Perché la verità è la verità

Giuseppe Lampis

Il problema della verità non nasce dall’esigenza di una fondazione intrinseca. Il mito di una fondazione intrinseca è moderno e sorge da un abbaglio.

Ciò si dovrebbe intuire fin dalla prima formula della fondazione intrinseca o autogiustificazione che è quella dell’autoevidenza. L’autoevidenza viene presentata come un imporsi da sé con immediatezza, mentre è proprio l’evidente a contenere dietro di sé il dèmone che lo rende stringente e fascinoso.

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Dall’inizio, la verità è vera in forza dell’autorità della fonte che ne garantisce la validità. Se volessimo applicare agli arcaici la formula moderna, si dovrebbe riconoscere che il problema della verità è il problema dell’autorevolezza della sua fonte. A mano a mano che la fonte precedentemente indiscutibile perde prestigio sorge il problema di una fonte alternativa al cui comando non sia lecito disubbidire.

Apollo - Opera fotografica di Lorenzo Scaramella
Apollo – Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

In altre parole, non c’è la verità con proprie forme di autovalidazione, come pretende il mito moderno, c’è invece il dio che comanda l’ubbidienza e accompagna il comando con terribili sanzioni o seducenti lusinghe. La verità è la parola e il prodigio di Apollo. La verità è Delfi, è Eleusi. La verità è Dioniso e l’estasi.

Prima di loro, o per altri, era la parola della Madre terra.

In India è Krishna nelle vesti dell’auriga che insegna al principe Arjuna ciò che deve fare sul campo di battaglia.

La dea che accoglie Parmenide sulla porta dei sentieri della notte e del giorno non dimostra alcunché secondo le procedure della logica che un moderno si aspetterebbe applicate: essa pronuncia semplicemente e terribilmente « devi », « deve », « è necessario » (chre).

Se un dio afferma « è necessario » non si riferisce a un contenuto che porti in sé il principio della propria validità, né autolegittimato né fondato in sé: « è necessario » esprime un ordine.

E, infatti, la parola greca aletheia designa precisamente l’ordine e nasce dal radicale indoeuropeo da cui provengono il rita indiano e lo arta iranico.

La tesi di Heidegger che a–letheia « non–nascondimento » vada presa per un composto di alfa privativo (non) e lanthano (nascondo) è soltanto un’affascinante elucubrazione: Friedländer ha dimostrato che aletheia non contiene nessun alfa privativo.

« Non–nascondimento » vale nello stesso gioco nel quale è più abile Platone allorché nel Cratilo etimologizza « divina erranza », semplicemente scindendo in ale–theia.

Ma il « gioco » di Platone è, in ultima analisi, più vicino al vero e lo contiene in cifra come allusione.

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All’inizio, insomma, « verità » vuole comunicare un’informazione più concreta di quella che sarà pensata dopo. Essa è il contrario di menzogna: è la parola del dio che non mente.

Questo significato originale si perde quando il contrario di verità verrà mutato in errore. Errore: una specie di inciampo neutro, involontario, oggettivo, quasi tecnico. Se ne misuri la distanza dalla menzogna: la menzogna ha infatti un peso e una qualità non subalterna alla verità, non derivata e secondaria, è un’altra verità. Una verità contraria, una verità alternativa: alternativa perché esposta da un dio diverso e avversario del primo.

A mano a mano che il prestigio del dio declina, ci si rivolge ad altre fonti.

Gli jonici – i padri della filosofia secondo la tradizione – non contestano che la verità sia un comando, una necessità, ma cambiano dio. Almeno così sembra a uno sguardo superficiale. In effetti, essi reinterpretano e riformulano il dio di prima. La verità è rimasta comunque, anche per loro, la necessità e l’ordine dipendenti da una fonte autorevole. Secondo loro, la verità dipende dalle azioni di una arché: ma la struttura del discorso primigenio è rimasta invariata.

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Una novità, tuttavia, è rappresentata da Pitagora. Con lui sembra che sia stata cercata per la prima volta l’intima struttura del reale.

Si tramanda che sia stato l’inventore del nome di filosofia; in ogni caso, egli è particolarmente interessante per apprezzare la parabola che si è sviluppata con la filosofia.

In primo luogo, Pitagora è chiaramente tributario di Apollo, niente di più programmatico per lui che la verità sia la parola di Apollo: la parola e l’azione di Apollo – luce, armonia, potenza profetica.

La filosofia come ricezione e trasmissione della verità ha origine estatica e sciamanica. In quanto tale forma, in origine, un unico complesso con la poesia, il canto, l’incantesimo, la musica, il racconto, il ricordo, la meraviglia fascinosa e numinosa.

In secondo luogo, il numero, la struttura numerica proporzionale del reale, nel prosieguo dei tempi, viene a rendersi indipendente dal dio. Si laicizza, si immanentizza, si desacralizza. Preso questo abbrivio, la verità, pur distaccata dalla fonte che la autorizzava, ne conserva il prestigio e appare giustificata di per sé e autofondata.

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Ma non è stato e non sarà mai così nella sua reale essenza. Anche gli scienziati moderni più materialisti e empiristi riportano le loro costruzioni a un principio come che sia. Nel loro caso, il principio è presentato come convenzionale e ciò sembra bastare. Eppure le cose non si fermano lì, innanzitutto essi hanno sostituito il loro proprio prestigio di esperti a quello del dio. La verità, sosterranno Albert Einstein e Bertrand Russell, è quello che dicono gli esperti. Una fonte c’è sempre e il fatto che sia scesa in terra non vuole dire che non ci sia. Inoltre essi accompagnano lo ipse dixit a cui fanno appello con il prodigio, esattamente come Apollo.

Il prodigio sono i fatti, la prassi, il successo tecnico–pratico.

La prassi giustifica, conferma, autorizza. Ora, la prassi è nient’altro che la più recente incarnazione di Gea, la Madre terra, la natura sovrana. Ho detto incarnazione recente nonostante che di recente ci sia appena l’illusione ottica e l’abbaglio, Gea è sempre stata quell’insieme che i positivisti chiamano fatti. Per i greci essa era l’insieme chiamato « i molti », le cose dell’apparire al quale appartiene la vita degli uomini.

Del resto, dall’alba del pensiero scientifico i fatti non corrispondono alla bruta immediatezza. L’involucro dell’empiria è stato sciolto in particelle elementari sottostanti nascoste alla percezione ingenua e queste sono state tradotte in formule da un sofisticato processo di astrazione. I fatti si sono sciolti in serie di complesse sequenze matematiche certificate dai competenti.

In breve, il principio di verità moderno, pur avendo sostituito la tradizione sacerdotale con l’insegnamento dello scienziato laico, contempla egualmente il ricorso a un’autorità esterna, precedente, sovrapposta e garante.

Inoltre, ciò non toglie che la potenza del sapere veritiero continui a venire misurata sui fatti crudi. La sanzione della maggiore validità delle verità degli scienziati è offerta infatti dal successo tecnico (e conseguentemente industriale) delle loro scoperte e dalle trasformazioni che impongono alla terra. Il giudizio, in fin dei conti, permane saldo in pugno a Gea.

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Si potrebbe protestare che non va così e che gli scienziati scavalcano Gea e non si fermano alle apparenze.

Nell’impulso che spinge oltre la superficie del molteplice fenomenico potremmo perfino riconoscere l’azione del principio Dioniso.

Nel mito arcaico, il divino fanciullo giocando a guardarsi in uno specchio si riconosce drammaticamente smembrato nel molteplice e però, estatico e ironico, vede la vanità di quel rifrangersi.

Gli iniziati ai suoi misteri passano attraverso la sofferenza interna dell’uno che per essere uno è contemporaneamente molti e apprendono che il visibile è dominato dall’unità profonda dell’invisibile.

Dioniso è identico al dio Ade, la morte, l’oscuro che sta oltre il visibile.

Ma Dioniso è figlio di una delle personificazioni di Gea e tutti gli dèi sono generati da Gea. La passione esemplare del figlio riguarda il destino esemplare della madre. I suoi misteri sono il centro di quelli della grande madre.

E coloro che lo seguono entrano in un labirinto, entrano nelle viscere di Gea.

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Quando parliamo di verità stiamo ancora sotto lo stesso clima dei primordi e ancora cerchiamo il dio che ci parla.

Il cambio di direzione che crediamo di prendere dipende, poi, da quale interprete si alzi a farsi ascoltare e riferire.

Non fa lo stesso che sia il sacerdote o lo kshatriya; questi ha interessi pratici prevalenti, non è un contemplativo e da immerso nel mondo deve spiegare il mondo.

Nel suo caso si tratta pertanto di un’ottica diversa e di un contesto più drammatico.

La specifica diversità di questo interprete che ha scalzato il genere dei sacerdoti poggia in particolare sul processo a causa del quale la verità è diventata un’arma e uno strumento di combattimento fra gli dèi.

Lo kshatriya emerge in concomitanza dell’accrescersi del sentimento della pericolosità del terreno sul quale ci si muove; ormai molti sono gli dèi che parlano e che parlano lingue diverse e in contrasto, ognuno di essi recluta un suo esercito e fra gli uomini prevale la preoccupazione che, alla vigilia della prova finale, non bisogna sbagliare in quale arruolarsi.

Giuseppe Lampis


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