Stella Maris

Ezio Albrile

In una suadente cittadina del levante ligure, Monterosso al Mare (La Spezia), si ammira la splendida chiesa di San Giovanni Battista, edificata tra il XIV e XV sec., bellissimo esempio di gotico ligure. Sulla facciata bicromatica in marmo bianco e pietra nera, spicca l’antico rosone traforato, attribuito a Matteo e Pietro da Campiglio, scultori pistoiesi.

È formato da una stella centrale a otto punte dalla quale promanano diciotto colonnine, alternativamente lisce e tortili, con capitelli. Da questi nascono archi a tutto sesto con dentelli che formano, intrecciandosi, archi a sesto acuto trilobati con all’interno motivi ornamentali a forma di stella o di croce. Una fila di tondi a traforo separa la rosa dalla cornice esterna, nella quale si notano altre decorazioni a forma di nodo, di croce e di stella. La stella a otto punte è il motivo dominante di tutto l’insieme, connessa a un simbolismo astrologico e numerico in cui l’Ogdoade è immagine della Madre di Dio. Una tradizione dalle radici molto antiche.

StellaMarisTestimonianza del cristianesimo di lingua aramaica (siriaco) gli Atti di Tomaso trascrivono un Inno battesimale in cui lo Spirito Santo è invocato come «Madre delle sette case, il cui riposo è nell’Ottava casa» (2, 27), le «sette case» sono i Pianeti, l’Ottava è l’Ogdoade in cui dimora la Madre celeste. Otto come i lati dei primitivi battisteri cristiani, immagine dell’Ogdoade divina sovrastante il nefasto regno dei Sette Pianeti.

Analoghe vicende si rintracciano nello gnosticismo antico, in relazione al raggiungimento, da parte delle Anime, della vetta celeste ove alberga la «Madre lucente». È la dottrina degli gnostici Arcontici, strana coniugazione di metafisica e prassi magica. Tutto ciò che sappiamo su di essi ci deriva in gran parte da Epifanio di Salamina e da una serie di libri che lo stesso eresiologo aveva fra le mani. Tra questi, uno, chiamato Symphōnia, parlava di una Ogdoade celeste (ogdoada tina legousin einai ouranōn) e di una Ebdomade planetaria nella quale risiedevano sette Arconti, uno per ogni cielo (hepta ouranous), e ogni Arconte possedeva una «legione», (taxis) di Potenze celesti. Infine, nell’ottavo cielo, più in alto di tutti (anōtatō[i] en tō[i] ogdoō[i] einai) stava la Mētēr he phōteinē, la «Madre lucente» (Epiph. Pan. haer. 40, 2, 3).

Secondo Origene, gli gnostici Ofiti insegnavano agli iniziati a pronunciare, dopo aver superato la phragmon kakias, la «barriera del male», delle frasi davanti alle porte eternamente chiuse degli Arconti, all’indirizzo delle potenze che soggiogavano i cieli. La prima di queste era rivolta a una prōtē dynamis, una «potenza sorgiva» da cui originava l’Ogdoade, tēs ogdoados hai archai.

Nel racconto cosmogonico degli gnostici Valentiniani, all’inizio c’era il plērōma, il mondo della pienezza, abitato da una serie di entità perfette chiamate «Eoni», Aiōn. Il sistema ne enunciava 30 (Ir. Adv. haer. I, 1, 1-2), di cui era parte l’Ogdoade originaria.

L’Ogdoade e l’Enneade è il titolo di un trattato ermetico ritrovato fra le sabbie di Nag Hammadi. Espone un cammino beatifico attraverso le sfere celesti, sotteso a una invocazione: l’adepto ermetico prega Dio affinché gli sia concessa la «verità dell’immagine» (6, 57, 29). Così egli vede se stesso trasfigurarsi in Dio e, superati i sette cieli, approdare nell’Ogdoade.

Giovanni nell’Apocalisse (12, 1) racconta un’autentica esperienza estatica: vede prima un cerchio luminoso. Poi dal cerchio si stacca un segmento splendente: è il Sole. Sotto di esso appare una sezione più scura. Nell’ombra risplendono dodici punti di luce: sono i dodici segni dello Zodiaco. Alla fine si delinea la forma di una Donna. È la Signora, lo Spirito Santo. Nel cristianesimo delle origini, di matrice aramaica, lo Spirito Santo è ritenuto Donna e Madre, in special modo la Madre di Gesù. Ciò deriva dall’uso linguistico semitico che ritiene la parola ruah «spirito», di genere femminile.

È lo Spirito Santo, che i giudeo-cristiani venerano in fattezze angeliche. Secondo un Vangelo diffuso al tempo, il Vangelo degli Ebioniti, ipotetica fonte di Matteo 3, 16-17 e Luca 3, 22, Giovanni Battista è testimone di un fatto straordinario: vede stagliarsi sulle acque del Giordano una grande Luce, uno splendore abbacinante; squarciati i cieli, lo Spirito Santo in forma di colomba discende su Gesù, che una voce dall’alto esalta quale «Figlio diletto in cui Dio è «prosperato» (Epiph. Pan. haer. 30, 13, 7). È l’adito di Gesù alla generazione divina, la nascita nel mondo spirituale e l’adozione di quella «consustanzialità» e somiglianza con il mondo luminoso che lo rendono «Figlio di Dio». Insegnamento cardine della gnosi aramaica che ritroviamo in un frammento del Vangelo degli Ebrei trascritto da Origene (In Ioh. 2, 12, 87) e ripreso da San Girolamo (In Mich. 7, 6). Al battesimo lo Spirito appella Gesù quale proprio «figlio». Il Salvatore dice in prima persona:

«Poco fa mia Madre, lo Spirito Santo, mi ha afferrato per uno dei miei capelli e mi ha trasportato sul grande monte Tabor».

L’idioma originario del Vangelo degli Ebrei è l’aramaico di Edessa, il siriaco, mentre dalle testimonianze parallele si desume che l’alfabeto impiegato è quello ebraico. I destinatari del testo sono i giudeo-cristiani di Berea, nei pressi di Aleppo, cioè i Nazorei di Epifanio o i Nazarei di Girolamo.

L’insegnamento sarà fatto proprio dagli gnostici Valentiniani e in seguito dai Manichei: entrambi svilupperanno una dottrina della salvezza incentrata sull’unione tra l’uomo e il suo Angelo, il suo Spirito. Un’intima vicenda di illuminazione interiore. Da qui deriva l’immagine paolina dell’unione del Cristo con la Chiesa, simbolo dello pneuma hagion, dello Spirito Santo, il mysterium coniunctionis tra l’uomo di luce, lo anthrōpos phōteinos, e il suo angelo. Il mistero valentiniano della syzygia tra lo Spirito e l’Anima, che sigilla, nel gamos virginale, l’unione perenne con Dio.

Il Pastore di Erma, nei primi capitoli, contiene molte visioni di una Donna che viene detta Chiesa. In seguito, tuttavia, l’Angelo custode dice ad Erma:

«Voglio mostrarti ciò che ti ha rivelato lo Spirito Santo sotto le forme della Chiesa» (Sim. 9, 1).

Erma è un trovatello allevato da una donna che in seguito lo vende come schiavo. Dopo molti anni la ritrova. La vede bagnarsi nuda nel Tevere e resta ammaliato, soggiogato dalla sua bellezza. Il desiderio di Erma è fittizio, incestuoso, la bellezza idealizzata, dal momento che gli anni avranno certamente infierito impietosamente sulle un tempo avvenenti forme della nostra signora.

Un desiderio erotico sublimato è quindi alle origini delle visioni di Erma (Vis. 1, 1-3). È l’ineliminabile nostalgia raccontata nel mito, l’anelito insopprimibile al ritorno dell’immagine presso il suo angelo, la restaurazione dell’androginia primordiale. La sublimazione erotica insegnata dallo gnostico Valentino, in cui eros e ascesi coincidono nella ricerca di un medesimo fine, il trascendimento delle passioni e del mondo, attuato attraverso l’uso o il rifiuto di essi.

La «Donna vestita di Sole» contemplata da Giovanni è indiademata da dodici stelle, sono le costellazioni Zodiacali. Ancora negli Atti di Tomaso siriaci, la Sapienza divina, cioè la Chiesa, è lodata in un canto: le sue vesti sono come fragranti fiori primaverili, coi piedi danza gioiosamente e la sua bocca dischiusa sussurra parola d’amore. Varca la soglia della camera nuziale attorniata da sette paraninfi (i Pianeti) e ha dodici servitori (i segni dello Zodiaco). La Sapienza è uno Spirito creativo, un creator spiritus, che genera il kosmos e pervade ogni cosa. È l’Anima del mondo cantata dai Neoplatonici, la pēgaia psychē, l’«anima sorgiva».

Sempre nella visione di Giovanni, dopo la Donna radiosa, appare nella volta celeste un enorme Drago purpureo con sette teste e dieci corna (12, 3). Il Drago non è nel cielo, che è il luogo dove vive Dio. Dio non approva la presenza del Diavolo nel cielo. Quindi, in realtà il Diavolo non si trova nel cielo, bensì nel firmamento, cioè nel cielo delle Stelle fisse.

È la riscrizione di un noto mito gnostico narrato in decine di versioni. Così nell’Ipostasi degli Arconti il Demiurgo, opera di Sophia, è immagine del mondo celeste: sotto il firmamento, il velo cosmico, il katapetasma, si produce un’ombra che diventa materia. Da essa prende forma un aborto, un essere mostruoso, androgino, dalle sembianze di leone, il demiurgo Ialdabaōth. Nello Scritto senza Titolo, meglio conosciuto come trattato Sull’Origine del Mondo, Sophia emana un’immagine celeste, il velo cosmico, il «sipario» calato sulla tragedia dell’esistere; un velo che proietta la sua ombra sul «caos infinito», originando la sostanza liquida, la fonte spermatica del cosmo. Sophia si manifesta su queste acque del caos: da esse prende vita un Arconte, il Demiurgo omicida Ialdabaōth, che ha sembianze di leone, è androgino, e che i teleioi, i «perfetti» chiamano Ariēl.

Ialdabaōth è sedotto e colmo di vergogna di fronte alla Luce proveniente dall’Ogdoade superiore: nella Luce a poco a poco si delinea una splendida «forma» (eine < *eidos) umana, invisibile a tutti tranne che a lui e alla sua compagna, il «primo pensiero», la Pronoia. Tale forma è Adamo, descritto come «Uomo-di-sangue-luminoso»: è un luogo comune del pensiero gnostico, in cui il processo cosmogonico scaturisce dalla sostanza divina caduta e imprigionata nel mondo della materia sotto forma di simbolo luminoso.

Siamo alla frontiera tra Ebdomade e Ogdoade, dove il Demiurgo e le sue potenze cercano d’impedire l’accesso al cielo delle Stelle fisse. Nella dottrina ermetica la salvezza equivale a una divinizzazione: è la sintesi perfetta di gnōsis e athanasia, uno sfuggire alla morte e a tutto ciò che è ad essa collegato. È la theopoiēsis: quando l’adepto, libero dagli influssi planetari, cioè spogliato della natura istintuale, entrava nell’Ogdoade, il cielo delle Stelle fisse.

Giovanni rivive la sua visione sullo schermo celeste, in sintonia con la disciplina astrologica.  Scrutando il cielo, gli antichi erano soliti pensare che vi si potesse scorgere l’immagine della Vergine con, subito al di sotto, quella di un mitico drago, l’Hydra. Il Serpente acquatico che derivava il nome dal mostro eptacefalo dimorante nella palude di Lerna. Il drago combattuto e ucciso da Eracle in una delle famose «fatiche».

Non a caso l’Hydra fa parte del programma iconografico della famosa «Porta dello Zodiaco» alla Sacra di San Michele, conosciuta anche come Abbazia di San Michele della Chiusa, capolavoro dell’architettura romanica, inespugnabile cenobio scavato roccia del monte Pirchiriano in Val di Susa (Torino). Il marmo bianco della Porta, intagliato come avorio, è un dedalo di figurazioni fantastiche in cui lo Zodiaco e le Costellazioni sono la parte più rilevante.

L’autore di tale maestria scultorea è Nicholaus o Nicolò, operante nell’Italia settentrionale tra il 1114 e il 1140 circa. Lo stipite di sinistra accoglie sulla lesena interna, in dodici riquadri formati da una treccia, le raffigurazioni di diciannove costellazioni: sei dell’emisfero boreale nella porzione superiore (fino al Triangolo compreso), tredici di quello australe nell’inferiore. Si tratta di una serie di costellazioni extrazodiacali conosciute nella disciplina astrologica sotto il nome di paranatellonta, ossia le stelle e le costellazioni che sorgono contemporaneamente a un determinato grado (un decano) oppure a un determinato segno dello Zodiaco, la cui definizione si deve a Teucro di Babilonia. Nella Porta dello Zodiaco all’Hydra corrisponde il Capricorno, il segno dello Zodiaco in cui cade il Solstizio invernale, l’antico Sol invictus mutato nel cristiano Sol salutis. Il Cristo-Sole che muore e rinasce.

L’iconografia mariana è andata incontro a un lungo e complesso processo di elaborazione ed è modellata sulle raffigurazioni della dea egizia Iside che allatta il pargolo Horus, immagine nutriente nota nell’Occidente cristiano come Maria lactans o Virgo lactans. Iside è la regina coeli afflitta dal mostro Seth e che dà alla luce un figlio divino di nome Horus, il giovane Sole. La devozione per Iside, sposa di un dio, Osiride, morente e risorgente, si diffuse in tutto il mondo ellenistico. Ne fu testimone l’Apuleio delle Metamorfosi che la invocava come «dea salvatrice» (11, 9), la madre celeste che intercedeva per l’umanità.

Il culto isiaco richiama alla mente le feste primaverili celebrate per l’apertura della stagione dei viaggi, da cui deriva probabilmente la stessa festa del char navalcarrus navalis o «carnevale», varato in onore della dea. È la Stella maris riferimento dei naviganti, la Maria siderale, l’Ave Maris Stella che li conduce salvi in porto.

Ezio Albrile


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