoria, ma del tutto naturalmente ne ridefinisce, depaupera o addirittura cancella i contenuti.

In una seconda fase al legame amore-morte si agglutina un terzo elemento, la gelosia, ulteriore nutrimento al bisogno di autodistruzione: la sequenza circolare è evidente: quando la passione amorosa lascia libero ingresso alla gelosia, non c’è altro scampo se non la morte.

Successiva immagine di ciò che in termini buddhisti va sotto il nome di pratiīyasamutpāda, «coproduzione condizionata», è un quarto elemento, la volontà di vendetta, cioè il desiderio di punire con la morte la donna, violatrice del sigillo erotico; elemento riciclato in termini infiniti nell’intreccio gnostico di  hedonē (piacere) gamos (unione) genesis (procreazione) thanatos (morte) abile contraffazione del Demiurgo omicida al fine di incatenare più luce possibile ai lacci della materia, al «telaio degli schiavi». Il testo di riferimento è lo Scriptum sine titulo di Nag Hammadi, espressione filosofica e prammatica del vincolo tragico che lega l’uomo a un «gioco cosmico» eternamente sfuggente, anche al nostrano Leopardi che ne fu vittima e inerme cantore.

Se la morte si pone oltre i confini esistenziali poiché interruzione dell’intreccio malvagio formato da kāma, il desiderio scaturigine della duplicazione dei corpi e quindi dell’incatenamento a kāla, il tempo, la ruota dell’esistenza, cioè il ciclo delle estinzioni e delle rinascite effigiato nel samsāra, in un senso primario, però, si colloca all’interno dell’ossessione passionale, non giungendo ad assumere un valore purificatorio.

La dialettica amore-morte si configura quindi in una meccanica specularità la cui deriva si identifica di volta in volta con la sofferenza, con la prostrazione fisica e morale, proiettata, senza possibilità di scampo, nell’universo della dissoluzione e del «riciclo» dell’anima all’interno del processo metemsomatico.

Leggiamo, per esempio, in un poeta erotico (elegiaco) latino Properzio (4, 7), il vagare delle anime dei morti nel simulacrum del sogno, quale possibilità di ritorno degli estinti fra i vivi; le umbrae vagae dimorano nell’oscurità di Ade, sorvegliate da Cerbero e riportate ad stagna Lethaea dal nauta infero (R. R. Marchese, Morir d’amore [Letteratura classica, 36], Palumbo, Palermo 2012, p. 77). Sempre in Properzio (4, 1, 135-142), l’astrologo Horos mette in guardia il poeta dagli inganni di Venere, collocati in una vicenda oscillatoria astrale in cui l’uomo è tragicamente vittima; un inganno che egli stesso tesse e decostruisce.

La schizofrenia passionale che mortifica l’uomo ha un decorso patologico che non è prevedibile in nessun modo, se non da una costante attenzione a se stessi, che nell’instabilità ossessiva viene sicuramente meno.

Ezio Albrile


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