Immagine del cuore e canto dell’anima (Da una conferenza tenuta nella sessione autunnale 1996 delle Eranos Tagung, ad Ascona, Svizzera)

Giorgio Moschetti

Prassi musicale e prassi terapeutica sono accomunate da diversi fattori: sono entrambe forme di conoscenza simbolica; sono entrambe esercizi di liberazione e potenziamento dell’immaginazione, poiché promuovono situazioni nelle quali essa può spontaneamente agire e coagularsi nelle immagini; sono entrambe esercizi di attribuzione di senso a gesti e comportamenti; sono entrambe attività trasformative, attraverso le quali perveniamo alla scoperta-conoscenza delle modalità umane dell’essere, delineandone più compiutamente ed in modo più differenziato la presenza al mondo; infine sono entrambe accomunate dall’importanza del cuore quale modalità di fondo dell’esserci e dell’atteggiarsi, del porsi verso, sia nell’accogliere in sé il mondo sia nel disegnarvisi attraverso i gesti. Entrambe necessitano di questo interiore lavoro strutturante operato dallo sguardo del cuore, che connette, anima, dà senso e vita a quanto gli si presenta.

MoschettiIntendo tratteggiare due insiemi di esperienze, che sintetizzo con le espressioni: Immagine del Cuore e Canto dell’Anima. Esse ricalcano la dualità del mio operare. Credo che sarà facile riconoscervi i due momenti yin e yang del pensiero cinese, sempre intimamente intrecciati nel generare qualunque processo, sebbene necessariamente separati sul piano discorsivo.

Immagine e Cuore collegano il contesto psicologico a quello artistico, mentre l’espressione Canto dell’Anima mi è stata suggerita da un verso di “Sailing to Byzantium” di Yeats, a sua volta incontrato per la prima volta anni fa come epigrafe di “ Re-visione della psicologia ” di James Hillman.

Altrove ho precisato alcuni nessi profondi che legano prassi psicoterapeutica e prassi musicale1. Voglio ricordare soltanto la conclusione di quel discorso, che sintetizza quei nessi in termini operativi:

«Ecco allora uno dei grandi compiti del lavoro psicologico: modulare il linguaggio plasmandolo sulla complessità psicologica, rendendolo malleabile ed espressivo come quello musicale, riavvicinarlo al canto. La parola, il suo corretto uso, l’appropriata intonazione: la giornata dello psicologo è fatta di queste cose, il suo compito principale è promuovere un linguaggio nel quale circoli della musica. Non si tratta di insegnare alla lettera a fare musica, anche se questo sarebbe comunque un notevole risultato: si tratta di destare la musica interiore al linguaggio, di restituire alla parola quanto abbiamo esiliato nella musica .»2

Immagine del Cuore

Parole molto simili a queste sono già risuonate ad Eranos. Nell’agosto del 1979 James Hillman presentò la sua conferenza “ Il pensiero del cuore ”, aprendola con un toccante ricordo di Henri Corbin, mancato proprio l’anno prima. Ora come allora Immagine del Cuore non è certo la rappresentazione-raffigurazione del muscolo cardiaco, bensì l’immagine psichica che nasce dal cuore, prodotta dal cuore, da quel cuore che, come precisava Hillman, è «la sede dell’immaginazione, mentre l’immaginazione è l’autentica voce del cuore »3.

Hillman aveva messo a fuoco di quali luoghi umani sostanzialmente fosse metafora “cuore” nella nostra cultura: aveva parlato del “cuore leonino”, che è:

« la mia umanità, il mio coraggio di vivere, la mia forza e la fierezza della mia passione. Grazie a lui niente mi è estraneo; tutto può essere accolto nel suo regno di dignità. Le mie virtù più nobili emanano dal cuore: la lealtà, l’audacia eroica, la compassione… »4

del “cuore di Harvey”, la pompa meccanica: «… un complicato meccanismo e l’arbitro segreto della mia morte .» 4; poi ancora del “cuore di Agostino”, come de

« il mio amore, i miei sentimenti, il locus della mia anima e del senso della mia persona. E’ il luogo dell’interiorità più intima, dove risiedono il peccato, la vergogna, il desiderio, ed anche il divino imperscrutabile… » 4.
Nella seconda parte del suo intervento, promuovendo un nuovo ruolo del cuore, Hillman aveva poi parlato di «cuore della bellezza», e sullo sfondo del mito di Eros e Psiche aveva esclamato:

«… psiche è la vita delle nostre risposte estetiche; quel gusto delle cose, quel fremito o tormento, quel disgusto o quell’espandersi del respiro, quelle primarie reazioni estetiche del cuore, sono l’anima stessa che parla. … Psiche è bell.» 5

All’incessante attività del cuore è legata la nostra capacità di cogliere la bellezza: attraverso le improvvise variazioni dei suoi palpiti, il cuore ci avverte del risveglio dell’anima al contatto con la bellezza, con le sue reazioni estetiche ci fa fremere di meraviglia di fronte al venire al mondo della creazione in ogni istante, ci consente l’intimità con le cose del mondo, le trasforma in quelle entità animate che noi possiamo amare e dalle quali possiamo sentirci amati.

MoschettiPer concentrare l’attenzione sulla bellezza della creazione come “necessità ontologica”, come tramite mediante il quale siamo “attirati nella vita”, Hillman aveva allora ritenuto di doverla staccare dall’arte e dalla storia dell’arte ormai divenuta museo, lontana dalla vita, quasi traditrice di quei “disperati turbamenti dell’anima” che tuttavia l’avevano nutrita:

«… per bellezza non intendiamo abbellimenti, ornamenti o decorazioni; non intendiamo l’estetica come ramo minore della filosofia, relativo al gusto, alla forma e alla critica d’arte… E neppure possiamo confinare la bellezza nei musei, nell’abilità dei maestri di violino, nella professionalità dell’artista … come se la bellezza fosse divenuta prerogativa esclusiva di Apollo, analisi di forme invisibili come quelle della musica, riservate a conoscitori e argomento di dispute sulle riviste di estetica.. .»6.

Noi rivolgeremo invece lo sguardo proprio all’esperienza artistica. Quale che sia il modo in cui ne veniamo toccati, è dal contatto estetico del cuore con essa (“quel gusto delle cose, quel fremito o tormento … quell’espandersi del respiro” che sono “l’anima stessa che parla”), è da quell’aisthesis – che Hillman sapientemente fa risalire ad “assumere”, “inspirare”, quasi un “rimaner senza fiato”, – che scaturisce la meraviglia, lo stupore, quella “trasfigurazione della materia” che è acquisizione di senso, redenzione. Pensiamo alle scoperte culturali nell’adolescenza, ai primi estatici incontri con i grandi messaggi letterari, musicali o pittorici. Proprio con quei palpiti, in un istante che mai più dimenticheremo, divampa una lacerante nostalgia che è anche struggente intimità, avvertiamo improvvisamente e inaspettatamente una voce là fuori che ci trapassa nel più profondo, ci grida quello che senza saperlo abbiamo sempre saputo, ci riconosce e con questo legittima il nostro esistere, ci conferma che è una buona cosa, una festa per il mondo, il fatto che noi siamo nati, una voce che ci ama e ci comprende e che a sua volta può essere riamata e compresa. Negli ultimi secoli abbiamo ridotto l’universo a oggetto inanimato, ed insieme abbiamo imparato a trattare noi stessi come cose:

« … si cominciò a capire la natura,» dice Rilke «quando non la si capì più: quando si capì che essa era l’altra parte, indifferente, incapace di accoglierci …»7

Ma proprio l’esperienza artistica ci ricorda che è ancora possibile accedere a quel modo di relazione con il mondo improntato al cuore. Quando dico che quella musica, quell’opera, quel romanzo mi piace, sto dicendo che sento rappresentato là, fuori di me, qualcosa del me più intimo ed unico: l’abituale barriera fra me e mondo vien meno, il mondo mi appare più umano, più accogliente, meno indifferente. In quell’infelice mi piace, specie di passe-partout che nella nostra miseria linguistica usiamo per tutte le occasioni, dalle più banali alle sublimi, in realtà riaffiora, anche se solo per un attimo, una struggente pienezza del vivere che indoviniamo ancora possibile, nonostante tutte le ragionevoli smentite della vita quotidiana.

Poi ancora: non dobbiamo accantonare l’esperienza artistica, perché proprio avvicinandosi ad essa nella sua specificità, sviluppando le nostre potenzialità con l’apprenderne la prassi in prima persona, possiamo imparare a guardare al mondo con il cuore, a trattarlo come entità animata ed a dialogare con le cose.

Qualunque fare artistico d’altronde, che si possa dire realmente artistico s’intende, non è altro che il disperato tentativo umano di inseguire proprio la bellezza, quella stessa bellezza che è la grazia degli animali e delle cose che semplicemente “sono”. Certo che Bellezza con Corbin è «Deus revelatus, teofania suprema, autorivelazione divina»10, condizione della creazione come manifestazione: lo è per questo lago meraviglioso, che talvolta con il suo incanto ci abbaglia, come per una sonata di Mozart. Dove la sonata di Mozart è il tentativo umano di esserci con tranquilla semplicità, come sa farlo il lago o l’animale.

Tutto ciò che si può propriamente chiamare produzione artistica è sempre rivelazione, Canto dell’Anima, venire al mondo con necessità ineluttabile, presenza che deve rivelarsi ed esprimersi, perché manifestarsi è il senso profondo del suo esistere, il suo compito. È, per dirla con Adolf Portmann quando parla delle forme animali:

«.. la presentazione di sé come rivelazione ai sensi della Innerlichkeit, l’interiorità essenziale. La forma visibile è un’esibizione di anima …»9

Cuore della bellezza” è dunque il tentativo di riprendere a dialogare con il mondo, di rianimare quel mondo che abbiamo ridotto a congerie di funzionali oggetti privi di anima, affinché impariamo a trattare noi e il mondo stesso con più anima, a rispettare e ad amare di più, insieme alla nostra, l’anima delle cose e degli animali. Noi abbiamo gradualmente perduto questo rapporto con l’anima, sempre più velocemente a mano a mano che ci inoltravamo in questo secolo sciagurato: l’avevamo un tempo, in altre epoche, quando di ogni cosa sapevamo vedere il dio, quando la realtà spirituale aveva un grado di densità, di immediata, ovvia evidenza pari a quello che oggi ha per noi quella materiale.

Proviamo allora ad attingere al significato di “cuore” in queste altre epoche, nelle culture antiche. Questo vuole dire abbandonare per un momento la psicologia per addentrarci nella metafisica e nella religione. René Guénon ci guida nella tradizione indiana:

«… torniamo a ciò che è nascosto, secondo la tradizione indù, nella caverna del cuore: è il principio stesso dell’essere, che, in questo stato di ‘avviluppamento’ e in rapporto alla manifestazione, è paragonato a quanto c’è di più piccolo … mentre esso in realtà è quanto c’è di più grande, così come il punto è spazialmente infimo e anzi nullo, per quanto sia il principio dal quale è prodotto tutto lo spazio . ..» 10

Questo principio dell’essere, lo Atmâ, è probabilmente una cosa sola con il Regno dei Cieli della tradizione cristiana. Se una delle Upanishad recita:

« … Questo Atmâ, che risiede nel cuore, è più piccolo di un grano di riso, più piccolo di un grano di orzo, più piccolo di un grano di senape, più piccolo di un grano di miglio, più piccolo del germe che è in un grano di miglio; questo Atmâ che risiede nel cuore è anche più grande della terra, più grande dell’atmosfera, più grande del cielo, più grande di tutti i mondi insieme …»11

ad essa fa eco Matteo:

« … il Regno dei Cieli è simile ad un granello di senape, che un uomo prende e semina nel proprio campo; questo granello è la più piccola di tutte le sementi, ma quando è cresciuto è più grande di tutti gli altri ortaggi, e diventa un albero, in modo che gli uccelli del cielo vengono a posarsi sui suoi rami …»12.

Qui “cuore” è qualcosa che, pur attraverso psiche ed immaginazione, si apre ad un’ulteriore dimensione. Qui “cuore” contiene il principio, il centro stesso dell’essere e insieme il fondamento del suo manifestarsi. Entriamo a pieno titolo nella metafisica come scienza del reale in sé, considerato al di là delle apparenze sensibili immediate concernenti la spazialità.

Proprio l’insistere sulle dimensioni, “più piccolo di…”, “più grande di…”, comune sia al testo indiano sia a quello cristiano, suggerisce che questo principio dell’essere non abbia nulla a che vedere con l’esperienza della spazialità degli oggetti materiali, sia altra cosa incommensurabile ad essa.

Si tratta in effetti di un altro esperire, che piuttosto può trasformare la materia redimendola in tutt’altro dalla condizione di inerte aggregato privo di significato. Nel passo di Matteo il simbolo del granello di senape viene sviluppato: l’indiano Atmâ-spirito-divino-dimorante nel cuore, più piccolo del già piccolo granello di senape, diventa qui il Regno dei Cieli, sempre metaforizzato da un granello di senape, che può però crescere al punto da diventare albero su cui si posano gli uccelli del cielo. Questi fanno pensare alle figure angeliche, che a loro volta possiamo interpretare come stati superiori dell’essere, mentre l’albero mantiene il consueto significato di asse del mondo che congiunge la terra con il cielo.

A partire dal cuore, sviluppando questo principio piccolissimo del cuore, ci apriamo agli stati superiori dell’essere, agli uccelli-angeli, che sono le tappe del nostro cammino verso la Liberazione o verso il Regno dei Cieli, come chiamiamo la meta a seconda delle nostre caratterizzazioni culturali.

Dunque cuore come centro dell’essere, suggeriscono le culture antiche, ed insieme ad esse anche l’odierno linguaggio comune: “… nel cuore della città …”, diciamo, “… nel cuore della notte …”. Ma nonostante il persistere di antichi significati latenti nel parlare quotidiano, nei tempi più recenti il cuore-centro dell’essere e della personalità è stato spodestato dal cervello, almeno nella nostra prospettiva scientifica.

D’altronde il decennio delle neuroscienze in corso in questi anni offre sviluppi straordinari nella conoscenza dei meccanismi cognitivi, della percezione, dell’immagazzinamento, modificazione ed uso strumentale dell’informazione ad opera del cervello, per conseguire un migliore adattamento ambientale.

Ma non appena usiamo questo linguaggio cadiamo nella fantasia biologica, che immagina l’essere umano come organismo naturale impegnato nel suo adattamento all’ambiente ed in definitiva monodimensionale.

Questa fantasia-rappresentazione dell’essere umano non è certamente falsa, resta però da vedere se è completa.

Se l’assumiamo come nostro punto di vista, le realtà cui ci accennano le Upanishad o Matteo, lo stesso “cuore della bellezza” semplicemente svaniscono, non esistono più, ed abbiamo tutte le ragioni per irriderle come fantasticherie, espressioni di un passato prescientifico ormai superato.

Certo il cervello è profondamente implicato nell’elaborazione dell’informazione tratta dall’ambiente, nella consapevolezza e nell’attività psichica in generale. Tuttavia nella prospettiva che Guénon ci addita, quella delle culture antiche alle quali vogliamo prestare attenzione, è il cuore-centro dell’essere umano la vera sede dell’intelligenza-intelletto, mentre il cervello è piuttosto connesso con la ragione, strumento di realizzazione.

Questo presuppone naturalmente la neoplatonica subordinazione della ragione all’intelletto. L’intelletto divino decade a ragione nell’atto in cui forma ed organizza il mondo. Sul piano umano esso rappresenta la suprema facoltà della visione mentale, mentre la ragione è condannata dalla sua minore perfezione al tortuoso cammino del procedimento discorsivo.

Guénon così ci ricorda la differenza fra ragione ed intelletto:

«… la ragione infatti, che è solo una facoltà di conoscenza mediata, è la modalità propriamente umana dell’intelligenza; l’intuizione intellettuale può essere definita sopraumana perché è una partecipazione diretta all’intelligenza universale che, risiedendo nel cuore, cioè proprio al centro dell’essere dove è il suo punto di contatto con il divino, penetra quest’essere dall’interno e lo illumina con il suo irradiamento …» 13.

Cuore che illumina dall’interno per irradiamento dunque, fonte di conoscenza attraverso l’intuizione intellettuale. Il viraggio simbolico cui è stato soggetto il cuore negli ultimi secoli è anche evidente da altre osservazioni dello stesso Guénon, che individua nell’iconografia del cuore due tipi di rappresentazione: il cuore raggiante, emanante luce, ed il cuore fiammeggiante, emanante calore. La devozione al Sacro Cuore, ampiamente diffusa verso la fine del ‘600 ad opera della Santa Maria Margherita Alacoque, era già tuttavia presente nell’antichità cristiana e nel medioevo. Le più antiche raffigurazioni del Sacro Cuore sono del tipo raggiante, mentre le più recenti, dal 17esimo secolo in poi, sono del tipo fiammeggiante. Sul piano simbolico, la luce si riferisce alla conoscenza ed all’intelligenza, mentre la fiamma si riferisce al calore, a sua volta fortemente associato alla sfera affettiva. Guénon rileva che:

«.. le rappresentazioni del cuore raggiante … le più antiche … risalgono per lo più ad epoche in cui l’intelligenza era ancora tradizionalmente riferita al cuore, mentre quelle del cuore fiammeggiante si sono diffuse soprattutto con le idee moderne che riducono il cuore a corrispondere ormai solo al sentimento …»14

Oggi viviamo razionalità ed affettività come funzioni separate e spesso conflittuali, una attribuita integralmente al cervello e l’altra al cuore (almeno nel linguaggio comune: nella prospettiva scientifica tendiamo invece a ricondurre tutta la vita psichica al funzionamento globale del cervello, mentre il cuore è ridotto alla sua funzione meccanica di pompa). Nella maggior parte delle situazioni lavorative tendiamo a considerare l’affettività come disturbante la razionalità, mentre nelle situazioni affettive la razionalità fa la parte del guastafeste. Concepiamo un’affettività indebolita e falsificata dall’esercizio della razionalità e una razionalità che per essere tale deve disfarsi il più possibile degli affetti: se sento non penso e se penso non sento. Possiamo far risalire questo atteggiamento all’inizio dell’epoca scientifica, quando con l’affermarsi dell’osservazione oggettiva la soggettività con i suoi affetti divenne intralcio per la conoscenza.

Per quanto questa posizione sia ancora considerevolmente diffusa, va tuttavia detto che recentemente la neuropsicologia sta sviluppando una diversa attenzione per i rapporti fra affettività e razionalità. In un lavoro del ‘9515, lo psicologo americano Daniel Goleman introduce la nozione di “intelligenza emotiva”, teorizzando che l’affettività giuochi un ruolo fondamentale non solo genericamente nella vita mentale umana, ma particolarmente nella intelligenza.

Goleman sostiene le sue tesi basandosi su recenti risultati delle neuroscienze, mostrando come mente emozionale e mente razionale, semiindipendenti, riflettano il funzionamento di circuiti cerebrali distinti anche se interconnessi. L’ipotesi è che i due tipi di mente, razionale ed emozionale, siano indispensabili uno all’altro, che per rendere al meglio debbano funzionare in modo collegato: noi dobbiamo imparare a sviluppare non soltanto con la mente razionale, come già facciamo attraverso gli studi scolastici, ma anche quella emotiva, il che invece non ci viene insegnato per nulla.

L’epigrafe in apertura del primo capitolo del testo di Goleman la dice lunga sullo spostamento di prospettiva di cui il suo lavoro è testimonianza. Proviene da Piccolo Principe di Saint-Exupéry:

«… non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi …» 16.

Con cuore intendiamo dunque la capacità di vedere l’essenziale, ciò che va oltre l’apparenza sensibile, l’intuizione intellettuale di cui parlava Guénon. Ma cuore è anche potenza creatrice. Ricordiamoci dell’ enthymesis greca, corrispettiva dell’ himma sufi, che tanti anni fa Corbin ci descriveva come:

« l’atto di meditare, concepire, immaginare, progettare, desiderare ardentemente e cioè aver presente nel thymos, che è forza vitale, anima, cuore, intento, pensiero, desiderio.»19

“Meditare, concepire, immaginare, progettare, desiderare ardentemente”: questo complesso di funzioni è di pertinenza del cuore, o, in altre parole, con cuore metaforizziamo la sinergia operativa di tutti questi atteggiamenti interiori, modi dell’operare psichico. Qui, nel cuore dell’himma, c’è qualcosa di più del solo spontaneo fantasticare: c’è un meditare, che è saper guardare con profonda concentrazione, saper vedere, saper accogliere in sé tutti gli aspetti del contemplato permettendo che esso fecondi e risuoni nell’immaginazione, saper ascoltare nel profondo senza alterare con schemi precostituiti o aspettative; c’è un concepire, misterioso attimo notturno in cui Eros dall’altro mondo risveglia Psiche e la lascia inquieta come Cherubino nelle Nozze di Figaro, quando canta

«… ricerco un bene fuori di me

non so chi’l tiene, non so cos’é.

Sospiro e gemo senza voler,

palpito e tremo senza saper;

non trovo pace notte, né dì,

ma pur mi piace languir così . ..;»

c’è un progettare, che è un costruire virtuale con sollecitudine, attenzione, cura affettuosa e desiderio ardente a partire dal concepito, un trepido accompagnarlo nello sviluppo per condurlo verso la manifestazione con la quale dargli concretezza di essere vivente. In questo cuore dell’ himma, che proviene dal sufismo, troviamo tutti gli ingredienti del creare, e del creare artistico della nostra cultura.

Tutti questi cuori sono infine metafore di modi della presenza che dobbiamo saper risvegliare in noi e far convivere: chiamo Immagine del Cuore il prodotto del loro operare.

Rivediamo questi modi della presenza, ricordando che non solo isolatamente sono attivi, ma anche sinergicamente. Il “mio coraggio di vivere” deve così sapersi accompagnare alla consapevolezza che esiste in me un “arbitro segreto della mia morte”; non deve certo precludermi la mia “interiorità più intima, dove risiedono il peccato, la vergogna”; deve sapersi liberare nei palpiti del cuore di quella bellezza che è la più libera dimora dell’anima; deve fedelmente condurmi presso quello “spirito divino”, che sa redimere l’universo e mi consente di incontrare gli angeli, fino a quella “intuizione intellettuale”, conoscenza che scaturisce dall’intrecciarsi di rigore e di affetti, luce e calore finalmente l’uno all’altro necessari e non più antagonisti, come nel contrappunto dell’Offerta Musicale; deve infine saper sostenere quell’himma che sa generare immagini durature e sfolgoranti come il diamante. Noi dobbiamo trovare, o meglio ricostruire, questo cuore-centro della persona, piccolissimo tabernacolo nel quale conservare con dedita cura immagini sacre, tempio interiore guardando dal quale sacralizzare il mondo e riconsiderare tutta la prodigiosa ricchezza della tecnologia e della cultura moderna; luogo del silenzio assoluto al centro del frastuono della città, il cui lavorio è l’elaborazione dell’immagine; laboratorio permanente infine, vas alchemicum, luogo intimo ed estremo dell’umano a tu per tu con il divino, dove si progetta e si costruisce incessantemente anche al di fuori della nostra attenzione, ma che è nostro compito tenere bene in ordine e “spazzato con la scopa”.

MoschettiL’esperienza artistica è dunque, abbiamo detto, una possibilità ancora sopravvissuta per accedere al modo di relazione con il mondo improntato al cuore. Alla luce del cuore laboratorio permanente proviamo a seguire più da vicino come, inoltrandosi in una prassi artistica, dal confronto ravvicinato con l’ opus, si sviluppi l’Immagine del Cuore. Ci riferiremo in particolare alla prassi musicale, senza pretendere però che quanto diremo sia di sua esclusiva pertinenza.

La musica concentra tutto il suo messaggio nell’invisibile, in quell’essenziale che ci ricordava Saint-Exupéry, quello che si vede solo con il cuore. Prescinde facilmente dalla parola e dalla vista, è tempo disegnato, mentre il contenuto di quel disegno sono i voli, gli arabeschi, le esplorazioni della nostra anima. Vedremo in seguito come sia sostenibile, o lo sia stato un tempo, che musicale è la più intima essenza, nostra e delle cose del creato.
Presso i Sahel un cantore si reca da un fabbro per farsi costruire un liuto. Quando lo strumento è terminato ed il suonatore comincia ad usarlo, s’accorge che suona male. Il fabbro gli dice:

«… questo è un pezzo di legno. Non può cantare, se non ha un cuore. Sei tu che devi dargli un cuore. Devi portare il legno sulle spalle quando vai in battaglia. Esso deve risuonare quando si solleva la spada, deve assorbire il sangue che cola, sangue del tuo sangue, fiato del tuo fiato. Il tuo dolore deve divenire il suo dolore, la tua fama la sua fama ..18.

La mattina sediamo davanti alla partitura: ne guardiamo le pagine prima ancora di toccare lo strumento. Questo è lo sguardo del cuore. Nei concerti, è il raccoglimento prima dell’esecuzione, quando l’artista deve riaprire il dialogo con il luogo del cuore, raccogliersi per quel ri-cordare che, nell’antico significato etimologico, non è altro che ri-mettere nel cuore, ossia nella memoria. Ricordiamo il “”cuore di Agostino”? il “locus della mia anima”, il “senso della mia persona” soltanto attraverso la memoria si sostanziano. Il canto (manifestazione dell’essere) sarà possibile solo quando l’Immagine del Cuore sarà riaccolta in noi ben nitida e presente. Noi traduciamo tutto questo con ricordare, nel senso di aver tutto a memoria, o in memoria alla maniera del computer. Ma dimentichiamo che gli oggetti più stabili nelle stanze della memoria sono strutture cognitive cementate da affetti, che la memoria principale è memoria di affetti.

«…agli inizi degli eventi importanti …» scrive Yeats « … – all’insorgere dell’amore, al principio di una giornata, all’inizio di qualsiasi lavoro – vi è un momento in cui la nostra comprensione è più completa di quanto non lo sarà nuovamente sinché tutto non sia terminato … » 19

Questo iniziale ri-cordare mattutino è un dolce riordinare nel cuore: l’occhio ripercorre i segni sulla carta ed al suo tocco leggero si risvegliano le immagini, alcune sciolte, plastiche, nitide, articolate e già espressive, altre opache e confuse. Alle prime abbiamo elargito gran copia di doni psichici, in primo luogo il nostro tempo, la nostra attenzione, il nostro sguardo del cuore che congiunge sentire e costruire. La musica conserva ancora quella integrazione di calore e luce, di rigore e di affetti, di cui parlavamo prima a proposito dell’intuizione intellettuale. L’autentica espressività in essa si fonda e si può sviluppare soltanto a partire dalla precisione costruttiva.

È scandendo il tempo musicale con entusiasta vigore, alternando tensione e distensione nel nostro corpo, che diamo necessità alla struttura ritmica della frase. È con la accurata attenzione a tutte le varietà di accenti, a quelli metrici (relativi al tempo, principali e secondari), ritmici (relativi alla successione dei suoni), di culmine (che segnano il punto di massima o minima elevazione della melodia), di alterazione (che evidenziano la momentanea presenza di suoni cromatici rispetto alla tonalità di base) … è insomma dal seguirli tutti insieme con sollecita attenzione dando a ciascuno il giusto peso, che emerge poco alla volta la sostanza espressiva della frase e con essa la sua necessità, che è la stessa cosa del suo senso.

Attraverso la giusta attenzione alla molteplicità di accenti la frase diventa finalmente vivente, specchio espressivo della realtà umana, essenzialmente poliritmica e polifonica.

Tutte le dimensioni musicali richiedono la nostra attenzione: il susseguirsi di intervalli che costituiscono la melodia, di ognuno dei quali va colto esattamente il colore ed il contributo espressivo-architettonico; il dialogare fra successive parti melodiche; il tappeto erboso dell’armonia, per non parlare del sussurro delle voci secondarie (pensiamo a Schumann, pensiamo alla sostanziale dimensione polifonica della maggior parte della musica). Allestire l’immagine interiore di una pagina di musica da camera, concepirla immaginativamente insomma, è impresa complessa quanto gestire centinaia di persone per mettere in scena un’opera lirica. Dobbiamo ac-cordare tanti elementi, farli con-cordare armonicamente e non a caso tutti questi verbi provengono da cuore.

Ogni inizio è confine fra quotidianità e canto: qui si situa lo sguardo che ricompone l’Immagine del Cuore. Agli inizi, non dobbiamo dare nulla per scontato sulla nostra conoscenza: ricordiamoci Eckhart, l’“uomo che nulla sa”, l’uomo “vuoto della propria conoscenza”, che sa dimenticare di sapere. Solo questo sguardo vuoto di ogni intenzione, aurorale, che sa vedere realmente le cose perché non antepone lui stesso le cose da vedere, solo questo sguardo del cuore permette il venire alla luce delle immagini riguardando la pagina. Ancor più se su di esse abbiamo passato molte ore, se avremo saputo dimenticarle a quello sguardo le immagini ci correranno incontro, con la felicità della prima volta: se una pagina è ferma da tempo, alla prima, e solo alla prima, ripresa splende sempre di nuova luce. Forse è in gioco qui la fortuna del principiante, che per la prima volta si applica ad un’attività per lui nuova e ottiene risultati insperati, che destano meraviglia.

Ma succede solo la prima volta, quando senza alcuna aspettativa vi si applica con totale candore. La seconda volta comincia a scontare senza fallo tutta la sua incapacità e capisce quanto dovrà duramente lavorare per raggiungere di nuovo quel felice primo risultato.

Abbiamo detto: lo sguardo ripercorre la partitura, attraverso di essa ri-cordiamo la musica, la rimettiamo nel cuore, dal quale a contatto con la quotidianità era scomparsa. Glenn Gould aveva un’incredibile capacità di passare dalla conversazione sulla musica al suonare, immediatamente, senza un istante di pausa, quasi che l’Immagine del Cuore per lui non dovesse mai essere ricomposta perché sempre costantemente presente, sempre immediatamente, e letteralmente, a portata di mano.

Il confronto con l’opera è una questione di conoscenza, è una possibilità di sviluppare quella conoscenza che porta ad essere uno solo con il conosciuto, e che ci insegna a riconoscerci in tutto ciò che esiste. Cosa significa conoscere? Da bambini lo sapevamo, da grandi faticosamente tentiamo di ritrovarlo. E di qualunque contenuto di studio potrai dire di conoscerlo se saprai gestirlo in questo modo. Coomaraswamy ci ricorda che:

«… secondo la mentalità indiana, un uomo conosce soltanto quando conosce a memoria; se per ricordare è costretto a ricorrere ad un libro, le sue sono nozioni di cui ‹ha sentito parlare› …» 20
Alla partitura, allo strumento dobbiamo dare un cuore: ce lo suggerisce il fabbro Sahel, come si fa. Deve vivere con noi, dobbiamo condividere con lei il nostro respiro, le nostre pene, il nostro sudore quotidiano: qualunque pratica artistica richiede il lungo apprendistato, la quotidianità di piccoli passi, la capacità di reggere la fatica indovinando lontana la soddisfazione. Nella musica la disciplina è severa: quanti dicono in buona fede di amarla, ma poi arretrano spaventati davanti al solfeggio, basilare come la conoscenza della parola lo è per il poeta, ma spesso così irriducibilmente ostico come la matematica! Eppure l’odiato solfeggio altro non è che impratichirsi con la gestione del tempo, imparare a disegnarlo, plasmarlo, comprimerlo e dilatarlo per forgiarlo nel ritmo, associandolo allo spazio tramite i movimenti del corpo. Forse la sua osticità per chi non è musicista sta proprio nella natura del suo materiale, quel tempo inevitabilmente associato alla morte, nostra e di ogni cosa.

Quante volte nella psicopatologia al fondo di tanta sofferenza c’è proprio questa incapacità di permettere che il tempo fluisca attraverso di noi, c’è questa scarsa confidenza, familiarità con il tempo, questo continuo irrigidirsi per fermarlo nell’età dell’oro dell’infanzia. Eppure per poter vivere occorre accettare di essere trasportati dalla corrente del tempo. Qualunque apprendistato si svolge nel tempo e lo scandisce: se non ne accettiamo le fatiche, non riusciremo mai a riconoscere nel peso del lavoro quotidiano, come San Cristoforo, la luce che redime, il sacro bambino che rende la vita una festa perenne.

La pagina di musica richiede la nostra attenzione e sollecitudine, le sue note vanno riconosciute e salutate, aspettano di vivere, il loro vivere è esprimere. Esprimere che cosa? Esprimere è un verbo transitivo, ma nel campo artistico viene usato continuamente come se non lo fosse: si dice sempre espressivo, ma mai si dice di che cosa, qualcosa sia espressivo! Forse bisogna avere il coraggio di ricordare che l’essenza della musica è l’inno, che ogni inno è un canto di lode a Dio, che ogni creatura ha il suo particolare canto. La musica sulla carta è una successione di segni inerte, un’entità che attende di essere redenta, salvata dall’attribuzione di senso che solo la presenza umana può elargirle.

Sta a noi, questa attribuzione di senso, possibile solo attraverso l’intimità quotidiana, nel bene come nel male, in un incontro-scontro non solo con quanto di meglio sappiamo offrire, ma anche con quanto di peggio ci portiamo appresso. Non solo la partitura deve essere oggetto delle nostre più fervide attenzioni, ma deve anche passare per gli abissi della nostra disperazione.

Talvolta, quando la rabbia per i nostri limiti è troppo intensa, quando fatichiamo a controllare la nostra onnipotenza infantile, che da qualche parte pur sempre si annida come immaturo ricordo divino, tutte le nostre capacità di regìa per accordare fra loro gli elementi dell’immagine scompaiono, diventiamo incapaci di leggere una battuta, acquisizioni sicure fino a ieri diventano improvvisamente incerte ed instabili. Sembra addirittura un peso risvegliare quelle immagini, che potrebbero disciogliere tutto ciò ed avvicinarci agli angeli. Il confronto con l’ opus richiede però che accettiamo anche tutto questo: la nostra instabilità, distrazione, imperfezione, incapacità, inadeguatezza, tutti gli aspetti della nostra particolare debolezza e creaturalità.

La conoscenza se non è intima non è conoscenza: conoscere vuole dire essere uno con l’oggetto, che è tale, oggetto, solo quando non è conosciuto a sufficienza, quando il processo è in corso e l’oggetto è ancora estraneo. L’intimità con l’opera significa anche abitudine. L’opus deve poter venire a noia, deve poter diventare priva di significato per poi tornare ad averlo, come quelle «… melodie suonate cento volte di seguito senza che si scenda maggiormente nel loro segreto…» 21

Devo impararla sette volte e sette volte dimenticarla, diceva un insegnante di musica. E poi non basta ancora. Devo perderla e ritrovarla, devo potermi permettere di dimenticarla, perché con l’oblio essa va verso la terra di cui parla Tristano, dove non splende la luce del sole, quella oscura notturna terra che è la quotidiana anticipazione di cui disponiamo della morte. Saperla perdere è un addestrarsi al morire. Per essere uno con essa e legarmi più profondamente a lei, devo arrivare al punto di permettermi di perderla: ma per questo devo imparare ad accordare profonda fiducia a vita e a morte, devo saper dire sempre di più “un sacro sì”22, sempre più saper abbandonare ciò che il tempo mi porta via e sempre più saper accettare quanto mi offre. Se il gesto musicale, al pari della parola, è “trappola per il Tao”, certo il problema allora è prendere qualcosa, con questa trappola. Dovrò sperare un giorno di trovarla piena, ma dovrò anche imparare a non aspettarmelo, perché forse la trappola si riempirà quando avrò smesso di desiderarlo.

Studiare è adornare l’Immagine del Cuore, momento yin, il cui intrecciarsi con lo yang dà origine a tutti i processi: quando l’Immagine del Cuore yin è opaca, anche il canto, dispiegarsi yang, vien meno, il senso non circola sufficientemente, il tempo musicale smette di fluire e ripiombiamo con tutta la gravità del nostro peso nel tempo dell’orologio. Allora occorre accudire l’Immagine del Cuore, è inutile tentare un dispiegarsi del canto che non ha alcuna necessità: l’Immagine del Cuore attrae a sé, contiene, concentra l’attenzione, richiede di fermarsi sul particolare per tornirlo, lucidarlo, elaborarlo a lungo. Mentre quando il gesto ha catturato il Tao, allora dal tempo dell’orologio siamo trasferiti al tempo musicale, scompare la gravità e danziamo la condizione angelica. Mettere a fuoco l’Immagine del Cuore di ogni particolare significa trovarne il fondamento, senso e necessità. Se

« … l’aspetto yin dei fenomeni è il risultato di contrazione e concentrazione; è il loro positivo (da ponere: situare, porre) modo di esistenza … » 23

allora con l’individuazione del senso la frase, il frammento musicale trovano la piattaforma sulla quale poggiare e consentire la manifestazione nel canto.

Canto dell’Anima

Parlando delle culture pretotemiche e totemiche, Marius Schneider24 ci riferisce che secondo una concezione africana nell’uomo bisogna distinguere tre parti: corpo mortale, anima mortale ed anima immortale. L’anima immortale, la più profonda realtà dell’essere umano, si manifesta nel mondo sensoriale come fenomeno sonoro, ritmo-melodia.

Nell’antica Cina, e ancora oggi nell’Africa Equatoriale, si ascoltava con estrema attenzione il primo grido del bambino per riconoscere, dal timbro e dal ritmo della sua voce, la “melodia della sua persona”: attraverso di essa era possibile riconoscere anche l’antenato o il tipo animale che si manifestava in lui e che avrebbe determinato il suo nome. In seguito, per procacciarsi favore e protezione dal proprio animale-totem, il bambino fatto adulto doveva saperne imitare timbro, ritmo di voce e il maggior numero possibile di tratti caratteristici, attraverso un complesso di canti e di modalità espressive che divenivano sua intangibile proprietà. Questi costituivano la sua “canzone propria”, un modo di cantare assolutamente individuale, unico e inimitabile, impregnato del ritmo del proprio animale-totem. L’uomo aveva un atteggiamento di grande riverenza generosa verso l’animale-totem, poiché esso era fonte di forza, protezione potente e soprattutto di legittimazione dell’individuo: questi era per così dire sincronizzato e identificato, attraverso il suo nome e i suoi ritmi, con l’animale-totem.

Per il primitivo il piano acustico, immateriale e tuttavia sensibile, è il più alto di tutto il creato: è la temporalità dei fenomeni, più che la spazialità, ad avere per lui il più alto grado di realtà immediata. La manifestazione più esplicita della legge interiore di un individuo, ossia del suo ritmo, è quindi la voce, soprattutto quella non coltivata, nella quale si manifesta molto chiaramente il dinamismo fondamentale del carattere. Timbro, attacco ed espansione del suono, inflessione di ogni parola, ondulazioni della frase, movimenti stereotipati, interiezioni, pause, il modo innegabilmente individuale di cantare: tutto questo costituisce il ritmo sonoro dell’individuo e ne è la sua più fedele immagine.

Per questo lo studio del ritmo vocale sembra essere uno dei più antichi modi di ricerca nell’umanità primitiva, che considera la musica imitativa come la scienza per eccellenza. In tale prospettiva le vere sostanze dei fenomeni sono ritmi, mentre gli oggetti nello spazio sono solo recipienti-contenitori riempiti ora dall’uno ora dall’altro ritmo. Gli oggetti non hanno una loro realtà intrinseca come per noi, non hanno costanza nel tempo: piuttosto mutano continuamente, poiché in essi si riverbera il trascorrere dei grandi ritmi naturali.

Nello stesso modo gli esseri umani cambiano a seconda del ritmo particolare che li pervade di volta in volta: il loro aspetto esteriore conta poco, essenziali sono invece gli spiriti che li invadono, quei fenomeni dinamici complessi che chiamiamo ritmi.

I grandi ritmi naturali sono quindi sentiti come la più immediata realtà, mentre gli oggetti ne sono solo l’occasionale supporto per il manifestarsi. Così il ritmo della collera si ripete sempre uguale, nella tempesta come negli animali, nel mare come negli esseri umani. Fra l’onda del mare, l’ondeggiare dei dorsi di un gregge, il curvarsi che il vento imprime ad un gruppo di arbusti, la realtà in primo piano per il primitivo è il movimento di ondulazione comune a tutti questi fenomeni, mentre mare, gregge e alberi sono solo aspetti relativamente secondari. Solo il ritmo che penetra gli oggetti li eleva alla realtà, e la manifestazione più alta ed essenziale ne è il ritmo sonoro.

Il tempo diventa allora la dimensione fondamentale dell’esperienza, mentre lo spazio è ad esso subordinato. La musica, manifestazione sensibile del ritmo creativo, è forma suprema del conoscere, in grado di esprimere tutte le proprietà qualitative, intensive ed estensive dei fenomeni.

Ora l’uomo, pur legato individualmente ad un particolare ritmo attraverso la sua “canzone propria”, diversamente dagli altri esseri ha anche una natura essenzialmente poliritmica che gli consente di imitare moltissimi ritmi della natura, cosa che gli altri esseri non riescono a fare. Il linguaggio cantato costituisce allora il tentativo mistico supremo di penetrare o vivere la realtà, perché i ritmi del linguaggio e delle parole trasposti sul piano musicale sono la ripetizione, microscopica ma esatta, dei ritmi essenziali dei rispettivi fenomeni.

Quando l’essere umano parla cantando, in quel momento è una cosa sola con ciò che canta, ne incarna l’essenza, è ciò che canta. Si capisce quindi come il canto abbia una importanza dominante nella quotidianità: l’interazione con qualunque oggetto o animale avverrà tramite la parola cantata, qualunque fare sarà legato al canto, sarà solo possibile attraverso il canto.

Anzi ogni canto sarà un fare. Tutto il cosmo è vissuto come serie di piani vibranti, dei quali il più trascendentale è quello acustico, sicché la musica “grande” produce la stessa armonia del cielo e della terra, e grazie a quest’armonia i diversi esseri vengono ad esistere. La musica assurge così a funzione creatrice: poiché le vibrazioni acustiche costituiscono l’essenza di tutti i fenomeni, tutta l’attività umana può essere condensata nella seguente formula: conoscere=ascoltare, operare=cantare.

Fin qui Marius Schneider, circa cinquant’anni orsono. Più recentemente Bruce Chatwin25 ci ha raccontato i miti aborigeni australiani della creazione: leggendarie creature totemiche, gli Antenati, nel Tempo del Sogno percorsero in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce e pozzi – e con il loro canto fecero esistere il mondo. Ogni Antenato totemico nel suo viaggio per tutto il paese sparse sulle proprie orme una scia di parole e di note musicali, detta Via del Sogno, o Via del Canto. Il risultato fu un complicato intreccio di innumerevoli Vie del Sogno-Canto che ancora oggi per gli aborigeni coprono tutto il continente australiano. Esse fungono da ‘vie’ di comunicazione fra le tribù più lontane, sicché oggi un canto fa contemporaneamente da mappa e da antenna. Poiché si canta sempre camminando, si viene a stabilire una corrispondenza biunivoca fra ogni istante del canto (tempo) ed ogni punto del cammino (spazio). Poiché il canto è modalità fondamentale di orientamento nello spazio, è sempre possibile trovare la strada pur di conoscerne il canto. Gli spostamenti avvengono sempre soltanto seguendo le Vie del Canto, sicché l’Australia intera può essere letta come uno spartito. Non c’è ruscello o roccia che non possa essere cantato.

Gli Antenati crearono il mondo cantandolo. La vita religiosa di ciascun aborigeno ha perciò un unico scopo: conservare la terra com’è, come gli Antenati la crearono, e come deve continuare ad essere. L’uomo che cammina per il territorio compie un viaggio rituale, calca le orme dell’Antenato, cantandone le strofe senza cambiare una sola parola. Così facendo ricrea il creato. Gli aborigeni non credono all’esistenza del paese finché non lo vedono e non lo cantano, così come al Tempo del Sogno il paese non era esistito fintantoché gli Antenati non lo avevano cantato. In certo modo la terra prima deve esistere su un piano mentale – il sogno – poi la si deve cantare. Allora e solo allora esiste.

Dunque secondo antiche, o cosiddette primitive, concezioni del mondo la realtà più profonda del creato è di natura sonora. Si tratta di culture assai attente al tempo e al suono, nelle quali la relativa esiguità e varietà degli oggetti materiali della vita quotidiana consentivano una più profonda sensibilità ed attenzione ai fenomeni temporali. La capacità di modificare l’ambiente con la creazione di nuovi oggetti materiali, quello che noi chiamiamo ora “impatto ambientale”, doveva essere infinitamente più trascurabile della nostra.

Tuttavia dal punto di vista psicologico alcune sensibilità ed usanze di queste culture non ci sono poi così estranee: nel conoscere a fondo una persona, anche noi poniamo grande attenzione alla trasparenza della sua voce, capace di trasmetterne le minime screziature psichiche.

Anche il potere legittimante che per il primitivo ha il buon rapporto con l’antenato-totem, e viceversa il pericolo per la sua anima qualora trascuri questo rapporto, trovano corrispondenza nella nostra psicologia: sappiamo benissimo quali effetti disastrosi abbia sullo sviluppo della personalità individuale il rifiuto delle proprie radici parentali e culturali.

Così come sappiamo quanto è importante, perché una vita possa fluire densa di significato, la positiva accettazione del proprio passato, la rinuncia alle onnipotenti pretese e rivalse che impigliavano nel mondo antico dell’infanzia. La capacità di vedere i genitori non più come déi, bensì soltanto come esseri umani con i loro limiti, e soprattutto di perdonarli per questi, consentendoci di riconoscere loro appieno il valore dell’averci messo al mondo ci permette di inoltrarci a fondo nel vivere.

Uno dei grandi compiti della prima parte della vita consiste proprio nel regolare i conti con il mondo dell’infanzia, mettendo l’ascendenza famigliare, genitori e non solo genitori, al “posto giusto”. Il che trova tra l’altro un corrispettivo religioso nel comandamento cristiano dell’onorare il padre e la madre.

Anche la sensibilità dei primitivi al suono piuttosto che all’oggetto deve farci riflettere: spesso noi temiamo assai più la cecità della sordità. Tuttavia un cieco diceva: la cecità ci porta via dal mondo delle cose, mentre la sordità ci porta via dal mondo delle persone.

Noi viviamo in un mondo soprattutto di cose, di oggetti materiali che cambiano continuamente, creati appositamente per attrarre la nostra attenzione e per sedurci ed abbiamo attenzione soltanto per essi.

Fromm se ne allarmava già quarant’anni or sono26: il nostro modo di vivere è centrato sulla monetizzazione di tutto, il tipo di rapporto dominante è quello commerciale, sia nel trattare cose sia nel trattare persone. Ma se vogliamo vivere in un mondo di persone, se vogliamo che il nostro sia un mondo di esseri umani e di persone che si trattano da esseri umani e da persone e non da cose, dobbiamo ricordare che l’orecchio è l’occhio dell’anima.

Quei primitivi australiani ci suggeriscono ancora l’equazione: Sogno + Canto = Creazione. Le cose esistono se sono dapprima sognate e successivamente cantate, e questi sono i due momenti costitutivi dell’esistere. Ma questo non è altro che il nostro discorso, nel quale l’Immagine del Cuore è il fondamento interiore, l’aspetto strutturale costitutivo, concentrato, della presenza umana, aspetto yin dicemmo, mentre il Canto dell’Anima ne è l’aspetto yang, la manifestazione. In quanto tale Canto dell’Anima è movimento, direzionalità, tempo che trascorre, è morire continuo istante per istante, che è la stessa cosa del vivere. Così come fare musica è un balzare di nota in nota, arrivare su ognuna, farla cantare e subito consentire che muoia perché un’altra prenda il suo posto nel canto, con la mente sempre impegnata nell’anticipazione di ciò che sta per essere e sempre pronta ad abbandonare quanto ha appena raggiunto.

Che la natura dell’anima sia in qualche modo musicale, è stato peraltro intuito anche in diverse epoche dalla nostra cultura. Hildegard von Bingen affermava: « Symphonalis est anima », mentre il tema era molto sentito dai romantici tedeschi, in particolare da Federico Schlegel. Per Mallarmé, che certamente non conosceva Schneider:« Ogni anima è un nodo ritmico »27

Nel 1928 William Butler Yeats scriveva:

«… un vecchio è ben misera cosa,

giacca stracciata su uno stecco, a meno che

l’anima non batta le mani e canti, e canti più forte

ad ogni strappo nella sua veste mortale,

né vi è altra scuola di canto se non studiare

i monumenti della sua magnificenza …

(trad. ad hoc da “ Sailing to Byzantium ”) 28

Yeats suggerisce che solo il Canto dell’Anima distingue l’uomo da un inerte indumento su uno stecco, da un oggetto, quasi che la capacità di cantare dell’anima sia ciò con cui l’essere umano più propriamente esiste, si manifesta più compiutamente. Così per Rilke:« Cantare è esserci. Facile per un dio. »29

Con Canto dell’Anima vorrei intendere qui proprio il brillare della presenza umana, quale che sia il modo nella sterminata gamma delle sue possibilità: dal suo più pallido ammiccare in quelle vite rese difficili e stentate dalla sofferenza, sempre in bilico fra un esserci duramente conquistato e un inerte rotolare nella quotidianità, alla sua più alta, completa, articolata, differenziata manifestazione nelle arti, nelle scienze e naturalmente nella musica stessa.

Un tempo, presso i cinesi antichi, gli africani o gli aborigeni australiani, l’anima cantava sempre e di musica era intrecciato ogni momento della vita. Ma noi spesso ci sentiamo molto orgogliosamente distanti da quei primitivi, dalla Cina antica, per non parlare degli aborigeni australiani, ai quali abbiamo regalato, in cambio delle loro Vie dei Canti, la ferrovia, l’alcol e la droga. Dicevamo prima che negli ultimi secoli abbiamo progressivamente smarrito il senso dell’anima e adesso stiamo faticosamente cercando di ritrovarlo, ne abbiamo un disperato bisogno. Ora, quei primitivi ci propongono il nesso anima-canto, che nonostante la nostra cattiva coscienza non ci appare mai del tutto insensato: quante volte la musica ci fa sognare, ma poi non abbiamo il coraggio di impegnarci nella vita per realizzare quei sogni! Ricordiamo Swann e la “piccola frase”, attraverso la quale gli arriva un richiamo:

« … Swann trovava in sé, nel ricordo della frase da lui udita … la presenza di una di quelle realtà invisibili cui aveva cessato di credere e alle quali, come se la musica avesse avuto sull’aridità morale di cui soffriva una sorta di influsso elettivo, sentiva di nuovo il desiderio e quasi la forza di consacrare la propria vita …» 30

Noi abbiamo esiliato la musica dalla nostra vita quotidiana. Solo pochi fra noi, fortunati, possono imparare ad usare il corpo per far cantare l’anima attraverso la musica. In quanto prassi costruttiva, in quanto edificazione dell’anima (come in ultima analisi non può che essere il fare musica), essa è assente dalla nostra vita quotidiana. Per converso ci accompagna ossessiva nei grandi magazzini, ci bombarda nelle discoteche, ci perseguita dai programmi televisivi, e qui realmente demolisce l’anima, più che costruirla.

Quei primitivi ci propongono il nesso canto-fare : non è forse vero che quando facciamo qualcosa volentieri, di buon grado, e quindi nelle migliori condizioni possibili perché riesca bene, ci viene, se non da cantare, per lo meno da canticchiare? Non è forse vero che nel bambino la vocalità accompagna sempre qualunque attività nella quale sia realmente interessato ? Per le strade la gente non canta più, un tempo capitava di sentire il contadino passare sotto le finestre cantando: ora al più vediamo i ragazzini camminare ipnotizzati dalle cuffiette nelle quali altri, non loro, cantano. C’è grande consumo di musica, ma la si fa poco.

Quei primitivi ci propongono anche il nesso canto-verità. Schneider ancora ci dice, a proposito del valore metafisico della musica:

«L’ idea che la verità debba “cantare” sembra costituire il fondamento di quel pensiero antico che, nel suo più alto stadio di evoluzione, giunse a concepire il cosmo come un’armonia. L’equazione canto = armonia musicale = armonia degli elementi della natura = concordanza delle idee = ordine e verità … forma una catena molto logica nel pensiero mistico. …» 31

Anche senza musica, l’anima oggi non smette di cantare e vuole continuare a farlo, perché questa è la sua natura. Lo fa allora come può, con una sorta di musica muta, nei modi che le sono concessi. Lo fa con gli incerti tentativi delle persone che da adulte faticosamente imparano a vivere, piccoli gesti che richiedono spesso enorme coraggio e dedizione, anche se passano per lo più inosservati, e per essere colti debbono proprio essere cercati con attenzione. Nella pratica psicoterapeutica sentiamo spesso l’anima cantare. L’anima canta, un canto esile ma distinto, quando nell’opaco silenzio immaginativo della condizione autistica improvvisamente qualcosa riluce e accende il desiderio di condividerlo con qualcuno.

Canto dell’Anima è allora la scelta timida e trepidante della persona sofferente che nonostante tutte le difficoltà, tutti i colpi della vita, accetta di amarla ugualmente, la vita, e di impegnarvisi. È la capacità di accettare la sventura, di saperne vedere incredibilmente i risvolti positivi, la capacità di trasformare qualsiasi evento in momento di più compiuta manifestazione di sé, accettandolo comunque come dono. È l’impegno di chi consente che lo svolgersi della propria vita sia espressione dei valori di cui è portatore, perché ha finalmente accettato di prendersene carico e di difenderli dandone testimonianza. È l’impegno di chi accetta tutte le imperfezioni ed i limiti della propria creaturalità pur di poterne portare sul dorso gli splendori. Ancora, Canto dell’Anima è ogni gesto la cui intenzionale pienezza esprime compiutamente il senso dell’esistere: l’erompere di un devi interiore, assoluta necessità che insieme è festa per il mondo e adempimento gioioso e che sempre, dopo il compimento, rende più amica la morte.

Ci piacerebbe che questa nostra riflessione concludesse in musica, ricordando con Wagner che la musica comincia proprio là dove si arresta il potere delle parole. Allora vorrei concludere evocando qui un altro fenomeno dell’anima, nel quale essa canta forse il suo canto più sublime. Torniamo per un istante ai ricordati versi di Yeats:

«… a meno che l’anima non batta le mani e canti, e canti più forte ad ogni strappo nella sua veste mortale …».

Il Canto dell’Anima è dunque legato alla sofferenza, quasi che questa sia il soffio la cui vibrazione genera il canto. Qui il dolore si trasforma in canto, in gioia, e questa metamorfosi è una variante del tema della redenzione che troviamo anche in Gibran:

«… In autunno raccolsi tutti i miei dolori e li seppellii in giardino.

E quando tornò aprile e la primavera si unì in matrimonio alla terra, nel mio giardino crebbero allora dei magnifici fiori diversi da tutti gli altri. E giunsero i miei vicini a vederli, e tutti mi dissero: “Quando tornerà l’autunno, al momento della semina, vorremmo che tu ci dessi i semi di questi fiori per piantarli nei nostri giardini ». 32

Anche Buddha, quando affronta le prove per accedere alla suprema illuminazione, si dimostra capace di simile trasmutazione. Mãra, dio della morte, della lussuria e della seduzione, tenta in diversi modi di impedirgli il cammino. Coomaraswamy racconta:

«.. poi Mãra gli gettò una pioggia di rocce e una gragnuola di armi mortali avvelenate, di ceneri e di carboni ardenti, e una tempesta di sabbia rovente e fango infuocato: ma tutti questi proiettili non fecero che cadere ai piedi del Bodhisatta come una pioggia di fiori celesti, o restarono sospesi come un baldacchino sulla sua testa … e tutti i demoni gettarono massi di roccia (al Bodhisatta) … e i massi di roccia caddero come ghirlande di fiori.»33

Il dolore diventa gioia, la sofferenza diventa canto, l’odio e la malvagità diventano petali di rosa ed atti d’amore. Questa è la più misteriosa delle trasformazioni, forse il più bel Canto dell’Anima, forse a questo proposito possiamo parlare di miracolo. Se potessimo in questo momento lasciare la parola alla musica, ricorreremmo a Beethoven, che scriveva nei suoi quaderni di appunti “ durch Leiden Freude ”, e potremmo accingerci all’ascolto del “ Molto adagio ” del quartetto op. 132, quello che reca la scritta “Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico».

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NOTE:

1) Giorgio Moschetti, “ Immagine, prassi musicale e simbolo ” e ” La psicologia ha bisogno della musica “, in AAVV. “Coralità”, a cura di B. Streito e L.M. Lorenzetti, Milano, G.E.N.S.. 1988
2) Giorgio Moschetti, ” La psicologia ha bisogno della musica “, ibid. pagg. 138/9
3) James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Garzanti 1993, pag. 43
4) op. cit. pag. 47
5) op. cit. pag. 68
6) op. cit. pag. 69
7) Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e altri scritti, Firenze 1949, cit. in Elèmire Zolla, I mistici dell’Occidente, vol. 1, Rizzoli 1976, pag. 21.
8) citato in James Hillman, op. cit. pag. 70.
9) op. cit. pag. 71
10) René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi 1975, pag. 186.
11) Chândogya Upanishad, 3° Prapâthaka, 14° Khanda, shruti 3. op. cit. pag. 378/9
12) Matteo, XIII, 31-32. op. cit. pag. 379
13) Guénon René, op. cit. pag. 365
14) op. cit. pag. 356
15) Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, 1996
16) epigrafe di op. cit.
17) citato in James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Garzanti 1993, pag. 44.
18) Schneider Marius, Il significato della musica , Rusconi 1970, pag. 31
19) William B. Yeats, Anima Mundi, saggi sul mito e sulla letteratura, Guanda 1988, pag. 66
20) Ananda K.Coomaraswamy, Sapienza orientale e cultura occidentale, Rusconi 1988, pag. 45
21) Marcel Proust, La strada di Swann , Einaudi 1967, pag. 148.
22) Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi 1968, pag. 25.
23) I Ching, translated by Rudolf Ritsema and Stephen Karcher, Eranos Foundation, Ascona 1994, pag. 69
24) Marius Schneider, Gli animali simbolici, Rusconi 1986.
25) Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti, Adelphi 1988.
26) Erich Fromm, L’arte di amare , il Saggiatore 1963.
27) citato in Mario Delli Ponti e Boris Luban-Plozza, Il terzo orecchio, Centro Scientifico Torinese, 1986.
28) William B. Yeats., Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Mondadori 1974, pag. 198.
29) R Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo, traduzione di Franco Rella, Feltrinelli 1991, pag. 23.
30) Marcel Proust, La strada di Swann, Einaudi 1967, pag. 227.
31) Marius Schneider, Gli animali simbolici, Rusconi 1986, pag. 122.
32) Kahlil Gibran, Sabbia e onda, Guanda 1979, pag. 109
33) Ananda K. Coomaraswamy, Buddha e la dottrina del Buddhismo, Luni editrice, 1994, pag. 39


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