Nuccio D’Anna
Simmetria Edizioni – Roma 2011
Molti aspetti della disciplina e della metafisica pitagoriche, così come riportate dagli allievi diretti o indiretti della scuola di Crotone quali forse si consideravano i neoplatonici Proclo e Giamblico, traggono vita e ispirazione dalle preesistenti filosofie e religiosità d’ordine orfico. In questo testo si dimostrano efficacemente tali tesi sulla base di un vastissimo apparato documentale e presentando alcune conclusioni del tutto originali o, comunque, scarsamente analizzate in Italia.
La religiosità misterica nella Magna Grecia è intimamente connessa alla presenza di un vasto corredo di culti iniziatici. Queste forme di religiosità sono a volte osmotiche ed altre volte contrastanti con la stabile cosmologia olimpica. I rappresentanti dei culti misterici hanno avuto, nel passato come fino ai nostri giorni, esponenti credibili e “imbonitori” a vario titolo, messi in ridicolo molto spesso dai rappresentanti di una cultura ufficiale. I famosi e misteriosi “goeti”, ad esempio, (purificatori e guaritori) collegati a culti molto remoti, sembrano evocare fortemente l’idea di uno sciamanesimo primordiale comune a tutta l’area pan-ellenica. Questi esseri, a metà strada fra il mago e il sacerdote, vantavano spesso filiazioni divine ed esiste tutta una cosmogonia primordiale che ne giustifica le potenzialità misteriche e salvifiche. Basti pensare ai culti relativi ai Dattili Idei (i “forgiatori”, gli esperti nell’arte del metallo) che, secondo alcuni sono alla origine dell’istruzione dello stesso Orfeo.
Nel testo di Nuccio D’Anna si fa grande attenzione alla divisione fra diverse cultualità, cercando di evitare i riduzionismi che portano a vedere qualsiasi misteriosofia primordiale presente nell’Ellade come riferentesi esclusivamente alla Demetra eleusina. Ed è proprio in tale contesto che viene testimoniata una fitta presenza di asceti vaganti di tradizione orfico-apollinea, (alcuni inseribili forse in vere e proprie confraternite, altri con un modus operandi assolutamente eremitico) che guarivano, consigliavano, purificavano città e persone, traevano responsi, ma soprattutto mantenevano la loro ascesi e il loro isolamento dal mondo, vagando da una parte all’altra della Grecia e delle regioni limitrofe.
In questo volume viene più volte citato il papiro di Derveni (vicino all’attuale Salonicco), scoperto nel 1962, contenente un particolare testo orfico da cui è possibile trarre una cosmogonia assai diversa da quella classica. Assai interessanti risultano le numerose considerazioni semiologiche sul significato del nome di Orfeo (dal “solitario”, all'”orfano”) ad indicare una condizione di tipo misteriosofico, propria dell’essere chiamato con questo nome; in questa chiave diventa illuminante l’excursus filosofico e semiologico che D’Anna propone fino ad arrivare ai “bukoloi” così importanti nella tradizione augustea attraverso i versi di Virgilio. In tale contesto i miti che narrano la fine di Orfeo narrati da Eschilo e ripresi più tardi da Virgilio e Ovidio parlano di una tradizione in cui il suono creatore espresso dal canto di Orfeo permane benefico e illuminante, nonostante provenga dalla sua testa mozzata che transitando dal fiume Ebro “feconda” il mondo con la sua parola divina.
Anche l’universale simbolismo dell’uovo assume nell’orfismo una funzione particolare connessa al “tempo” e alle numerose cosmogenesi orfiche; ed è interessante ricordare come lo stesso Aristotele parli del “vento” cosmico come attributo caratterizzante dell’uovo orfico. Questo uovo ritorna nel più volte citato papiro di Derveni richiamando la luce ierofanica e il concetto stesso di “Phanes”, al centro della figura circolare perfetta, il grande sole di un “tempo anteriore al tempo”.
Non si può prescindere, in questa analisi da un confronto e uno scambio fra dottrine orfiche e dionisiache. Il testo ne pone in evidenza assai più i contatti e le osmosi filosofiche e religiose piuttosto che i contrasti; pone inoltre in luce il progressivo passaggio da una “normale” civiltà di re-sacerdoti, ad una in cui la misteriosofia orfico-iniziatica diventa l’unico mezzo realizzativo e reintegrativo. A tale proposito vengono richiamati il Cratilo, il Fedone e le Leggi di Platone, e mostrato come la ripresa, da parte del grande filosofo, di una dottrina orfica influenzi poi tutta la storia della filosofia occidentale. Parliamo di quella dottrina relativa al corpo come “tomba dell’anima” dove il percorso del myste è teso a svincolarsi da tale prigione e presentarsi come essere rinnovato spiritualmente e sciolto da tale legame.
Partendo dall’analisi delle cosmogonie più arcaiche e dal primordiale smembramento del fanciullo-Dioniso, viene inoltre mostrata la funzione della contrapposizione fra i Cureti (i famosi guerrieri danzanti “scelti” da Giove per il mantenimento del ritmo celeste) e i sette Titani (antichi signori “decaduti”, testimoni di un precedente ordine sacro), nell’aspetto più “sciamanico” del mito dionisiaco. Acquistano perciò un particolare valore entrambe le versioni della fine del dio: quella relativa alla dispersione delle membra e quella relativa alla loro “bollitura”, in parallelo al mito orfico che si avvale di una analoga dispersione delle parti del corpo. Troviamo inoltre numerose varianti sulla fine del cuore del dio. Per alcuni viene posto sul tripode di Delfi, per altri sarà sepolto a Libetra, ai piedi dell’Olimpo, custodito dalle Muse. Anche i giocattoli del dio (la palla, l’astragalo, il rombo, lo specchio, la trottola, le “marionette”, ecc.) assumono nuovi significati soprattutto alla luce di alcuni recenti ritrovamenti a Fayyum (Papiro di Gurob del II sec. a.C.), dove appare chiaro come l’azione dei Titani sia tesa a sconvolgere l’ordine creato da Zeus, dileggiando quei simboli dell’ordine celeste.
Assai interessante è l’analisi che questo testo propone sugli ambienti dei medici traci della scuola di Zalmoxis, che sembrano precedere la diffusione dell’Orfismo e che, ben lontani dalla medicina ippocratica, proponevano una terapia che congiungeva sempre la purificazione del corpo a quella dell’anima, in una continua osmosi tra magia e ritualismi di tipo estatico.
Fondamentale, a questo proposito, è la funzione iniziatica di Mnemosyne, i cui significati si estendono a coprire le ragioni stesse del percorso post mortem, e costituiscono contemporaneamente la vera e propria chiave di volta del passaggio salvifico del myste. Appoggiandosi su un esteso apparato documentale, D’Anna ci conduce a considerare la funzione “fisiologica” della fonte fredda, Mnemosyne, la fonte della memoria, ponendo in evidenza i passi di vari autori in cui il respiro diventa una tecnica per “espiare le antiche colpe” e per liberare l’anima “rinfrescandola”. A tal proposito è importante sia la citazione di Aristotele (De Anima) che alcune espressioni del più volte citato Papiro di Derveni che conservano, con buona probabilità, memoria dell’esistenza di concezioni collegate alla funzione liberatoria delle tecniche del respiro. Altrettanto importante risulta l’analisi che viene fatta sul significato del soffio e dello pneuma. Sia nella Grecia orfica come più tardi nella Magna Grecia pitagorica esisteva indubbiamente un uso del respiro quale supporto della meditazione, dell’ascesi e della guarigione secondo modalità assai simili a quanto proposto nelle dottrine estremo orientali.
Apartire dalla metà del testo, si iniziano ad analizzare alcuni dei principali aspetti delle dottrine ascetiche dell’orfismo (dall’astensione dai cibi animali alla metempsicosi, dottrina in realtà completamente estranea alla religiosità olimpica).
Il passaggio dall’orfismo al pitagorismo viene preceduto da una disamina cosmologica e da un inevitabile confronto con le dottrine orientali, ponendo innanzitutto in evidenza come, sei secoli prima di Cristo, in tutto il mondo siano sorti personaggi e “scuole” che”riordinano” le antiche leggi, ripristinano e sistematizzano i riti, secondo uno schema straordinariamente vasto (vengono ricordati i miti e le tracce storiche relative a Numa, Confucio, Lao Tzu, Zaratustra, ecc.).
In Grecia dopo il tempo mitico di Dioniso, di Orfeo e, a latere, dello stesso Pitagora, arriveranno il monismo di Parmenide e la speculazione di Eraclito, particolarmente vicina, quest’ultima, all’orfismo e ad una dimensione filosofica polivalente. Ciò provocò sia a lui come a Pitagora, accuse pesanti di sviluppare l'”arte dell’inganno” (Diogene Laerzio). Ma, nello stesso tempo, la politica aristocratica alla quale si rifaceva Pitagora accentuò le critiche di Eraclito assai legato agli arcaici principi dei re-maghi dei tempi mitici delle polis greche, in cui il “contatto” diretto ed estatico con la natura divina non transitava attraverso metodologie o filosofie ascetico-iniziatiche.
L’insegnamento di Pitagora ha creato comunque una ventata straordinaria in tutto il mondo classico. Le “vite”, oltre a descrivere i suoi innumerevoli viaggi corrispondenti ad un numero inimmaginabile di iniziazioni ricevute, ne proclamano le origini orfico-apollinee e in alcuni casi operano una vera e propria deificazione. Nel testo di Nuccio D’Anna si riassumono efficacemente le principali “dinastie” ipotizzate dagli agiografi e si giunge ad un denominatore comune in cui il rapporto Orfeo-Pitagora appare in tutta la sua straordinaria potenza spirituale. Ci si sofferma a lungo su quel coacervo di maestri-maghi-shamani di cui abbiamo accennato all’inizio e che gli allievi della scuola crotoniate spesso proposero come suoi insegnanti, altre volte come suoi allievi (dallo straordinario Ferecide, autore di una delle più straordinarie cosmogonie, al misterioso Aglaophamos).
Negli studi sull’orfismo-pitagorismo non sono separabili l’aspetto filosofico da quello mistico-religioso. E’ questo forse l’alveo più completo nel quale il termine “scienza sacra” trova giusta collocazione. Caratteristica del pitagorismo è la differenziazione gerarchica dei vari gradi sapienziali, tutti compresi in quella sacralità iniziatica in cui non è divisibile il sacerdote dal sapiente, dall’uomo di autentica scienza. A suffragio di tale tesi è determinante il brano di Porfirio in cui si parla della iniziazione che Pitagora riceve a a Creta, nell’antro Ideo, da parte di Morgo. In tale brano si evocano riti arcaici che sicuramente erano patrimonio dell’Ellade primordiale e soprattutto si pone in evidenza come, all’origine dei culti orfici e pitagorici ci fossero i misteriosi “Dattili Idei” che attraverso una “pietra di fulmine” o “pietra celeste” purificano l’iniziando. I misteri di Morgo, di cui parla Porfirio con grande lucidità, dovevano essere pervenuti in qualche modo fino a lui attraverso una stabile “catena iniziatica”, e una cosa che appare subito straordinaria è la somiglianza di determinate liturgie arcaiche con altre ritrovabili nelle cultualità primordiali di altre tradizioni. Il testo si sofferma poi lungamente sulle “prescrizioni” formali, sui “comportamenti” pitagorici e sulla loro formulazione attraverso i symbola che ne occultano il senso, spesso dietro una apparente semplicità etica.
Viene quindi specificamente riesaminato il simbolismo di Mnemosyne in una chiave eminentemente pitagorica, ricordando la funzione che Diogene Laerzio (il quale rinvia a sua volta ad un testo perduto di Polyistore) fa assumere alla dottrina del sangue, come veicolo animico, e a quella del “soffio” o respiro, come elemento vivificatore e animatore del sangue stesso. Approfondendo tale teoria si scopre un utilizzo del “pneuma freddo” che secondo Filolao, stabilisce la salute (Ygheia), e l’equilibrio del ciclo vitale in tutte le sue valenze materiali e spirituali. Il fatto che Alessandro Polyistore richiami una tal dottrina, in cui l’anima acquista forza e si riposa su se stessa, e in cui i “ragionamenti” sono considerati “soffi” dell’anima, richiama tutta una serie di termini, spesso affrettatamente tradotti in passato, che ipotizzano un’articolata metodologia realizzativa basata anche sulle tecniche del respiro e sul “refrigerio dell’anima” soccorsa da tale respiro “fresco” a causa di Mnemosyne. Suggerisce inoltre D’Anna, appoggiandosi a Louis Gernet e Jean-Pierre Vernant, che l’espressione “prapìdes” invece dell’usuale e accademico “potenza del suo spirito” ha il significato di “diaframma”. E quindi si giunge a formulare una struttura operativa metodologico-pratica, vicina a quelle tecniche rituali richiamate dagli Yoga-sutra e dagli altri testi fondamentali della cultura del lontano Oriente.
Il saggio di Nuccio D’Anna termina con un capitolo dedicato alla sapienza numerica dei pitagorici. Si passa dal senso della geometria all’uso del numero quali strordinari mezzi di rappresentazione e veicoli di conoscenza della dimensione cosmica. L’ascolto dell’armonia delle sfere era un modo per penetrare nel mistero della creazione diventandone parte attiva e riversando l’armonia percepita in ogni atto celebrato sulla terra.