Greci e Cristiani

Giuseppe Lampis

 

Sarà proprio vero che l’ellenizzazione del cristianesimo ha frenato la sua potenza espressiva e ne ha soffocato la spinta religiosa?

Con un simile giudizio si presenta una disposizione polemica verso quella che in effetti fu la sistemazione concettuale della dottrina cristiana, sistemazione la quale avrebbe prodotto l’esito di raggelare il calore della fede primitiva e di trasformare il dio vivente in un dio da teologi o da filosofi.

Cristo Pantocrator - Mosaico della basilica di Cefalù
Cristo Pantocrator – Mosaico della basilica di Cefalù

Eppure, non possiamo non chiederci cosa resterebbe alla fine dell’architettura del messaggio cristiano se da esso espungessimo il logos e ancora la triade, lo spirito, la sapienza che salva, la immortalità dell’anima, la via, la città, la chiesa, e lo stesso concetto di dio.

Proviamo tuttavia a concedere egualmente in ipotesi che tale depurazione del credo sia possibile senza con ciò stesso togliere dal testo il contenuto dell’annuncio. In questo caso, il residuo ancora apparirebbe, per così dire, ellenizzato. E resisterebbe l’impressione che, in fondo, la costruzione del fenomeno religioso cristiano si è alimentata del grande filone della cultura e della speculazione greca non per acquisirne una veste di concetti esteriori che niente di sostanziale avrebbe potuto aggiungere al suo nòcciolo duro, ma invece e soprattutto per incontrarsi con la vita che stava sotto quei concetti e che in quei concetti si ritrovava interpretata e conservata.

Proprio coloro i quali si professano certi della potenza dello spirito radicale del cristianesimo (cristianesimo, si badi bene, dal nome di un concetto – il concetto di Cristo – e non gesuismo, parimenti a buddismo o a confucianesimo, dal nome personale del fondatore), stranamente si smentiscono da soli quando lo denunciano prematuramente irretito e deviato dal decadente ellenismo, dalla morente classicità, dalla sfinita filosofia dei graeculi.

Essi dipingono le cose come se un limpido fiume entrato nella palude del tardo mondo antico ne sia rimasto irrimediabilmente inquinato. Però le cose stanno in altro modo.

Procediamo con ordine. E’ vero che la religiosità dell’ecumene ellenistica si incontra con le correnti cristiane a un punto critico. Ambedue i filoni sono a un punto critico: i cristiani escono da una crisi che li ha disorientati e delusi (la croce, la dispersione, il mancato avvento del Regno) e le varie chiese stanno rielaborando il tema iniziale. Paolo imprime una svolta allo sforzo con una originale attenzione alla questione del rapporto con il mondo, del rapporto con la legge, del rapporto con la storia, perfino alla questione della morte immortalante. Giovanni, Giacomo, Pietro rappresentano altre interessanti prospettive; nondimeno tutti, da Paolo a Pietro, sono alle prese con uno scacco che li ha feriti in profondità.

Il mondo greco, o greco–romano, o ellenistico, ne ha viste tante e, per esso, tutti costoro sono una delle tante. Non risulta che questo mondo se ne stesse agonizzante ad aspettare di venire rinsanguato da alcuni circoli neogiudaici, considerati culturalmente elementari e molto periferici.

Il neoplatonismo, per definire così con una formula sintetica e scolastica la cultura dell’ecumene tardo–antica, coordinato con la visione imperiale, riproponeva e sosteneva una vittoriosa religione della luce. O, più precisamente, una religione della vittoria della luce, una religione dell’eterna risurrezione del sole. Sullo sfondo di questa religione si manteneva una profonda rielaborazione del tema del conflitto con le forze della negazione e della morte che offriva all’uomo un orizzonte sensato per l’esercizio della propria iniziativa.

Se non si porta in primo piano la tensione intrinseca della spiritualità ellenistica non si giunge a capire su quale terreno mai si sarebbe potuto verificare l’incontro con le sette e con le chiese cristiane. Il nodo critico è rappresentato dal Dio sofferente, ovvero dalla divinità del dolore. E per ridirlo con più chiarezza: la divinità della morte, e quindi la dimensione sacra dell’umano non–essere, era il tema con il quale era inevitabile che si misurasse il tormentato complesso del giudaismo.

Non c’è niente di estrinseco, in breve, nell’incontro tra le chiese cristiane della crisi ravvivate dall’universalismo paolino e le espressioni religiose della civiltà ellenistica. Inoltre, volendo verificare se ciò che è accaduto sia stato il soccombere di qualcuno di fronte a qualcun’altro, si deve cominciare con l’escludere che lo spirito greco abbia abdicato a sé stesso con un gratificante e liberatorio suicidio. E’ metodologicamente fuorviante guardare agli avvicendamenti dello spirito e alla incessante riformulazione di espressioni figure passioni come a una decimazione darwiniana di specie zoologiche.

Infine, si presenta un altro tipo di problema. Questo: se non sia stato lo spirito cristiano, con la sua ossessione religiosa della certezza e della definitività, a inquinare lo spirito greco e a deviare, per un lungo giro di secoli, la peculiare tensione tra uomo e dio della quale esso era espressione.

Ora, nei nostri tempi, nel cristianesimo c’è qualcosa di esaurito e di inservibile. Qualcosa del suo messaggio non dice più niente ed è pura retorica. L’uomo non ha smesso, alla distanza, di scoprirsi ancora inquieto e ricercante, dubbioso e insoddisfatto; e si scopre tale proprio di fronte al problema iniziale, quello per il quale il cristianesimo provò a indicare la soluzione.

Siamo risospinti irrimediabilmente in alto mare. E in un’epoca di rottura riaffiora l’esigenza di tornare indietro a ritrovare i passi di un dio che credevamo sul nostro sentiero e che invece si allontanava.

Questo dio non riesce a essere il sempre risorto senza essere anche il sempre morente.

Egli può parlare all’uomo se (e perché) l’uomo gli è simile e lo sente in sé e con sé, può parlare all’uomo innanzitutto come morente e mortale. L’idea che la mortalità compenetri di sé la più riposta dotazione dell’uomo appartiene alla quintessenza della coscienza greca.

L’uomo dell’eone attuale per essa è mortale perché non possiede la sapienza. Proprio nel livello più alto, quello del pensiero, l’uomo si presenta bisognoso e cercatore. Il logos gli si pone di fronte con la potenza invalicabile della contraddizione e gli impone un compito tragico. Il problema del rapporto con dio si manifesta come un compito tragico.

Giuseppe Lampis


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