Acme della speculazione filosofica classica greca e della visione della verità è il dialogo platonico–socratico.
Esso è presentato in modo programmatico come il severo elegante rito d’iniziazione degli aristoi greci alla conoscenza delle cose riposte e della morte.
Il rito si deve svolgere nella forma del symposion e comporta una precisa liturgia, la riunione dalla notte all’alba, la musica delle flautiste, l’inebriarsi, la scelta di un tema dedicato a un dio, il rispetto di un ordine nell’avvicendamento dei parlanti.
Il symposion è condizione assolutamente essenziale al raggiungimento dell’alta finalità della conoscenza del terribile. Se si svolge non rispettando l’inquadramento debito, risulta superficiale e inefficace e soprattutto accade che i protagonisti, i mistai, soccombono e si rivelano incapaci di proseguire l’audace impresa.
Altre forme, è vero, sembrano possibili: Fedro che passeggia insieme con Socrate nel bosco sacro lungo le rive dell’Ilisso, o la veglia con il Maestro in procinto di assumere il farmaco definitivo raccontata da Fedone. Casi estremi e irripetibili, certamente fuori della norma consueta.
Per quello del carcere, inoltre, c’è da notare che a rigore non si è nemmeno trattato di un procedimento teso a coinvolgere effettivamente l’intera cerchia dei presenti. In quello del Fedro, poi, appare piuttosto una sorta di speciale introduzione preparatoria, e il culmine della preghiera a Pan rinvia a diversa occasione.
*
Lo sconvolgimento che comporta l’esplorazione della verità e l’avvicinamento alla sua visione, il trauma angoscioso della trasformazione interiore che accompagna i passaggi via via più brucianti che l’affilata intuizione del maestro insinua nelle menti dei mistai, tutto ciò non può venire affrontato senza la preventiva garanzia di un dio.
Il dialogo che avvia al salto deve svolgersi sotto la sua protezione.
I grandi collegi inaugurano le loro riunioni, nelle quali saranno chiamate in causa questioni essenziali, invocando superiori potenze amiche.
I grandi poeti non osano intonare il canto senza mettersi nelle mani delle Signore della poesia, espongono la creazione come opera loro, ammettono con umiltà e orgoglio di essere semplicemente la docile bocca che emette il suono che esse vogliono.
Il symposion si svolge nell’aura della presenza del dio della ricerca della verità. Del dio dell’avvicinamento alla morte.
Nessuno potrebbe impunemente percorrere da solo, nell’epoca dell’umanità attuale, l’impervia strada.
Ora, i migliori, pronti alla riservata e privilegiata trasformazione, si raccolgono a distendersi di notte nel banchetto comune e, prima di aprire il discorrere pericoloso e di varcare la soglia che divide l’ignoranza dalla sapienza, bevono.
Essi bevono il vino. Lasciamo da parte Dioniso, Platone non è dionisiaco e però per arrivare a parlare di certe cose bisogna, è doveroso, bere vino. Dobbiamo guardare all’evidenza: in quel frangente, una qualche esaltazione è ritenuta necessaria.
Occorre provocare adeguati processi fisiologici, prima. Nessun corpo nella condizione della quotidiana normalità potrebbe tentare, a freddo, la prova di entrare nel territorio che si estende oltre quella soglia.
È il residuo di un’antica prescrizione rituale del rapimento da ebbrezza?
Per noi moderni, che a ogni angolo di strada urtiamo in un bar o in una tabaccheria, queste antiche canoniche consuetudini appaiono bizzarre e primitive. Ma i greci dell’età classica erano più prudenti anche nell’esprimersi, non si addentravano in determinati argomenti né dal medico di un apparato burocratico né dallo psicoanalista personale. Né, peggio, con gli amici casuali in una qualsiasi serata mondana.
Essi erano ben consapevoli che il fuoco scotta.
*
Da due miti di Platone
Politico 272 B
Gli uomini d’oro dell’età di Crono, non dovendo lavorare per procacciarsi il nutrimento, avevano tempo per dialogare fra loro e anche con gli animali.
Fedro 258 B
Chi sono le cicale?
Uomini appassionati della filosofia morivano d’inedia senza accorgersene; trasformati in cicale, ricevono dalle Muse il dono di non avere bisogno di cibo per non distrarsi dal cantare.