Simboli della civiltà kushana

Ezio Albrile

Fig. 1
Fig. 1

La civiltà kushana, sapiente intreccio di cultura greca, iranica e indiana, agli albori della nostra era ha dato visibilità al buddhismo e alla sua vocazione ecumenica; questo soprattutto grazie alla sua arte, usualmente nota come “arte del Gandhara”.

Provenienti dalle steppe centroasiatiche, i Guishuang, cioè I Kushana, una delle cinque tribù degli Yuezhi, un’ampia federazione di genti indoeuropee che parlava una lingua iranica, il Tocario, invasero la Battriana greca, cioè le attuali regioni ai confini di Iran e Afghanistan. Dal I al II secolo d.C., i sovrani kushana arriveranno a controllare un vasto regno esteso dalla Battriana al bacino del Gange e oltre. Un grande impero, un mosaico di genti, lingue e religioni in cui convissero iranismo, buddhismo, ellenismo e induismo. L’impero kushana fu probabilmente l’unico esempio di tolleranza religiosa, da parte di un potere che condivise con i suoi sudditi una molteplicità culturale, soprattutto religiosa. All’interno di questo variegato intreccio etnico e linguistico l’arte si pone come elemento di unificazione. È proprio sotto i kushana che prende forma la prima iconografia “canonica” del Buddha. Ma il Buddha non è il solo elemento unificante dell’arte gandharica: dèi greci, induisti, iranici e anche egizi (Arpocrate) si compendiano in figurazioni nuove e complesse.

Queste rappresentazioni, mediate attraverso il contatto prima con il mondo romano e poi con Bisanzio, contaminano il medioevo romanico. Così i fiori di loto, sacri al Bodhisattva Avalokiteśvara seduto con un bocciolo di loto in mano (Padmapaṇi), sono forse all’origine di tanti fregi e girali delle chiese romaniche (figg. 1-2). Col tempo si trasformeranno nelle “rose” dei portali di ordini gerosolimitani e templari . Ancora i leoni in torsione e i felini contorti di capitelli e colonne hanno una chiara ascendenza gandharica (fig. 3) e prima iranica.

Fig. 2
Fig. 2

Il buddismo mahayana subì un’evoluzione dottrinaria che lo portò ad accentuare l’aspetto soteriologico e a smaterializzare la figura del Buddha da storica a metafisica, fino a concepire i cinque Buddha supremi, di cui uno – Amitabha/Amitayus – è il Buddha della ‘luce’ e della ‘vita infinita’. Un prestito iranico da Zurwan, il Tempo nella sua dimensione infinita e luminosa. Sono il nimbo e le fiamme che escono dalle spalle del Buddha.

Il Buddha gandharico stante ha sempre la mano destra sollevata nella cosiddetta abhaya-mudra o gesto della rassicurazione; le mudra sono particolari posizioni delle mani e delle dita che designano stati o modi di meditazione, ma le loro origini sono induiste (fig. 4).

Il Buddha assiso è raffigurato nella dhyana-mudra, o gesto della meditazione, nel quale le mani riposano in grembo con le dita distese e il dorso della destra posato sul palmo della sinistra; ovvero nella dharmachakra-mudra o gesto dell’insegnamento, nel quale entrambe le mani sono tenute contro il petto con le punte dell’indice e del pollice destro che unite toccano un dito della sinistra. Gli stessi strani gesti che troviamo per esempio in un affresco del monastero benedettino di Torba (Varese).

Ezio Albrile

Fig. 3
Fig. 3
Fig. 4
Fig. 4

 

 

 

 

 

 

 

 Nota: tutte le immagini sono riprese dal Museo di Arte Orientale di Torino.

 


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