Sul pragmatismo americano

Giuseppe Lampis

Il pragmatismo di solito viene male intepretato, perché si bada più all’aspetto gnoseologico che non a quello etico-politico che invece è saliente e peculiare.
Sotto il pragmatismo corre uno spirito immanentistico simile a quello nietzscheano.
L’ homo americanus di cui questa corrente filosofica è la rappresentazione ha tutta l’aria di essere l’incarnazione dell’uomo che viene dopo la morte di Dio: animalesco, primitivo, senza storia, senza passato, pieno solo di futuro, desideroso di dominio. Non solo desideroso ma anche pronto e capace di esercitarlo. Capace perché non appesantito dalla tradizione e perché sgombro di fardelli che non siano il suo stesso desiderio di potenza.

Noi europei di solito guardiamo all’America con ironia e sussiego, perché affascinati dall’individuo geniale rinascimentale italiano prendiamo in esame l’uomo singolo americano che a tale confronto può apparirci ridicolo e stereotipato; ma incorriamo in un grave errore, perché bisogna invece guardare all’americano come a un soggetto collettivo.
In breve, l’uomo nietezscheano non è rappresentato da nessuna singola personalità quale Roosewelt o Kennedy o Ford o Rockefeller o altre eccellenti figure ma è un organismo collettivo, un anonimo superuomo.
Il superuomo di Nietzsche non fu compreso: non doveva trattarsi di un singolo, ma di un organismo collettivo, una x che andava ben oltre l’uomo normale singolo.
L’organismo collettivo è brutalmente e creativamente selettivo, a suo modo tragico, severo e indifferente al destino del singolo che non sa nuotare nella impetuosa corrente.

Stiamo cedendo a una interpretazione alla Walther Withman? Alla Ezra Pound? O, per così dire più giornalisticamente, alla Ernst Hemingway?
Stiamo presentando un mito poetico?
Sarebbe necessario esaminare sia pure di sfuggita le tappe salienti della costruzione della figura dell’ homo americanus nella letteratura e nell’immaginario collettivo, dal cinema alla propaganda politica consustanziale alla costruzione di ogni progetto di espansione universale.
Nemmeno dovrebbe mancare un esame attento delle dottrine politiche e giuridiche e delle loro idee-forza.

Tuttavia in questa sede dobbiamo accontentarci per ora di guardare dalla prospettiva filosofica, la quale in definitiva ci informa sempre abbastanza bene sullo stato della autorappresentazione che un popolo fa di sé.

I

Considerato dalla prospettiva dell’idealismo, il pragmatismo americano risulta alquanto improbabile. Lo stesso anche da quella del kantismo e perfino dell’empirismo europeo per quanto sia apparso esserne uno sviluppo. Se lo si considera, cioè, a partire dalla gnoseologia esso può apparire in prima istanza rozzo e ingenuo.
In effetti si dovrebbe riformulare in maniera più attenta le nostre considerazioni, chiarendo che la prospettiva di cui stiamo parlando è niente altro che quella della filosofia in generale, stante che la filosofia – da Platone in qua – si era sempre poggiata sui principi del conoscere.

I filosofi si sono sentiti legittimati addirittura a fare una caricatura del pragmatismo: esso apparirebbe – se considerato sotto la angolazione intellettualistica – un movimento che afferma che “la verità è l’utile”.

Però un simile giudizio è solo frutto di altezzosa incomprensione.

Anche la filosofia europea alla fin fine è sfociata in una critica radicale del predominio del conoscere e nella constatazione della sua insufficienza; anche essa, nelle sue varie correnti, arriva a rinunciare all’idea che la visione del mondo possa poggiare sul conoscere.
Ora, proprio questa era la tesi del pragmatismo: che non si potesse costruire una visione del mondo sulla dittatura di un ragionamento.
Se consideriamo la radice profonda da cui questa tesi trae ispirazione, troviamo una radice che sottostà a grande parte delle nuove correnti culturali dell’epoca: il rifiuto della filosofia, in definitiva. Il primato della filosofia si è consumato presso la psicoanalisi, la antropologia, la sociologia, l’etica, la scienza, la storiografia.

La filosofia appare in ritirata di fronte alla battaglia per la costruzione della nuova intuizione dell’uomo del Novecento e la definizione del modello regolatore della civiltà

La verità non precede la volontà 

Per il pragmatismo americano (Peirce, James, Dewey), la verità non precede la volontà e non la condiziona affatto.
Sembra di ritrovare una antica tesi della mistica medioevale.
Il messaggio di san Francesco (XIII secolo) proclamava che l’amore precede e determina il pensare. Questa era stata la posizione dei grandi monaci, da san Pier Damiani (1007 – 1072) sostenitore della severa riforma della chiesa culminata nel papato di Gregorio VII, deciso antidialettico, schierato Contra errorem graecorum , a san Bernardo di Chiaravalle (1090 – 1153) diffidente e polemico verso la nascente scolastica aristotelica.

Socrate, il padre degli intellettualisti europei, sosteneva che nell’operare ognuno fa ciò che ritiene giusto; ognuno, operando, fa ciò che riconosce essere il bene, nessuno fa ciò che in cuor suo ritiene essere il male. Anche l’atto più esecrabile viene compiuto dal malvagio perché in quella data circostanza egli giudica che sia la cosa migliore da fare. L’agire e il volere, secondo l’avviso di Socrate, seguono sempre il giudizio e il pensare.
Per questa ragione, Socrate si proponeva di trovare il bene supremo che potesse, per l’appunto, orientare armonicamente tutti i voleri. Si proponeva di insegnare a pensare correttamente secondo una regola comune e a pensare un pensiero universalmente valido.
Quando tutti si fossero messi alla ricerca di questo universale, la volontà che avrebbe voluto e seguito quel pensiero universale avrebbe voluto di conseguenza un bene universale. Così si sarebbe potuto edificare la città giusta.

Fra i santi cristiani, dopo la fine del mondo antico e della sua filosofia, nella incerta situazione del nuovo evo di mezzo emerge un modo diverso di concepire l’uomo. Io amo e scelgo e faccio non ciò che mi dice un freddo disincarnato sapere bensì una spinta più profonda insita nell’animo. Una emozione, un moto dell’anima, un orientamento della volontà, sono l’origine, sono il fondamento, non un concetto, non una idea razionale.
Siamo così di fronte al rovesciamento di quanto ha sempre sostenuto la filosofia greca classica, la prevalente linea pitagorico-platonica.
Eppure già i sofisti la pensavano diversamente, e non dovevano essere troppo marginali se lo stesso Platone sentì il bisogno di polemizzare con impegno contro di loro.

La volontà costruisce la visione del mondo

Per il pragmatismo, la volontà nel suo dispiegarsi e progettarsi costruisce anche una visione del mondo. Ciò non vuole dire che ogni singolo, come in un dramma di Pirandello, si chiuda in una visione diversa e separata. La volontà di cui si tratta spinge a muoversi in un sistema di relazioni che accomunano.
L’utile a cui deve portare la verità non va inteso
come quello immediato (che infatti non è il vero utile), ma come ciò che serve in generale ai bisogni profondi della vita. Le visioni del mondo, le concezioni del mondo, in altri termini il pensiero della realtà o verità, non sono – dunque – originari, non sono il principio da cui si parte: al contrario, discendono dalla creatività del volere.
Ora, una volontà libera si progetta soltanto in un mondo non predeterminato e libero.
Inoltre, una volontà non libera è un controsenso; la stessa esistenza della volontà comporta che il mondo in cui si muove e di cui fa parte sia compatibile con essa, e dunque che esso sia imperfetto e perfettibile.

Se io sono libero, il mondo in cui mi muovo non può essere eternamente dato e immutabile.

Il mondo in cui è possibile la volontà libera o la volontà  tout court deve essere mutevole, indefinito, casuale, caotico. La volontà libera comporta il rischio, l’incertezza, l’ansia, e la capacità di affrontarne la sfida. La libertà comporta la responsabilità e la accettazione della tragicità del vivere. L’uomo libero non ha garanzie precostituite. Il suo mondo è assolutamente immanente. Nessuna trascendenza lo sovrasta e domina. L’unica trascedenza dell’uomo libero è la sua stessa libertà. L’unica trascendenza è la volontà stessa. La volontà si carica del problema di andare oltre la situazione data verso il suo progetto. La trascendenza è la volontà che si progetta nel rischio e si orienta nel caos-caso.

La cultura dell’immanenza e l’ideale del super-uomo

Il pragmatismo appartiene all’ampio movimento di reazione al positivismo e di ripensamento della funzione delle scienze che conclude l’Ottocento.
Spicca fra gli altri suoi caratteri il rifiuto della sicumera intellettualistica del positivismo.
Uno dei suoi moventi consiste nella ridiscussione delle basi della scienza; un altro nella valorizzazione delle emozioni e delle forze arazionali dell’uomo.
Il sottofondo del pragmatismo americano assomiglia alla volontà di potenza nietzscheana. Non c’è volontà che non sia libera, non c’è libertà senza sforzo di affermazione e di esercizio del proprio potere.

La volontà libera, o volontà tout court, non è tale se ubbidisce a comandi predeterminati e esteriori. La volontà autentica non è eteronoma ma autonoma.
I valori sono valori non perché già dati al di sopra della volontà ma perché stabiliti e creati da essa.
L’uomo americano ha finito così per incarnare in modo inatteso e insospettabile un ideale distillato dalla vecchia Europa in crisi di identità : l’ideale del super-uomo.

Prendiamo, di questo ideale, uno dei punti più caratteristici: il super-uomo è il rovescio della medaglia della morte di Dio.
Nel momento in cui l’umanità scopre di essere totalmente risolta nella immanenza, deve superare se stessa e trasformarsi in una umanità di livello superiore che prende in carico la propria vita senza garanzie precostituite accettandone tutti i rischi, tutti i piaceri ma anche tutti i dolori.

L’uomo americano è il super-uomo?

Presa nella sua immediatezza questa domanda suscita un senso di ridicolo, se si considerano i singoli abitanti delle città e dei villaggi americane. Eppure, si deve chiarire l’equivoco che impedisce di vedere oltre la immediatezza.
Il super-uomo non è un singolo individuo (e non lo è nemmeno in Nietzsche). Il singolo individuo americano non regge il peso del paragone, ma non ce n’è bisogno, in quanto non è il singolo il termine di paragone.
Il super-uomo, l’uomo nuovo che ha appreso irreversibilmente che Dio è morto e che sulla terra c’è solo lui, non è un singolo, è piuttosto una comunità, un organismo collettivo, una Kultur spengleriana.
Una cultura della immanenza, senza passato, che non guarda al futuro come a un paesaggio già fissato bensì come alla frontiera del proprio esistere progettante.

Tale cultura senza impacci, sanguigna e feroce, comporta una società selettiva
e a suo modo aristocratica.
E anche in questo caso non bisogna sottostare ai concetti tradizionali della vecchia Europa; nella società basata sulla volontà libera, aristocrazia certo non vuole dire tradizione e non vuole dire eredità.
Chiarito ciò, deve essere però altrettanto chiaro che non bisogna nemmeno equivocare sul significato del tendenziale egualitarismo e della abolizione dei vincoli predeterminanti basati su razza, sesso, religione, passato.

Questo tipo di società basata sul rischio e la responsabilità della libertà arriva a essere programmaticamente molto più aperta delle società statalizzate, ma anche essa esige che si formi una classe alta.

La classe alta non sarà ereditaria, ma pure c’è; mobile, aperta, in continua formazione per le avventurose e selettive entrate e le impietose uscite, ma ben presente.

II

William James (1842– 1910) fu il pensatore centrale del pragmatismo mentre Charles Peirce (1839– 1914) viene riconosciuto come l’iniziatore del movimento.

Fu il fortunato James a valorizzare lo sfortunato Peirce indicando in un sua intuizione l’inizio della corrente pragmatista.
Peirce non ebbe successo e restò ai margini, ma è nel suo pensiero che si trova la radice dei due rami in cui gli interpreti vedono biforcarsi il pragmatismo: un ramo empirista, tutto concentrato sulle procedure della scienza, e un ramo metafisico con esiti persino irrazional-religiosi.
Purtroppo gli interpreti si fanno suggestionare dalla polemica dell’ingegnere Peirce nei confronti dell’umanista psicologo James e non vedono che non c’è alcuna alternativa di temi reciprocamente escludentesi.
Anzi, lo specifico apporto del pragmatismo si trova proprio nell’intrinseco rapporto tra la nuova dottrina del funzionamento della mente in rapporto al conoscere e la dottrina del valore della volontà in rapporto alla definizione della realtà.

Peirce aveva lavorato tutta la vita attorno a una nuova logica, dedicandosi a una voluminosa opera sulla dottrina del “significato”.
Ora, quando si comincia a scomporre gli oggetti in segni e significati, vuole dire che si sta procedendo a de-oggettivare la realtà dell’oggetto.
Al posto di un oggetto “oggettivo” subentra un sistema di relazioni mentali.

Per Peirce queste relazioni si costituiscono nell’ambito operativo del soggetto.
Peirce perviene a una sorta di empirismo radicale che consegna l’oggetto nelle mani del soggetto. Dietro la parola oggetto (= realtà ) non c’è nessuna oggettività, oggetto è soltanto l’insieme di una serie di effetti verificati e attesi nell’ambito della sensibilità e della pratica.

Il pensiero, in breve, non scopre nessuna realtà oggettiva ma costruisce abiti di azioni. Per la esattezza, Peirce li chiama credenze.
I concetti non sono rappresentazioni oggettive ma credenze.
Le credenze, come bene si capisce, non sono fatti intellettuali ma contengono una sostanza emozionale.
La verità, quella che chiamiamo verità, consiste, ovvero torna a consistere, in affermazioni che ci coinvolgono nel cuore.
La verità deve servire a vivere. James era molto interessato a questo aspetto.

Più tardi un altro geniale americano non pragmatista, Alfred North Whitehead (1861 – 1947), affermerà che gli oggetti non sono le astrazioni della fisica e della matematica ma quelli effettivamente percepiti.
Il soggetto non può avvolgersi in se stesso fino al punto di esaurirsi nell’ambito ristretto della autocoscienza che invece è solo un caso particolare della sua costituzione.
Dunque, Peirce affermò che il concetto di oggetto si risolve nei suoi effetti pratici concepibili. Un mezzo, uno strumento.

Si tratta di una affermazione rivoluzionaria e bene fece James a individuare in essa la nascita della filosofia pragmatista. I concetti (la verità ) sono abitudini, attese, ipotesi, regole di condotta, tutte di portata esclusivamente sensibile e pratica.

Tali abiti devono crescere soltanto nel campo dell’agire e le procedure scientifiche devono rifiutare ogni presupposto estraneo, metempirico, a priori, o basato sul principio di autorità.

La verità è ciò in cui credo e che mi orienta 

James rivendicò questo anche di fronte alla obbiezione che in tale modo ci si esponeva alla superstizione; egli ribatté: «non posso aspettare che l’intelletto si decida a battere un colpo quando sono di fronte a una questione vitale».
Una posizione che richiama assai da vicino la posizione buddista: quando ho una freccia conficcata nella carne non posso perdermi a discutere da dove venga, su quale mano la abbia scagliata o sulle leggi della balistica.James è autore anche di un importante testo di filosofia delle religioni, ancora oggi citato e studiato ( Le varietà dell’esperienza religiosa , 1902).

Infine, dove sta il punto?

James è interessato al fatto che dietro ogni affermazione non c’è tanto l’intelletto quanto una altra forza, una forza che conduce a affermare, una fede, e schernisce coloro che presumono che gli scienziati costruiscano le loro teorie in una sfera disincarnata e senza interessi. La verità è ciò in cui credo e che può aiutarmi a orientarmi.

Ma perché credo?

Perché ciò che penso corrisponde alla realtà, dice Peirce. No, precisa James, è ancora troppo intellettualistico, «credo perché così mi va e così sento che può essere se voglio».
Un ribaltamento di centottanta gradi si è consumato nel cuore dell’empirismo che avevamo finora conosciuto. Proprio in forza dello stesso principio empirista, in omaggio al regno sovrano della esperienza, si è dato lo spazio più largo alla radice di tutte le esperienze umane, al desiderio, alla volontà di esistere, arrivando a sostenere che la volontà di esistere nel tempo stesso fa esistere il mondo.
La verità è dunque la fede. Lo slancio vitale che fa dire sì.
La volontà domina la conoscenza, la scienza stessa non viene affatto costruita al di sopra o contro le tendenze e le credenze degli scienziati.
Alla base della scienza non c’è il disinteresse per il problema bensì l’interesse.

Orgogliosamente sprezzante verso i suoi critici James sostenne fino in fondo che di fronte alle questioni vitali abbiamo la libertà di credere e non possiamo attendere i deliberati dell’intelletto.La libertà di credere comporta altresì il rischio di credere. Non si ha torto o ragione in astratto, ma sempre in base alle conseguenze alle quali si va incontro.

Non posso essere sicuro definitivamente di ciò che penso perché il mondo non è definitivo. In un mondo incompiuto e instabile, non chiuso e totale, non serrato nell’uno, non monistico, vale soltanto la regola del “se”. La religione non ha il proprio fondamento né nella rivelazione né nella verità, ma nel credere. La religione è credenza e non pacifica acquisizione di un quadro intellettualisticamente convincente.

Per Whitehead la realtà è evento e processo e di conseguenza le teorie su di essa non possono che avere il carattere di azzardo. Per James, non è la credenza a seguire la conoscenza che il mondo è instabile e incompiuto. Il sapere che il mondo è instabile e incompiuto non è un prius , da cui deriva per conseguenza che dobbiamo orientarci in esso solo attraverso credenze. La sequenza va rovesciata: prima viene come noi siamo e poi la concezione del mondo.
Noi siamo volontà, libertà, credenza, rischio; in questo modo apparteniamo al mondo e partendo da qui costruiamo il mondo.
Dato che noi siamo intrinsecamente uomini dei “se” che affermiamo e in cui crediamo, il mondo non può che essere compatibile con questa nostra intrinseca essenza, e dunque essere aperto, processuale, da compiere, pluralistico.

A rigore, nemmeno si può dire che c’è un mondo unico; la libertà implica che ci siano più mondi. E se l’universo non è uno, monistico, chiuso, definito e definitivo, Dio stesso non sarà il signore totale, ma soltanto uno dei giocatori e soltanto uno degli attori.

Il migliorista James non arrivò al politeismo, ma si tratta di uno sviluppo non necessario e fuorviante, l’umanità da lui rappresentata si era sollevata già abbastanza in alto; inoltre non si doveva contraddire la regola di non legarsi a posizioni rigidamente definite.
La posizione antintellettualistica di James ha uno sbocco più coerente di quella di Nietzsche.
Nietzsche polverizzando il primato dell’intelletto razionalistico e proclamando la morte di Dio conclude con la proposta di una inversione della storia europea da raggiungersi attraverso la completa decristianizzazione. Nietzsche ama il nulla, sente che l’uomo emancipato dal dolore e dalla colpa è sospeso su un abisso e che però deve amarlo.

James non è nichilista, non è interessato a nessuna disincrostazione religiosa, il suo eroe utilizza tutto, tutto può tornare utile nel progetto di modificare e migliorare il mondo. Per lui non c’è alcuna malattia originale da guarire, bisogna solo lavorare molto.
In definitiva Nietzsche ripone troppa fiducia nella capacità liberatoria della critica. Per James la vera critica poggia nell’istinto del fabbro. Strano che l’esaltatore della creatività dell’istinto abbia pensato che esso potesse essere rimesso in moto da un proclama, per quanto radicale.
Nietzsche e James si affidano a una immanenza assoluta e per entrambi ciò mette l’uomo nel rischio della più totale vanità e inutilità. Nietzsche pensa che ciò vada assunto come un destino.

James respinge il destino, la inutilità della vita per lui non è un destino ma una sfida.Colpisce che qualche anno dopo un americano, Whitehead, abbia detto che Dio non è il creatore ma il salvatore.
Whitehead non era un pragmatista, si inscriveva in una corrente diversa, il neo-realismo, eppure anche per lui non c’è più l’oggetto oggettivo, perché – come abbiamo già ricordato – l’universo è in divenire.
Se l’universo è processo, al suo inizio non c’è e non può esserci Dio, semmai Dio sarà alla sua fine. Dio è un programma di azione.

Uno dei principali esponenti del pragmatismo, Ferdinand Canning Scott Schiller (1864 – 1937) aveva riflettuto per tutta la vita su un pensiero simile, egli vedeva l’uomo oscillare tra Faust e Mefistofele, tra il costruttore di ordine e il distruttore; per lui, l’uomo della volontà libera affronta il mondo come l’antico affrontava la Sfinge (è il titolo di una delle sue opere maggiori) e lo fa per portarlo a Dio.

Ecco, il pragmatismo approda infine alla sua affermazione più caratteristica. Il mondo è una sfida. Se sono libero, se voglio essere libero, devo sapere che il mondo è una sfida. Sarà questa la tesi di John Dewey (1859- 1952).
Dewey fu tra le due guerre l’americano più influente in Europa. Pedagogista, psicologo, logico, epistemologo, portava una ventata di positività e di fiducia.
La conoscenza per Dewey non è mai un semplice rispecchiamento della realtà, essa è sempre interpretazione. Si tratta di una tesi hegeliana e infatti Dewey si formò studiando Hegel. Interpretazione non nel senso, tuttavia, meramente concettuale, bensì come attività che investe l’intero complesso della vita pratica.

Lo strumentalismo di Dewey vuole che la conoscenza abbia una intrinseca funzione operativa: la costruzione del conoscere comporta in sé come passaggio essenziale e costitutivo la sperimentazione; non solo, ma l’intero conoscere è volto anche a determinare l’esperienza, facendola continuamente uscire dall’indeterminato. Le idee devono adattarsi, le idee sono ipotesi, proiezioni, strumenti di dominio, capacità di intervento, lavoro, produzione effettiva. Esse ci fanno uscire dall’indeterminato e entrare in una situazione determinata.

Lo spirito universale di Hegel viene sostituito dalla “natura” e dal suo organico sistema di relazioni. Tale sostituzione si è resa possibile in quanto il concetto di natura e di esperienza è cambiato in profondità : esperienza non è più soltanto l’ambito ristretto considerato dall’empirismo, ma comprende la intera storia dell’uomo, le sue emozioni, passioni, desideri, valutazioni, essa è la complessiva interrelazione tra l’ambiente sociale e naturale e il vivente. L’esperienza di cui parla Dewey travalica lo psichico e coincide con l’insieme dei nessi che si stabiliscono tra l’organismo e il mondo.

L’esperienza così intesa non è solo una via di accesso alla realtà, è la realtà. L’esperienza è pluralista, processuale, tendenziale, indefinita, e ci dice che siamo inseriti in un campo di interazioni complesse e intercomunicanti di cui dobbiamo rintracciare i percorsi utili a affermarci contro il male.
Dewey tuttavia non vuole proporre una metafisica del mutamento.
Il mutamento non è il Dio metafisico da cui tutto prende origine secondo un percorso assicurato e razionale, è invece il rovescio della medaglia della libertà umana, della sua responsabilità, della sua capacità di rispondere alle sfide dell’ambiente.
Libertà, responsabilità, capacità : tutte si esercitano nell’incertezza e nella fallibilità.

Conclusioni 

Concludendo giova che si ritorni a notare come fra i movimenti di opposizione alla trascendenza, quelli europei (nietzscheanismo, esistenzialismo) sboccano nel nichilismo, quelli americani (pragmatismo in testa) sboccano nella fiducia nell’uomo che si batte. Questo rifiuto del nichilismo è un tratto peculiare dell’intero pensiero americano e non solo del pragmatismo.
L’americano Royce è in contrasto con l’inglese Bradley, pure condividendo con lui il riferimento al pensiero di Hegel, perché il ritorno a Parmenide che questi propone ha un esito nichilistico. Abbiamo richiamato gli elementi idealistici presenti in Dewey.

Di James possiamo dire che si ricollega al più ampio spiritualismo che in quella fase storica ha in Henry Bergson il maggiore rappresentante in Europa.
Sullo scorcio dell’Ottocento una robusta componente idealistica e un vasto afflato romantico già contrastava il positivismo inglese evoluzionistico alla Spencer che dominava in America.
D’altronde il pensiero di Hegel circolò in ambiti più larghi di quelli idealistici e l’idealismo americano dal canto suo trovò importanti zone di convergenza con il pragmatismo.

Francis Herbert Bradley (1846 – 1924), il maggiore pensatore idealista anglosassone della fine dell’Ottocento, è un neoparmenideo che afferma che le apparenze sono inspiegabili (Appearance and Reality, London 1893). La realtà empirica (mutamenti, relazioni, molteplice) risulta illogica e paradossale in quanto non corrisponde alla legge suprema del principio di identità, quello – appunto – proclamato rigorosamente da Parmenide.
Comunque, dato che si tratta pur sempre di una realtà, deve rappresentarne almeno un grado; anche se non certo il grado ultimo e perfetto.
Bradley conclude che ciò che rimanda l’esperienza non può essere la realtà. L’intrinseca assurdità della esperienza, del tempo dello spazio del movimento, in breve di tutte le forme di relazione fra qualità, testimonia che essa non può essere la realtà. D’altro canto la realtà deve esistere e allora l’esperienza non potrà che costituirne una forma o una gradazione. Il mondo dell’esperienza è una apparenza, una forma, una modalità del reale.

Invece, per Josiah Royce (1855 – 1916), il maggiore rappresentante dell’hegelismo americano, il mondo della esperienza non solo non rappresenta un grado imperfetto della realtà ultima ma coincide perfettamente con essa. Il suo problema principale è sia il superamento dell’atomismo dell’individuo mediante il suo inserimento nel tutto, sia la dimostrazione che nel tempo stesso il tutto si incentra sugli individui e si esaurisce in loro.
Royce si rifà alla teoria dell’infinito attuale di Georg Cantor, secondo la quale l’infinito si compone di un numero finito di parti, per quanto si tratti di un numero assai grande; in tale modo egli arriva a concludere che ogni punto dell’infinito è insieme parte e tutto, centro e circolo. La antica tesi panteistica di Nicola Cusano e di Giordano Bruno riappare così in una America alla ricerca della propria personalità culturale e insofferente del piatto scientismo europeo.

Dio siamo noi, Dio è l’esperienza. Dalla coincidenza di Dio e mondo, di uomini e Dio, risulta una assoluta valorizzazione della esperienza.
L’esperienza non è una via secondaria di accesso alla realtà, è la realtà.
Le esperienze individuali sono dei processi che si compongono in una rete universale infinita.
Riprendendo la teoria dei segni di Peirce, Royce assume che ogni uomo si colloca nella realtà come un interpretante: così, il tutto si costituisce nella rete degli interpretanti o delle interpretazioni. Un infinito circolo ermeneutico, una sorta di chiesa invisibile universale a cui essere fedeli, una grande comunità spirituale ubbidiente allo stesso dovere sovraindividuale.

Ideali cristiani, romantici, massonici, ma anche scientifici, mondani, di interesse per la realtà industriale, si combinano nello stesso quadro. James non è un romantico ma non si fa chiudere nel culto della scienza.
Il concetto di scienza è stato oramai trasformato in modo essenziale.
La scienza viene oramai strettamente collegata con i successi e gli interessi tecnico-industriali. Inoltre, il reggitore della società, in cui opera una scienza avente insieme questi limiti e però anche queste straripanti potenzialità, è un uomo nuovo, disposto alla selezione, meritocratico, amante del rischio, libero, centrato sulla valorizzazione della volontà, in cerca di dominio universale.

L’afflato spiritualistico del pragmatismo è stato frainteso come errore metafisico. Forse una lettura letterale giustifica la critica, ma la parabola storica va in una direzione complessivamente molto diversa.

Soffermiamoci ancora una volta sul confronto tra il tema del pragmatismo e Nietzsche.

Beninteso, la questione dei loro rapporti esigerebbe ben maggiore spazio di queste note, eppure la scoperta di un punto di partenza comune ci serve per accantonare le critiche di spiritualismo che si muovono contro il pragmatismo.A nostro avviso, si tratta di un grave fraintendimento; il pragmatismo va da un’altra parte.
Una nozione molto ampia e molto ricca di esperienza, che coinvolge con sé anche la spiritualità, viene invocata per una rappresentazione rivoluzionaria dell’uomo.
Il punto è che sia i pragmatisti sia Nietzsche hanno entrambi gettato alle loro spalle la storia della filosofia per immettersi in un altro mare.
Per entrambi l’uomo nuovo deve alleggerirsi del peso della filosofia nell’intraprendere la navigazione. Il mare nuovo è quello etico-politico, è quello della pratica, è quello della religione.
Per entrambi non v’è differenza fra i termini suddetti, per loro religione e pratica coincidono.

Dove, allora, le strade di Nietzsche e di James si biforcano? Precisamente nella religione proposta.
Nietzsche propone il dionisismo, James e il pragmatismo propongono un approfondimento e una radicalizzazione della istanza dell’ultimo cristianesimo, il cristianesimo anglosassone, il calvinismo puritano.
Naturalmente c’è dell’altro nel lievito del pragmatismo, però nella determinazione della essenza dei fatti culturali ciò che conta di più non sono tanto gli ingredienti quanto il cuoco.

Un’ultima notazione. Gli americani, da eccellenti poeti quali essi sono, non hanno mai disprezzato Nietzsche, lo hanno assorbito in dosi massicce, però ne hanno diffidato. Andava bene il culto dell’eroe, ma non la predica dell’eterno ritorno dell’uguale.
Royce ci può aiutare a spiegare meglio tali affermazioni: il principio di identità non conduce alla vanificazione del mondo della esperienza bensì all’esatto opposto. Se soltanto l’essere è, anche noi siamo essere a pieno titolo.
D’altronde si interpreta che anche Nietzsche riflettendo sul principio di identità vi aveva intravvisto la proiezione dell’imperio della volontà.
I principî logici sono principî perché hanno un’anima di acciaio che li impone. La dea di Parmenide o la spada di Alessandro?

Giuseppe Lampis


Articoli correlati