Per non pensarci

Giuseppe Lampis

1
Paura del futuro

Per non pensarci, l’umanità destoricizza e sociologizza: non c’è storia, c’è solamente il presente.

Sileno alla presenza del re Mida – Giulio Bonasone (Bologna, -1576)

Storia? No, antropologia. Se non c’è passato, non c’è futuro e non ci si pensa. Il mondo è in mano a chi c’è ora. L’uomo può sentirsi il protagonista. Ma l’eterno presente è una caricatura dello illud tempus del mito e l’uomo non è il protagonista, è un narciso patetico dall’ego ipertrofico.

L’abolizione del passato non era il principale obiettivo, era un passaggio necessario intermedio per escludere il futuro. Del resto, il tempo heideggeriano era un rimbalzo del passato.

Ma Heidegger aveva respinto la interpretazione del tempo di Agostino per il quale il tempo è il presente, la presenza. Il tempo originario, che sta sotto a tutti e tre i tempi, e non è il presente, è l’uomo nell’attimo della decisione, è – anzi – la decisione dell’uomo.

La decisione è l’anticipazione della morte e con ciò rieccoci al cristianesimo preplatonico di Paolo.

2
Prendere le distanze

Eppure, per non avere paura della morte o, a rigore, per non avere angoscia, basta avere disgusto per il mondo, vederne la miseria, la vuotezza, la contraddittorietà. Meglio non essere nati e se nati andarsene prima possibile… – rivela il Sileno torturato da Mida.

Purtroppo il cane si morde la coda perché l’angoscia che si vorrebbe evitare è invece necessaria per il disgusto e per prendere le distanze dal mondo banale e nientificante.

3
Lusinghe

Entropia, distruzione di energia. Non c’è bisogno di studiare le formule della fisica, basta guardare semplicemente alla propria vita. Distruzione di energia, decadenza.

Ciò, per la fisica, in un sistema chiuso.

Se, invece, ci fosse un apporto dall’esterno e il sistema non fosse chiuso? è la lusinga del cristianesimo.

4
Decadenza?

L’Europa, il pensiero europeo, è stata presa quasi dall’inizio dal problema della decadenza e della dissipazione. Ha reagito con varie forme di antropocentrismo, ciascuna sostanzialmente ruotante sulla figura dell’uomo perfetto o dell’uomo dal gesto perfetto.

Però l’impresa era minata dal suo germe. Il problema vero non era la decadenza, era la mancanza di coraggio che aveva portato a una dissimulazione deformante e autoconsolatoria.

5
Salvo in vita?

Antropomorfismo, antropocentrismo, (monismo).

Anche Heidegger alla fin fine risulta cristiano, nonostante la critica al platonismo che del cristianesimo è la base. Non basta rimuovere il platonismo per rimuovere il cristianesimo. Al contrario, può accadere di riformulare il cristianesimo secondo un’intuizione dionisiaca alla Nietzsche.

L’esserci di Heidegger che è essere–per–la–morte è una versione dell’uomo che si salva in vita.

Per Heidegger la vita dell’uomo ha valore in sé proprio in quanto mortale essenzialmente, e questo è Paolo di Tarso. Il massimo dell’antropocentrismo.

Una sorta di Cartesio applicato non al nodo della verità metafisica o logica ma al nodo dei nodi esistenziali: il senso della vita.

La morte che conferma il valore del mortale è più del dubbio che conferma il dubbio. Più dubito e più il dubbio è assoluto, più muoio e più sono mortale e la morte è l’assoluto.

L’assoluto kantiano viene trovato nel cuore del più fragile e dubbioso dei dubbi. Più l’uomo è debole, effimero, transitorio, definito, condizionato, e più è perfetto. Un’acrobazia stupefacente!

En ma fin est mon commencement. Platonismo puro, però.

6
Mito e follia

L’eroe è il modello esemplare dell’umanità che non si arrende al nichilismo. Esso identifica il destino caratteristico dell’uomo sorto nell’età della distretta che, facendo appello alle forze migliori, cerca di non restare schiacciato dall’attrazione gravitazionale della sua condizione problematica, esposta al pericolo e alla pena.

Il mito dell’eroe non è il mito della fuga e della rinuncia, non lo è nemmeno nella veste dissimulata del mito dell’uomo santo che respinge lontano la condizione umana come un inganno e un’illusione ottica, pretendendo di avere in sé un nucleo essenziale inattaccabile dal male e dal dolore.

Pitagora di Samo

Il mito dell’eroe è il mito del nato da donna che affronta la nuda verità di un destino mortale arduo fino allo scacco.

Ma è un mito. Nell’antica Grecia e nelle antiche tradizioni indoeuropee appartiene a una importante corrente religiosa che esalta gli antenati, gli uomini straordinari, i sapienti e i dèmoni tutelari, – una gamma di personificazioni che in fondo sono varianti della stessa figura.

Ma è un mito. Chiunque creda di poterlo incarnare è un folle. Vivere il mito, questo mito, direttamente in prima persona e senza mediazioni è psicosi.

Direbbe Jung che è la possessione da parte dell’archetipo.

Il mito è un modello, una spiegazione, una rivelazione che si vivono innanzitutto nel racconto, difesi e sollevati in un’aura che li assegna a un tempo speciale. Il mito si vive in un tempo sospeso e in uno spazio speciale, dove l’indifesa esistenza quotidiana sia sottratta alle sue radiazioni e non ne venga incenerita.

Colui che pretenda di integrarlo con un salto diretto è solo un povero Don Quixote votato a prendere dolorose batoste.

Proprio il mito dell’eroe insegna, peraltro, che l’eroe è per tutti ma non è da tutti. Sentire il fascino di un orientamento e partecipare alla sua verità non significa essere il protagonista che lo crea.

In definitiva, l’uomo si sente, può sentirsi, chiamato a risolvere un problema universale se non addirittura dell’universo. Ma, se è vero che egli sta sotto l’azione di forze sommergenti e universali, ciò che tuttavia gli va incontro ha pur sempre la forma di un problema determinato e individuato.

L’universo si presenta a chiedergli il conto in una scena circostanziata e nelle vesti di uno specifico concreto.

Una modalità, questa, ancora più dirompente e difficile di un problema universale offerto sullo stesso piano dell’universale. L’asimmetria tra la strabordante pressione gravitazionale del grande problema e la piccola porta su cui si appunta per sollecitare risposte è disarmante. Il mito dell’eroe rappresenta una strada. Ma è una strada problematica irta di svolte e interruzioni che si prestano a essere prese per la mèta finale.

7
L’impresa più difficile

Gerarchia e forza vitale. Una connessione profonda che abbiamo dimenticato.

Riordinare la polis (o la urbs) sulla scala delle forze che reggono il mondo. Si può dire ed è stato detto in molti modi: da pax deorum a uniformarsi al logos; non pretendiamo tanto, ci basterebbe l’applicazione della massima di Pitagora a ciascuno il suo.

L’ordine della polis deve rispondere e corrispondere alle grandi potenze della creazione.

L’ubbidienza deve essere l’ubbidienza al potere che mai tramonta.

Giuseppe Lampis


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