Psicanalisi, etica, eudaimonía

Giuseppe Lampis

Il viandante che entra nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma e arriva in fondo alla navata sinistra alla Cappella Contarelli può vedere nella Conversione di Matteo come un grande Caravaggio abbia raffigurato il fatto che l’uomo più semplice e preso da un giro assolutamente materiale possa scoprire che nella sua vita entra una dimensione più alta, una parola che lo invita a riconoscere che egli può volgersi a un’appartenenza che va oltre la sua piccola occupazione e identità quotidiana.

Caravaggio - Conversione di San Matteo
Caravaggio – Conversione di San Matteo

I personaggi, vestiti intenzionalmente negli abiti dei contemporanei, sono intenti a contare denaro mentre, dalla parte opposta del tavolo a cui sono seduti, un richiamo superiore lampeggia irrompendo improvviso e afferra soltanto uno di loro che si sente costretto a voltarsi nella sua direzione.

Questi è Matteo, e Matteo nella simbologia dei quattro annunciatori (il tetramorfo), fra il leone, il toro, l’aquila, è «l’uomo»; specificatamente è l’uomo alato, colui che è stato elevato ad anghelos.

Per anni Caravaggio ha continuato a riflettere sullo stesso tema, lo riconosciamo dalla Cena in Emmaus, esposta nella Pinacoteca di Brera a Milano.

Anche qui lo stesso pittore di Roma, pittore sanguigno irresistibilmente immerso nel mondano, raccoglie un racconto evangelico dallo squisito carattere metafisico per indicare accanto a colui che siede nel tempo una presenza che trapassa il tempo.

A fianco di ciascun individuo c’è sempre un altro che lo ha accompagnato seppure non visto e non avvertito.

Non è un’ombra illusoria, è una presenza reale. Non è reale unicamente ciò che si vede e si tocca, l’uomo ha un’altra possibilità di accesso al reale attraverso essa.

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Il primo quadro, secondo la critica storica più recente, è del 1600, il secondo del 1606.

L’idea è chiara: siamo costantemente «con» un altro. Pur restando quello che siamo partecipiamo di un’altra sfera.

Con l’uomo entra sempre un daimon, una dimensione demonica.

Fino a quando ci si ostina nella piccola individualità chiusa e fissata, non la si vede.

Sorprende che lo abbia detto il carnale Caravaggio e che lo abbia mostrato nel mezzo di una condizione assai terrena e molto lontana dallo ieratico.

La nuova luce non ha bisogno di una sede speciale, sceglie la quotidianità più banale. Il tempio in cui il divino si manifesta è la casa dell’uomo del popolino.

Si tratta certamente di una lettura inquieta e radicale dell’umanesimo del messaggio cristiano in un’epoca di drammatiche rivoluzioni religiose.

In ogni caso che l’uomo sia aperto a una forza che lo solleva e sovrasta è credenza molto antica e dai primordi uno degli interrogativi centrali delle religioni e delle tradizioni sapienziali è se tale apertura sia dovuta a una rottura dall’alto o a uno slancio essenziale dell’uomo.

Nel cristianesimo sta la riformulazione storicamente più moderna di una delle risposte al grande problema.

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Caravaggio - Cena in Emmaus
Caravaggio – Cena in Emmaus

Riporto alcune righe del brano del vangelo di Luca (24,13–35) con la cena in Emmaus.

«… due dei discepoli si trovavano in cammino verso un villaggio di nome Emmaus distante circa sette miglia da Gerusalemme e conversavano di tutto quello che era accaduto. Mentre discorrevano e discutevano, Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro. Ma i loro occhi erano impediti dal riconoscerlo.

Egli disse loro: “Che discorsi sono questi che vi scambiate cammin facendo?”

Si fermarono, tristi; uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: “Tu solo sei così straniero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?”

Arrivati vicino al villaggio dove erano diretti, egli fece finta di dover andare più lontano. Ma essi lo costrinsero a fermarsi, dicendo: “Resta con noi perché si fa buio e il sole già tramonta”. Egli entrò per rimanere con loro. Or avvenne che mentre era a tavola con loro prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo distribuì loro.

Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli disparve ai loro sguardi…»

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Dunque, con l’uomo entra sempre un daimon, una dimensione demonica.

Tutti sentono, ancorchè inconsapevoli, di costeggiare un abisso denso di presenze, e in loro stessi avvertono uno sbilanciamento verso questo centro di gravità potente.

E attirati da esso vorrebbero aprirsi.

Tutti sentono la componente dell’altra dimensione, ma chi li guida a trovare il varco?

Potremmo dire che, per la ragione che l’uomo è permanentemente accompagnato da una dimensione più alta, il compito del consigliere o del maestro o dello psicologo è quello di guidarlo a non mettere il piede in fallo nel cammino per «trovare il varco».

Ecco il punto: trovare il varco per uscire dal tunnel dell’individuo fissato nel privato involutivo.

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D’altro canto, l’aspirazione al varco è il movente immancabile che, ancora una volta, sta dietro il fenomeno generale che affannosamente accade oggi nel mondo degli uomini: tutti vogliono essere connessi, tutti vogliono disporre di efficientissimi mezzi di comunicazione, ma poi non sanno che cosa hanno veramente bisogno di ascoltare e di che cosa sarebbe importante parlare.

Accade come per quelli che, soffrendo del vincolo di essere ignoranti, desiderano giustamente il tesoro di una maggior cultura e comprano le decine e decine dei volumi della più famosa enciclopedia. Presumevano che l’acquisto li avrebbe scaraventati ipso facto fuori dal recinto dei loro limiti. Avrebbero molto da leggere ma non sanno che cosa.

Questa situazione si è amplificata ad estensione planetaria attraverso i motori di ricerca nel web che danno l’illusione di avere a disposizione il sapere mondiale a un semplice clic.

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Alla luce di queste considerazioni possiamo ripensare alla crisi mortale della psicanalisi freudiana o della psicanalisi tout court.

In effetti è morta quell’analisi che pretendeva di fare dell’individuo il principio e la fine di ogni percorso per il controllo e la riappropriazione di sé.

Sigmund Freud
Sigmund Freud

Si è consumata la presunzione positivistica di ridurre l’etica a scienza naturale e di incanalarla in una pratica tecnica sperimentale.

In verità, la psicanalisi era nata dall’intuizione che la costruzione di un ethos eccedesse l’ambito di governo della medicina positivistica e però non aveva previsto che l’autolimitazione alle dinamiche della piccola anima dell’individuo non l’avrebbe emancipata completamente proprio da quel condizionamento ideologico positivistico che intendeva superare.

Purtroppo era difficile fare i conti con quel presupposto poiché sotto c’era una matrice molto più basilare che riguarda il carattere stesso della modernità: c’era l’insurrezione in fase dilagante dell’uomo faustiano. E la psicanalisi faceva parte di questo gigantesco processo.

Comunque è significativo che lo stesso ciclo elaborativo di Freud si concluda con l’affresco apocalittico delle forze sovrumane e antiumane che agiscono nell’anima.

In un uomo, c’è sempre dell’altro. Questo altro, che va cercato e guardato, è la sua dimensione trascendentale. Lungi dall’essere un intruso estraneo ed eterogeneo, è un piano al quale lui stesso appartiene.

Per Eraclito coloro che aprono gli occhi vedono un mondo «comune», un mondo non deformato dall’arbitrio delle esperienze individuali. Al contrario, la massa degli uomini banali si rigira in un sapere limitato al loro misero privato… (frammento 2).

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Colui che assume il compito di aiutare gli uomini incatenati con la faccia fissa al fondo della caverna, il vero guaritore, torna da loro per aiutarli a volgersi indietro verso l’uscita.

Platone e Aristotele pensavano all’etica come a una scienza e a un’arte coerenti con l’architettura della polis e la ricerca della verità.

La loro medicina – l’arte della guarigione – è in perfetta corrispondenza con l’idea etica di salute dell’anima.

Questa idea vuole che la salute dell’anima sia intrinsecamente connessa con un ordine più ampio che rinvia dalla polis all’universo, tanto da risultare causa ed effetto, potremmo quasi dire, di un’armonia che abbraccia l’intero vivente.

In altre parole, la salute del singolo è l’elemento di un tutto e il passo pregiudiziale per garantirla non può che essere quello della giusta inserzione della parte che il singolo svolge nel tutto a cui è aperto per intima costituzione.

È questa, dicevamo, una delle affermazioni peculiari della Repubblica di Platone e dell’Etica Nicomachea di Aristotele.

Il proposito del nostro articolo non è di riepilogarne per esteso gli argomenti ma, concentrandosi sul nucleo della questione, è di sottolineare che la missione di liberare e rivolgere l’uomo verso l’uscita rientra in un itinerario complesso nel quale la salute dell’anima e l’armonia della polis e la conoscenza della verità si tengono l’una con l’altra.

In breve, non esiste la minima possibilità che il singolo, finché resta avvitato nel mero recinto individuale, guadagni quello stato che dalla lingua latina chiamiamo felicità e che i greci hanno chiamato eudaimonía.

Eudaimonía, alla lettera: (avere o stare con) il buon daimon, il giusto dèmone.

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Il confronto tra le due parole, la romana (felicitas) e la greca (eudaimonía), ci permettono una notazione conclusiva.

Nella sapienza greca l’ideale della completezza e della pienezza degna dell’esistenza dell’uomo autentico era riassunto con un termine che esprimeva la partecipazione a un orizzonte profondo di carattere divino (il daimon).

Nella cultura latino–romana già dal termine usato percepiamo uno spostamento di accento e attenzione.

Felicitas viene da una radice che indica pienezza naturale: felix ha comune origine con fetusfeminafecundus, filius. Beninteso, latini e romani avevano dall’epoca arcaica una nozione forte della sacralità della creatività naturale.

Ancora in età repubblicana l’eminente politico Silla era soprannominato Felix volendo con ciò significare che era protetto dalla dea Venus. Egli era accolto nell’attributo di Felix in qualità di reggitore capace di apportare prosperità e fortuna alla sua città. Venus del resto non era affatto la dea del mero desiderio erotico, o – meglio – tale era perché impersonava la prorompente irrestibile creatività universale della terra.

Successivamente questa ricchezza di significati si restringe e il concetto latino iniziale perde il profilo sacro e demonico e finisce per indicare prevalentemente l’aspetto naturale e materiale.

Nella torsione della parola vediamo aprirsi gli spostamenti che hanno portato a uno schiacciamento della felicità nel senso dell’individualismo materialistico.

Nel frattempo il punto vero è sfuggito alla presa. L’individuo reale ha una struttura diversa da quella implicata da una figura esclusivamente mondana e la sua «felicità» non si fa comprimere nell’ambito di una tecnica calibrata sull’individuo materiale.

Sarà perciò più utile cambiare la strada in cui ci ha spinto il concetto di felicità e ritornare al pensiero dell’ethos e alla densità plurisenso della eudaimonía.

Eudaimonía, il buon daimon, il giusto dèmone.

Giuseppe Lampis


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