Dioniso – Archetipo della vita indistruttibile

Karl Kerényi 
Adelphi, Milano 1992, pp.518

Tit. orig.: Dionysos. Urbild des unzerstörbaren Lebens
Langen – Müller, München-Wien 1976

Maria Pia Rosati

La traduzione italiana dell’opera di Karl Kerényi su Dioniso è un avvenimento di grande rilevanza in quanto ci permette di venire in contatto con uno studio che ha accompagnato tutta la vita del grande e geniale conoscitore della mitologia greca e che quindi ne rivela il metodo rigoroso e appassionato.

Dioniso Opera fotografica di Lorenzo Scaramella
Dioniso
Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

«È un libro questo che potevo scrivere solo a condizione di mettermi dal punto di vista dello storico: sia dello storico delle religioni che dedica la massima considerazione ai miti tramandati, agli atti di culto e al calendario delle festività, sia dello storico della cultura greca e addirittura minoica che abbia scelto come proprio compito la trattazione di una particolare sfera della vita[…] in cui un elemento essenziale […] che per me è la cultura trovava la sua pura e adeguata espressione nella religione».

L’opera del grande studioso del mondo greco ci pone in contatto attraverso la narrazione dei miti, la presentazione delle immagini, la commemorazione dei culti, con l’essenza di Dioniso nella sua piena espressione quale doveva essere vissuta dai Greci. E venire in contatto con l’essenza del grande misterioso dio, figura centrale della religione greca e prima ancora di quella minoica, ci permette di prendere consapevolezza delle esperienze più significative che costituiscono il nucleo della nostra cultura europea. Nessun’altra divinità è infatti presente quanto Dioniso nella tradizione sensibile che l’antichità ci ha conservato. Kerényi ci segnala a proposito numerose vestigia, ancor oggi vive ed animate, quali la grande creazione dell’architettura greca, il teatro sacro a Dioniso, e la vite, anch’essa sacra al dio, la cui coltivazione è sempre più significativamente estesa ai nostri giorni.

Già Nietzsche, nel 1886, aveva indicato come per comprendere ed immaginare il mondo greco sia cruciale la domanda: che cosa è il dionisiaco?

Tuttavia è stato difficile sottrarsi all’idea del dionisiaco legato all’ebbrezza e espressione dell’irrazionale quale ci viene dalla tradizione nietzscheana, seguita del resto da Erwin Rohde e dalla maggior parte dei filologi e degli storici delle religioni. Walter Otto, nella sua monografia Dionysos: Mythos und Kultus, aveva visto in Dioniso il dio folle e il dio ebbro, il dio dell’estasi e del terrore, del furore e della felice liberazione, del selvaggio frastuono e del profondo silenzio, colui che dona all’umanità la ‘follia creatrice’, l’apportatore di gioia, il ‘datore di ricchezza’ e tuttavia il predestinato alla sofferenza e alla morte, il dio del tragico contrasto il cui avvento porta con sé la pazzia. A questi aspetti del Dio sottolineati da W. Otto, Kerényi antepone il tratto vitalistico, fondamentalmente erotico di tutto ciò che è dionisiaco. Le sue affermazioni si basano sull’antichità, peraltro affermata anche da W. Otto, del culto di Dioniso in Grecia e più precisamente la sua appartenenza alla cultura cretese-micenea.

L’opera di Kerènyi si divide in due parti: la prima dedicata alla cultura cretese, ‘il preludio cretese’, la seconda intitolata ‘il mito e il culto dei greci’.

La cultura cretese micenea è per Kerényi dominata dall’archetipo della vita indistruttibile (zoé), come dimostrano le copiose testimonianze iconografiche, ma soprattutto quella della lingua, espressione di un’esperienza elaborata su un piano linguistico prefilosofico, prima ancora di essere ripresa e sviluppata nel pensiero.

Pur se riconducibile alla stessa radice, si differenzia nella forma fonica il vocabolo bios, vita individuale e caratterizzata, dunque vita finita, della quale fa parte anche la morte, thanatos. Al contrario zoé, proprio in quanto vuol esprimere quel minimo vitale rappresento dal ‘tempo dell’essere’, dallo scorrere eterno della vita che non può ammettere l’esperienza della propria distruzione, esclude il thanatos, la morte.

Kerényi ci fa vedere come questa discrepanza tra il bios e la zoé, la vita finita e la vita infinita, chiara e presente già nella lingua, trovi espressione nella religione, «in un tempo puro – il tempo della festa – e in un luogo puro: sulla dimensione di avvenimenti che non si svolgono nella dimensione dello spazio, bensì in una dimensione propria, una dimensione potenziata dell’uomo, nella quale si attendono e si cercano le apparizioni degli dei». La religione cretese, come ce lo dimostrano le staordinarie testimonianze artistiche, piene di fascino e di eleganza, era caratterizzata da un gioioso riconoscimento della divinità della natura e si esprimeva in un inno alla vita. Gli artisti minoici coniugando la massima naturalezza alla suggestione della trascendenza ci mostrano un mondo di piante e di animali, epifanie divine nelle profondità dei mari o del cielo, rese possibili dal particolare clima estatico dell’isola che favoriva capacità visionarie. Il dionisiaco è per Kerényi, sulle orme dell’archeologo Bernhard Schweitzer, proprio questa capacità di entrare in contatto con la forza trascendente della natura, che sovrasta l’uomo e può far violenza al suo sentimento.

La ricerca sul calendario (festivo) porta Kerényi ad individuare l’antica origine dell’anno per la civiltà egiziana, nella notte del solstizio d’estate, quando con il sorgere della stella Sirio il Nilo comincia a crescere, portando nuova fecondità.

Questa usanza sarebbe passata nella Creta Minoica. Al sorgere mattutino dell’astro di Sirio, avveniva un evento della massima importanza, riferito dalla tradizione greca: la nascita di Zeus, partorito da Rea, in una grotta piena di api che divennero sue nutrici. L’avvenimento era accompagnato da un grande bagliore e dal traboccare del sangue (ichor di colore biancastro nel caso di dei) della nascita di Zeus.

Si tratterebbe secondo Kerényi della interpretatio graeca del racconto cretese di un avvenimento eccezionale: un’illuminazione che si sprigionava da oscure profondità, dall’irrompere della vita, vissuta come la nascita di un fanciullo divino nelle sacre grotte dell’isola, alle quali rimase legato un culto di carattere misterico, segreto (aporrhetos thisia) illuminato da fiaccole. L’avvenimento doveva consistere nella fermentazione di una bevanda inebriante a base di miele, alimento archetipico e potenziatore per eccellenza della zoé, e che nel culto greco mantenne a lungo il primo posto, solo in un secondo momento sostituita dal vino che aveva analoghe, se non superiori, capacità inebrianti. Il segreto della vita, simboleggiato dal miele e dalla sua fermentazione assunse forme nella religione di Zeus che passarono poi nella religione dionisiaca.

In questo paziente lavoro archeologico di riscoperta dei vari strati successivi della formazione del nucleo cretese del mito di Dioniso, Kerényi ritrova, oltre alla ‘visione’, l’ebrezza del ‘miele’ e quindi del vino, altre ‘sindromi’ particolari, altri contesti nei quali si esprimeva la zoè: toro, donne e serpenti. Sono infatti ampiamente noti l’identità del dio con il vitello e con il toro, animale-dio e ad un tempo vittima sacrificale per eccellenza, come con il keras (corno di bue) con il quale originariamente si beveva il vino.

Ugualmente noto il culto estatico che le donne tributavano al dio e la familiarità di menadi e baccanti con il serpente, forma della zoé, della vita indistruttibile, animale da tempo antichissimo legato a Creta al culto. Spesso veniva portato in mano dalle sacerdotesse o intrecciato a corone di edera, pianta caratteristica della religione dionisiaca al pari della vite.

Appartengono al culto dionisiaco anche la maschera, una delle manifestazioni del dio, e la capra, tipico animale sacrificale e sostituto del dio. Tali elementi, presenti anche in un sigillo di Festo, collegano Dioniso con la figura di un signore degli animali, cacciatore e domatore di animali vivi (gr. Zagreus), che richiama Zagreus, il dioniso orfico.

ADioniso è legata come figura femminile Arianna, la divina sovrana di Creta, la signora del Labirinto, luogo in cui secondo la leggenda era rinchiuso il minotauro, mostro dalla testa taurina. Le nozze di Dioniso ed Arianna presentano un lato mistico che ritroviamo nel più noto mito dei misteri eleusini. Arianna, la figlia di Minosse e di Pasifae, al pari della Core eleusina, sarebbe una duplicazione più giovane della madre, la quale genera un torello, vittima sacrificale, figlio mistico che a sua volta sposerà soltanto la madre secondo un mito che, riportando generazione e nascita all’interno della medesima coppia, evidenzia l’ininterrotta continuità della zoé.

Quindi, nel momento in cui nella creta minoica il capodanno era segnato dal sorgere mattutino della stella Sirio e insieme dal manifestarsi della luce, del miele e del vino che apparivano da una caverna, a Cnosso nel palazzo si snodava una danza che portava al centro del labirinto (mondo sotterraneo) in cui la Signora generava il figlio misterioso, garantendo la possibilità del ritorno alla luce. Già nell’antichità era del resto nota l’origine cretese dei misteri eleusini, samotraci e traci. Kerényi deduce quindi «l’origine minoica di una parte essenziale, anzi probabilmente del nocciolo di tutto quanto venne attribuito al mitico cantore Orfeo».

Arianna era certamente la grande dea lunare del mondo egeo. Così come Dioniso è la realtà archetipica della zoé, l’ininterrotto flusso vitale, Arianna è la realtà archetipica del farsi dell’anima, per cui una creatura vivente, trascendendo il suo stato di seme, diviene un essere individuale. Del resto proprio la zoè aspira all’anima ed ogni concepimento dà luogo ad una psicogonia. Questo sarebbe il grande evento a cui presiede la Grande dea, figura archetipica della religione cretese, che attraverso la dualità di madre e figlia rappresenta l’identità delle dee greche Demetra e Persefone.

La coppia divina Dioniso ed Arianna rappresenterebbe l’eterno insorgere e l’eterno trascorrere della zoé, rispettivamente nella generazione e lungo la generazione dei singoli esseri viventi, e mentre la zoé assumerebbe la forma maschile, la genesi delle anime assumerebbe quella femminile.

Lo studio attento delle feste biennali con cui veniva celebrato Dioniso in Grecia rivela una logica interna che è quella della naturale dialettica primordiale tra la zoé e il suo opposto, la morte. Il culto di Dioniso, strettamente connesso con il mito, esprimeva la realtà della zoé, la sua indistruttibilità, ma anche il suo dialettico legame con la morte. Eraclito riconobbe nel culto del Dio quella dialettica degli opposti: « Se essi non allestissero il corteo in onore di Dioniso e non rivolgessero a lui il canto fallico, questo sarebbe il più vergognoso dei comportamenti. Ma lo stesso dio è Ade e Dioniso, per il quale infuriano e si comportano come Baccanti» (22 B 15).

Grazie all’opera di Onomacrito (VI sec.), scrittore orfico autore di teletai (iniziazioni), si ebbe una nuova diffusione della religione e del culto di Dioniso attraverso l’Orfismo. Secondo il suo racconto dopo i primi tre sovrani del mondo – Urano, Crono, Zeus – Dioniso regnò come quarto. I Titani che lo accompagnavano, su istigazione di Era, lo smembrarono e ne mangiarono la carne. Zeus fu preso da collera e colpì i Titani con il fulmine. La fuliggine dell’esalazione dei loro corpi si trasformò in materia e da essa nacquero gli uomini. I corpi degli uomini sarebbero dunque dionisiaci, in quanto formati dalla fuliggine aithalé (vapore sublimato) dei Titani che avevano mangiato la carne di Dioniso.

Nel culto, in due cerimonie mistiche rivivevano dunque sia il mito dei Titani, sia il mito dell’assassinio del fanciullo divino. Questi in forma di capretto fu sbranato, diviso (sparagmos) in sette parti che furono gettate in un paiolo a bollire, per poi essere arrostite, ma che però non vennero mai consumate, perché Zeus intervenendo bruciò l’arrosto e coloro che stavano arrostendo.

Il senso della cerimonia appare evidente a Kerényi: un capretto doveva morire affinchè la vite potesse nuovamente crescere sulla terra. Essenziale era naturalmente il rapporto simpatetico tra la vittima, il dio Dioniso, e la vite o il capretto. «La continuità e l’indistruttibilità della zoé non venivano insegnate, ma presentate con la massima naturalezza: in un piccolo frammento concreto dell’altrettanto concreta vita universale».

Il sacrificio di Dioniso, con la sua complessa struttura, dominata da una rigorosa logica interna costituì un momento basilare della storia della religione greca e da essa derivarono sviluppi di grande portata quali l’orfismo e la tragedia greca, nata dalle feste dionisiache degli ateniesi.

La tragedia, la creazione spirituale, prima che artistica, che prende spunto dal caprone sacrificato, si contraddistingueva per due elementi aggiuntivi importanti: il mito dell’uccisione dell’animale, contemporaneamente rappresentante del dio e suo nemico e il tentativo di spiegarlo come punizione per l’animale colpevole.

L’attenta lettura della tragedia di Euripide Le baccanti mostrerebbe secondo Kerényi come il vero soggetto della primitiva tragedia fosse non tanto Dioniso, quanto Pentheus, ‘l’uomo della sofferenza’, nemico e contemporaneamente vittima del dio.

La tragedia, come del resto la commedia e la Commedia Nuova debbono essere guardate come forme spiritualmente elevate della religione dionisiaca, una religione che vedeva il bios, la vita dei singoli, attingere dalla zoé la propria esistenza e la spe-ranza di sopravvivere dopo la morte.

Queste forme artistiche che avevano origine dalle famose feste religiose, soprattutto dalle Grandi Dionisie e dalle Lenee, sono state forse il germoglio più fecondo di tutta la cultura occidentale e il saggio di Kerényi ci aiuta a ristabilire con esse un contatto vivo.

Maria Pia Rosati


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