Potenzialità terapeutica dell’immaginazione (da átopon Vol. V)

Maria Pia Rosati

Nel mondo occidentale odierno, a causa di una antica operazione di scissione del sapere, si situano in campi opposti, in una insanabile dicotomia, la realtà delle cosiddette scienze esatte, considerate la vera ed unica scienza, che fa riferimento al mondo numerico e contabile, e il mondo delle «infinite ragioni che non furono mai in esperienza» (Leonardo), cioè il mondo poietico dell’immaginazione, il mondo della decifrazione e il mondo della rivelazione.

La vita dell’uomo, il suo ben-essere e la sua salute vengono oggi guardate con un’ottica “scientifica”. Le problematiche inerenti allo svolgimento delle funzioni della vita sono oggi affidate quasi esclusivamente alla medicina la quale sta acquistando sempre più le caratteristiche di una “tecnica” scientifica. L’approccio alla sofferenza umana viene così proposto esclusivamente all’interno di una visione medico-tecnicistica che comporta metodologicamente una esigenza di conoscenza obiettiva (l’altro è obiectum , cioè un oggetto contrapposto).

Tuttavia la modalità tecnico-scientifica, in quanto prescinde da ogni elemento che non sia soggetto alle regole di verificabilità sperimentale, non consente di guardare al mistero della vita umana, al suo senso più profondo, al suo fine e al suo anelito, come al suo pathos , e quindi per questo spesso non riesce nemmeno a rendere comprensibile e a dare senso alla sofferenza ineluttabilmente ad esso legata. Ciò implica che tale sofferenza, proprio perché vissuta come priva di senso, non sia accettata come qualcosa di fortemente connesso al tessuto della vita e dunque sopportabile e addirittura trasformabile in esperienza gravida di potenzialità positive.

In epoca cosiddetta prescientifica, al contrario, la salvezza o salute dell’essere umano (senza alcuna distinzione tra salute fisica o psichica) era percepita all’unisono con quella delle altre forme di vita dell’universo, come influenzata dalle leggi dell’armonia cosmica e soggetta alle forze numinose provenienti da spazi intersiderali. Essa era dunque affidata alla cura di terapeuti, persone di eccezionale valore, eroi, semidei, appartenenti alla classe regale o sacerdotale. Si riteneva cioè che solo chi fosse iniziato ad interpretare i voleri del cielo e dotato di eccezionali qualità e di grande coraggio potesse assumersi il compito di modificare l’atteggiamento negativo delle forze divine, combattere il male e sconfiggerlo, e liberare l’uomo dalla sofferenza riportandolo al suo stato di benessere originario.

L’antica medicina ayurvedica dell’India, che affondava le sue radici nell’antica tradizione aria, era caratterizzata da una grande ricchezza simbolica degli agenti terapeutici sì da poter essere definita come una sorta di poesia magica scaturente dalla dinamica perpetua dell’immaginazione metafisica. Essa testimoniava una visione religiosa che pervadeva ogni aspetto della vita: la malattia poteva essere vista anche come una benedizione degli dei, una grande possibilità offerta all’uomo di assumere il proprio Karma e di purificarsi. Il medico dunque poteva essere capace di aiutare il malato a cogliere questa possibilità soltanto se avesse raggiunto egli stesso un alto valore morale e spirituale.

Anche nell’antico Egitto la scienza medica era strettamente legata alla religione, e i medici erano degli iniziati che ricevevano la loro formazione religiosa e apprendevano la scienza e le tecniche terapeutiche nelle «case di vita», presiedute da Tot, divinità della scrittura, del sapere e della magia, che rappresentava nella sua forma di Ibis l’aspetto notturno, fecondante, magico, ctonico della luna. Il rimedio principe di questa medicina sacra era il sonno nel tempio. Durante il sonno favorito dalla numinosità del luogo, il malato diveniva capace di visioni che attingevano a profondi stadi della coscienza. Le visioni venivano quindi interpretate da sacerdoti capaci di far penetrare nuove forze vitali positive nel corpo del malato e di armonizzare le forze vitali che in quel momento si presentavano in stato disordinato e caotico.

Il medico, sempre in contatto e ispirato dalla divinità, quando riteneva di poter agire sul malato, quando cioè si trovava di fronte ad una malattia che poteva trattare (prognosi favorevole) o che poteva combattere (prognosi incerta) e non ad una malattia karmica che indicava la fine della vita dell’uomo e di fronte alla quale si ritirava acconsentendo al volere divino, utilizzava incantesimi ed amuleti, accanto alle preparazioni medicamentose di origine naturale, al fine di aiutare l’anima del malato a rafforzare la sua presa sulla vita.

La sacra arte terapeutica egizia fu conosciuta e altamente apprezzate nel mondo greco.

In Grecia i sacerdoti del tempio di Esculapio, al pari di quelli del tempio egiziano di Eliopoli, ascoltando i sogni dei malati che passavano la notte nel tempio, si facevano interpreti del messaggio che il dio aveva loro inviato nel sonno per liberarli dal male. Perché, come dice Eraclito «nella notte l’uomo accende una luce a se stesso…» (A 57) e «i dormienti sono artefici delle cose che accadono nel mondo e aiutano a produrle» (A 98). Aristotele considera l’uomo l’animale più perfetto per la sua partecipazione al divino e vede nella malattia il disordine e lo squilibrio di un assetto ad un tempo biologico, psicologico, spirituale.

Ancora nell’alto Medioevo, il discorso sulla salute dell’uomo continua ad essere situato all’interno della contemplazione delle corrispondenze cosmiche. L’uomo si trova al centro dell’edificio cosmico, al centro di un mondo di immagini meravigliose, animate dall’amore divino.

Nel liber divinorum operum1(manoscritto dell’Alto medioevo reperibile nella biblioteca di Lucca ) è scritto: «Io, forza suprema e ardente, ho acceso ogni favilla di vita… Con ogni invisibile alito di vento risveglio tutto a visibile vita. L’aria vive nelle piante e nei fiori. Le acque scorrono quasi animate di vita… Io sono la vita. Io sono l’intera vita sana: non scolpita nella roccia, non sbocciata da ramo, non generata da uomo. Tutto affonda in me le sue radici.»

ildegardaIldegarda di Bingen2, grande mistica ed insieme grande esperta di medicina, ritiene che l’uomo colto debba imparare a leggere il libro della natura, a capire tutti i segni inviatigli, a interpretarne il significato spirituale. L’uomo è condizionato dalle forze della natura e a sua volta agisce su queste modellandola; egli è parte integrante della ruota della storia che gira alla volta della sua destinazione; è simbolo del Logos che si fa carne, che si manifesta in ogni parte dell’organismo umano: e corpo e anima formano un’unica realtà ( unum opus ).

Il corpo dell’uomo funge da tramite universale con il mondo con il quale vive in un continuo dialogo cosmico, in un rapporto di incorporazione e di assimilazione. Tramite il suo stomaco, cibandosi, egli incorpora di fatto il mondo esterno ed è in comunione universale con le altre creature che assume e da cui trae vita e nutrimento.

Se la fisiologia dell’uomo nello stato di ben-essere rimanda ad un cosmo ordinato e meraviglioso, nella situazione di mal-essere, di patologia, rimanda alla “caduta”, nella quale l’uomo ha distrutto l’ordine armonioso del cosmo, ha perduto lo stato edenico originario ed è divenuto un patiens , sopraffatto da una profonda tristezza ( melancolia ).

L’uomo dunque è divenuto infermo in seguito alla caduta. La malattia è considerata un fallimento, una mancanza di essenza, una deformazione e degenerazione, una condizione di difetto e va ascritta a qualcosa che non è accaduto o si è trascurato, a un comportamento errato che ha compromesso il corretto e armonico funzionamento dell’organismo.

La scienza medioevale considera dunque strettissimo il nesso tra guarigione e salvezza dell’anima. «In quanto creatura di Dio ( opus operationis Dei ) l’uomo si trova per nascita, in condizioni ottimali e occupa quindi una posizione di privilegio all’interno del mondo. In quanto artefice ( homo operans ) egli è chiamato a rappresentare l’intero creato come specchio dell’universo ( speculum universi ) e a completare il suo lavoro sul mondo ( opus cum creatura ). In quanto essere razionale ( homo rationalis ) comunica perennemente col mondo, assumendo su di sé la responsabilità della creazione e della salvazione finale di quest’ultimo ( homo responsurus ).

Il suo fallimento l’ha reso gracile ( destitutus ),… malato e sottomesso alla morte. La sua smania di autonomia ( superbia ) ha nociuto al naturale rapporto con la natura; è divenuto ribelle ( homo rebellis )…»3.

La malattia diviene l’espressione emblematica di destituzione e deformazione esistenziale.

Tuttavia la sofferenza ad essa legata può divenire una spinta alla ricerca della guarigione, della fine delle pene e preparare all’attesa della salvezza finale. Perché l’uomo è comunque visto come un pellegrino e cercatore ( in statu viatoris ), sempre in cammino insieme a tutto il mondo, al fine di riconquistare lo stato di grazia, la pace della salvezza, la salute.

Compito precipuo del medico doveva essere innanzitutto quello di prescrivere la giusta dieta, cioè una modalità di vita salutare, abitudini corrette sia nell’alimentazione che negli altri aspetti della vita, e quindi quello di correggere con l’uso di farmaci e depurativi quanto di nocivo si fosse accumulato nel corpo, reintegrando così lo stato primigenio di ben-essere. La medicina è dunque vista come un’arte che si ottiene «per opera dell’amore» e ha la compassione come fondamento.

Secondo Paracelso, grande e poliedrica figura rinascimentale: «l’esercizio di quest’ arte sta nel cuore: se il tuo cuore è falso, anche il medico che è in te sarà falso […]». Solo un medico che sappia confidare in Dio può esercitare quest’arte, perché solo così egli sarà in grado di comprendere il linguaggio delle erbe e delle radici, potrà credere nel potere salvifico della natura, e soprattutto saprà tenere lontana da sé e dall’altro la disperazione, tentazione satanica, che porta a dire: «è impossibile».

La domanda di Parsifal

Nel mito della “cerca del Graal”, emblematica della vicenda di un uomo che cerca il farmaco salvifico per sé e per l’umanità, il protagonista Parsifal, proprio per non aver saputo porre al Re ferito la domanda: «Che cosa ti fa soffrire?», viene cacciato dal castello del Graal, che pure era riuscito a raggiungere dopo una lunga avventura, e dove era stato accolto con ogni onore. La cecità spirituale non gli ha permesso di comprendere il senso di ciò che gli è stato mostrato e dell’accadimento straordinario che gli era dato di vivere. Non ha osato porre quella domanda che avrebbe avuto risposta, solo che avesse chiesto, non ha saputo ricevere e dare, secondo quanto imponeva quella situazione eccezionale. Egli non sa far parlare il cuore, né trovare un rimedio attingendo alle possibilità creatrici della sua immaginazione, e quindi non riesce a salvare sé stesso e l’umanità, liberando dalla sofferenza, con lo slancio dell’anima, il Re ferito e il suo regno ridotto ad una terra desolata.

La leggenda di Parsifal ci porta immediatamente al cuore delle problematiche con cui necessariamente dobbiamo confrontarci: quale il senso della vita umana e dunque che cos’è la salute-salvezza e quale il modello di salute a cui dobbiamo rifarci al fine di ricondurre ad esso ciò che appare discorde e quindi malato?

La natura umana è per sua essenza desiderio di trascendimento. «L’anima è il principio», «I confini dell’anima per quanto lontano tu vada, non li scoprirai, neanche se percorri tutte le vie: così profondo è il suo logos» dice Eraclito (22 b 45) infatti «è dell’anima un logos che accresce se stesso»4( 22 B 115).

Tutte le tradizioni religiose ci parlano di un uomo collocato tra realtà che non gli appartengono, confini che egli cerca di superare in una continua tensione creatrice, che è alla base sia della sua possibilità di trascendimento, sia della sua sofferenza e dannazione, quando il suo slancio non riesce ad armonizzarsi con il volere del cielo e si traduce in azione prometeica, in sfida superba e tracotante.

L’immaginazione salva dal nichilismo

L’uomo giunge a percepire il senso più profondo delle cose, di quelle visibili come di quelle invisibili e al di sopra dei sensi, grazie alla facoltà di immaginazione che gli permette di comprendere il reale con quell’intelligenza che è propriamente, secondo l’etimologia, un intus legere (l’ intelletto d’amore di dantesca memoria o l’occhio del cuore dei sufi).

Baudelaire5 definisce l’immaginazione una facoltà misteriosa, imparentata con l’infinito. Essa è privilegio dell’uomo, attiva ogni facoltà umana e anima ogni azione. Solo dunque una scienza che sia nutrita dalla facoltà creatrice dell’immaginazione può salvare l’uomo da una crisi totale sfociante nel nichilismo.

Il Faust Goethiano dopo una vita di studi comprende l’aridità e l’inutilità del sapere che gli viene dai libri polverosi della sua biblioteca, come pure la dura avidità dei legami con il mondo, con le cose:

«E le ho studiate, ah! filosofia,
giurisprudenza e medicina
– e anche purtroppo teologia-
da capo a fondo, con tutto l’ardore.
Povero pazzo: e ora eccomi qui
che ne so quanto prima.
[…] 

E mi è chiaro che nulla possiamo conoscere!
È qualcosa che quasi mi brucia il cuore. …» 

Faust si sente diviso tra le due possibilità concesse a ogni uomo:

« Dentro il cuore, ah, mi vivono due anime
e una dall’altra si vuole dividere.
L’una in sua dura avidità d’amore,
si stringe con tenaci organi al mondo,
potente l’altra dalla polvere si leva
ai campi ermi degli avi.»6

Ma Faust rinuncia a quella realtà a cui si giunge attraverso il cammino dell’arte, un cammino che esprime le piene possibilità dell’uomo e che travalica la vita stessa. Non osa affidarsi a quella possibilità, poietica e creatrice propria dell’uomo, a cui lo sfida sarcasticamente Mefistofele: «associatevi con un poeta, lasciate che divaghi con i suoi pensieri e accumuli tutte le nobili qualità sul vostro degno capo: il coraggio del leone, la rapidità del cervo, il sangue ardente dell’italiano, la tenacia del nordico. Fate che vi trovi il segreto di congiungere la magnanimità all’astuzia… un messer pari suo lo chiamerei Microcosmo.»

Preferisce fare il patto con il diavolo nella speranza di possedere ciò che gli viene offerto immediatamente, anche se sa non potrà trattarsi che di un’illusione: «un cibo che non sazia, fulvo oro che senza cessa, simile ad argento vivo, ti sfugge di mano; un gioco al quale mai non si vince… il divino piacere degli onori che sparisce come una meteora… il frutto che marcisce prima che venga colto».

Egli ne è conscio e questa coscienza alla fine lo salverà ; egli non dirà all’attimo: «rimani, tu sei così bello!». Nessuna di quelle illusioni creatagli da Mefistofele riuscirà a catturarlo definitivamente.

L’immaginazione creativa

L’uomo si vive come Microcosmo di un Macrocosmo, che coglie e rispecchia in sé l’unità del cosmo di cui egli stesso è simbolo.

Se il Simbolo ( syn-bolon, il contrario di dia-bolon ) significa l’unione e la sintesi (di corpo e psiche, di terra e cielo, di astratto e concreto, materiale e spirituale) ed indica inoltre l’elemento dinamico ( ballo ) del progetto, l’uomo è simbolo per eccellenza, in quanto capace di progettare e proiettarsi superando continuamente sé stesso, conoscendo il limite, ma slanciandosi al di là di esso con la propria mente: «fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza» dice l’Ulisse dantesco (Inf. XXVI).

Attraverso l’immaginazione creativa, poietica, l’uomo può penetrare nel mundus imaginalis, in quello che i Sufi chiamano, l’ottavo clima, la Terra di Hurqalya, nel quale lo spirituale prende corpo e il corpo diviene spirituale.

Al mondo dell’immaginario appartengono gli eroi omerici, figli ad un tempo di uomini mortali e di dei immortali o «i gesti smisurati, l’alta fatica, le mirabil prove» cantate dal Boiardo come « le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese » di ariostesca memoria e tutte quelle virtù che più non si trovano su questa terra e che sono relegate sulla Luna, insieme al senno del paladino Orlando, impazzito per amore.

A questo stesso mondo immaginario appartiene la grandezza eroica di Don Quijote, per il quale il filosofo spagnolo Miguel Unamuno dichiarava di essere pronto a organizzare una crociata per riscattarne il sepolcro dalla custodia degli Hidalghi della ragione. Riteneva infatti che « le visioni senza ragione, i concetti senza logica » (ciò che chiamiamo immaginale) fossero un balsamo per la sua anima «addolorata dalla volgarità dell’ambiente che da ogni parte mi perseguita e mi opprime, addolorata per le brutture del fango della menzogna nel quale sguazziamo, addolorata per i graffi della codardia che ci avvolge.»7

Vogliamo ancora ricordare la possente figura di Ignazio de Loyola il quale ha dato grande importanza, nei suoi Esercizi spirituali, all’esercizio dell’immaginazione al fine di creare forti personalità, veri atleti spirituali che potessero lottare per la fede e affrontare vittoriosamente le prove del mondo. Il devoto doveva sforzarsi di uscire dalla propria situazione contingente per dar vita, grazie alla forza immaginativa, concretamente e nitidamente a un paesaggio o a un episodio storico, fino ad entrare nello spazio e nel tempo della storia sacra e vedere in essa una nuova possibilità salvifica.

Oggi sembra scomparsa dalla nostra coscienza la capacità creativa dell’immaginazione e con essa quel mondo immaginario, in cui ci si incontra e si comunica, al di là dello spazio fisico e del tempo cronologico, attraverso il linguaggio dell’anima che, al di là di ogni mediazione esteriore, sa entrare in contatto con l’essenza più profonda dell’essere. Gli uomini sembra abbiano smarrito le ragioni ideali la cui realtà preesiste ad ogni tempo dell’uomo e sovrasta ogni luogo, quella ragione per cui vale la pena vivere, lottare e morire. E la sofferenza psichica derivata dall’incomunicabilità, dalla solitudine spirituale, dall’isolamento, dalla difficoltà di trovare un senso al proprio patire ed una forza spirituale superiore a cui attingere, arriva a livelli elevatissimi e genera mostri. Nell’epoca caratterizzata da straordinarie possibilità tecniche di comunicazione, si soffre di una crescente incapacità a comunicare su un piano profondo. La mancanza di valori etici condivisi aumenta in maniera spaventosa. Assistiamo ad una tragica incomprensione non solo tra popoli e nazioni diverse, ma all’interno di una stessa nazione, di una stessa generazione, di una stessa famiglia. Ugualmente scompare la possibilità di metamorfosi, o meglio di metanoia (cioè di un mutamento che investa non soltanto la forma, ma proprio il nus , ossia la nostra capacità e possibilità di comprensione del mondo) propria dell’ immaginazione.

Soltanto l’immaginazione può sollevarci su un piano più alto, ampliare il nostro orizzonte e trasformare così la nostra visione degli accadimenti. Se siamo ispirati e sostenuti dall’immaginazione, gli avvenimenti non ci appaiono più come esclusivamente appartenenti al piano fisico e quindi soggetti alla legge della gravità e dell’inerzia, ma divengono innanzitutto accadimenti dell’anima e come tali possono essere meditati, trasfigurati, trasformati dalla capacità creativa della nostra intelligenza.

Corbin ha sottolineato l’importanza dell’irruzione di un mondo totalmente altro nel continuum della vita e nella nostra coscienza, del miracolo prodotto dagli accadimenti spirituali, reali di una realtà che trascende ogni materializzazione storica. Tale irruzione, squarciando la nostra consueta modalità logica, trasforma la storia in una storia immaginale: ciò che è esteriore e ciò che è interiore si mescolano, gli avvenimenti vissuti nell’intimo si proiettano all’esterno, diventano visioni la cui verità è data dal loro significato spirituale, e si elevano alla funzione di simboli. In tal modo l’esistenza umana acquista senso e significato in quanto si orienta verso un polo ideale, assume una direzione verticale, ascensionale e si fa cammino di individuazione. Il passato non è più semplicemente qualcosa di irrimediabilmente perduto: la nostra capacità immaginativa e poietica può ritrovare il tempo perduto e farne il gradino di una scala da salire, per raggiungere una dimensione di perfezione spirituale.

La vita di molti uomini santi di ogni religione, ne è esplicita testimonianza.

La psicoantropologia simbolica e l’unità del sapere

La comprensione della vicenda umana e del pathos ad essa inerente, alla luce di una antica tradizione, sembrerebbe dunque aver luogo solo grazie ad una Scienza dell’Uomo che sappia integrare i dati dell’osservazione con uno sguardo che possa cogliere, grazie alle facoltà dell’immaginazione e dell’intuito, l’ Homo integer , l’uomo nella sua totalità, non un uomo scisso in un corpo macchina ed una psiche ad esso giustapposta.

Parliamo di Scienza dell’Uomo al singolare, in quanto seguiamo Gilbert Durand nel credere in una unica scienza che sfuggendo al pericolo della disintegrazione, abbia come protagonista, non come oggetto, l’uomo, l’ anthropos , conscio della complessità della sua esistenza, che si interroga sul senso e la finalità della stessa, sulla sua collocazione nell’Universo, sui rapporti tra la sua breve vicenda terrena e l’infinità del tempo.

La Psicoterapia analitica e la Psicoantropologia simbolica ci sembra rappresentino ai nostri giorni il tentativo di uno sforzo di sintesi al fine di ricomporre l’originaria unità del sapere.

Tali discipline costruiscono il loro discorso sull’uomo facendo riferimento in primo luogo all’immaginazione attiva, creatrice (che, seguendo H. Corbin e G. Durand, chiamiamo immaginale) come alla facoltà propria dell’anima. La realtà dell’immaginazione è considerata spesso, come ci ha ricordato G. Durand ( L’imaginaire, 1994)8, una sorta di realtà minore connotata negativamente.

La psicoterapia torna a porsi la domanda prima e originaria: che cosa è l’uomo, quale il suo compito e dunque in che cosa consiste la sofferenza dell’uomo? L’itinerario della ricerca inizia da ciò che costituisce la peculiarità dell’ uomo, dalle problematiche che lo riguardano in quanto essere umano e che, vissute attraverso un investimento sia fisico che psichico, costituiscono il suo pathos .

Oggi, abituati ad affrontare i problemi esclusivamente in maniera tecnico-specialistica, non ci poniamo più domande così globali, così semplici e così fondamentali. Eppure dobbiamo tornare ad esse se non vogliamo perdere il senso della ricerca e dell’operare come terapeuti.

Da qui l’importanza di tornare a guardare al mondo come a un continuum di corrispondenze e a un universo simbolico e di ritrovare nei miti i paradigmi delle vicende umane, delle loro problematiche e delle possibili vie di soluzione che l’uomo ha immaginato nel cammino della civiltà.

La psicologia analitica junghiana, riprendendo il messaggio delle più antiche tradizioni, parla di un uomo che ha come compito e meta della vita un processo di individuazione che lo porti a superare gli angusti confini dell’io, per divenire Se stesso, realizzando così pienamente la parte e il ruolo che gli sono dati da un Ordine superiore ( Kosmos lo chiamavano i Greci).

La psicoanalisi, e soprattutto la psicologia analitica junghiana si sono poste il compito di aiutare l’uomo di oggi a ritrovare la sua immaginazione e le sue potenzialità creatrici.Solo se la psicologia torna a parlare il linguaggio dell’anima e a condividerne le visioni può muovere ed alimentare tutte le energie viventi, corporee e psichiche e può divenire nuovamente capace di vedere le cose e gli esseri, i procedimenti e gli accadimenti con gli occhi dell’anima, che sa vedere oltre il visibile. Solo così non correrà il rischio di restare schiacciata da quella realtà materiale che invano tenterebbe di dominare cercando di inquadrarla nei rigidi schemi delle cosiddette scienze esatte.

La psicologia analitica e in particolare la psicoantropologia simbolica attuano una modalità di comprensione simbolica degli eventi, della realtà e si rifanno all’arte della lettura simbolica.

La lettura dei simboli necessita di una particolare modalità interpretativa, di un’esegesi (trarre fuori, o come dicono i Sufi ta’will ) che ci porti fuori dal modo consueto di vedere il mondo nel suo aspetto apparente e che invece riconduca ogni cosa al suo piano essenziale. Essa presuppone dunque un’immaginazione che sappia schiuderne il segreto e percepirne il mistero. È necessaria la comprensione sintonica e simpatetica del linguaggio polisemico, plurisignificante, polifonico della poesia della vita (e la vita umana, se vissuta nel suo pieno senso, è creatività e dunque poesia), lontana dalla sterile traduzione e riduzione al linguaggio monotono e monocorde di un’arida prosa sedicente scientifica.

La psicologia analitica, potremmo dire, legge gli accadimenti della vita, e interpreta gli atti, come fossero sogni e i sogni come se fossero atti. Ma non è forse l’uomo «l’ombra di un sogno»?

Per tale motivo la psicologia analitica ascolta l’insegnamento che viene dagli antichi testi sapienziali, dalla loro maniera di guardare agli avvenimenti e trae ispirazione dalla modalità di comprensione e lettura simbolica della realtà del mondo propria degli esegeti dei testi sacri come dei maestri sufi.

Psicologia come alchimia

La psicologia analitica è, secondo C. G. Jung, una sorta di moderna alchimia dell’anima9: forte è l’analogia tra il processo di trasformazione della cura analitica e l’antica arte dell’alchimia.

alchimiaL’ Opus Alchemicum, quel lungo e estenuante cammino simbolico di ricerca e trasformazione in cui l’esterno è un processo di estrinsecazione dell’interno, doveva portare, deo concedente , gli alchimisti a trattare la materia più vile, materia prima , in maniera da raggiungere progressivamente uno stato di purezza, di omogeneità perfetta e di equilibrio tra tutti i suoi componenti, trasformandola nel purissimo e prezioso oro dei Filosofi, elisir di immortalità.

Jung ha studiato il parallelismo esistente tra i simboli alchemici e i simboli onirici moderni ed ha sottolineato come, grazie alla fertile capacità immaginativa degli alchimisti, tali simboli possano designare sia il processo di trasformazione della materia, sia il processo psichico di individuazione, secondo il postulato di ErmeteTrimegisto per cui ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e una stessa energia spirituale costituisce l’essenza di tutto ciò che si definisce materiale quanto di ciò che si definisce spirituale.

La prima fase del processo di trasformazione, chiamata nigredo, corrisponde allo stato di massa confusa e caotica, in cui, come è detto nell’alchimia greca, il Nous o l’ Anthropos è sprofondato nella physis , l’inconscio domina sulla coscienza. A questa fase segue quella in cui alla materia nera e oscura succede la materia bianca ( albedo) ; è il difficile momento della separazione della coscienza luminosa dalle tenebre dell’inconscio.

Nella fase successiva della rubedo viene rappresentato il divenire cosciente del conflitto inconscio che dopo essere stato analizzato e scomposto, viene in fine sublimato e integrato nella coscienza, mentre le scorie non ulteriormente trasformabili ( terra damnata ) vengono eliminate. L’inconscio, simboleggiato dalla luna, viene illuminato dalla luce della coscienza simboleggiata dal sole: è la coniunctio oppositorum, la coniunctio solis et lunae. 

Da questa coniunctio nasce il lapis philosophorum , o anthropos , il simbolo centrale dell’alchimia, simbolo di totalità e di ordine. Siamo allo stadio centrale del processo psicoterapeutico: il processo di individuazione psichica che consiste nel superamento della visione limitata, propria della coscienza egoica, assediata dalla realtà esterna del mondo fisico percepito come immodificabile ostile per tendere alla realtà del Sé, in cui i conflitti sono superati perché composti in una sintesi superiore, al di là del tempo e dello spazio.

L’operazione alchemica era del resto chiamata lo Specchio dei saggi, in quanto gli alchimisti, grazie alla loro immaginazione, come in uno specchio, vi contemplavano tutte le cose del mondo, sia della realtà concreta che di quella mentale e le trasmutazioni compiute nel corso dell’operazione reale, interiorizzate attraverso la meditazione, penetravano nel regno psichico: i processi o gli accadimenti divenivano simboli, si attivavano energie psichiche che trasmutavano radicalmente il rapporto tra l’anima e il corpo perché, come dice il Rosarium novum, è vero che quanto l’anima immagina avviene nella mente soltanto, ma essa ha, quando vuole, il massimo potere sul corpo.

Jung chiama Selbst homo integer , la persona umana allo stato di pienezza, presenza di se stesso a se stesso: meta finale in cui l’anima finalmente liberata da ogni impaccio e impurità, incontra il suo archetipo , il suo Sé.

Un’immagine altamente poetica di tale incontro è celebrato nel bellissimo testo mandeo Il canto della perla : (cfr. Atti di Tommaso 

Il protagonista della storia, «Figlio del Re», il Salvatore, deve discendere in una terra inferiore e «straniera» per conquistarvi la propria anima prigioniera della materia, simboleggiata dalla perla custodita da un serpente. Dopo essersi impadronito della perla egli deve abbandonare il corpo, «involucro carnale», per ritornare alla sua patria celeste. Quando, dopo varie vicissitudini, sulla via del ritorno, il principe vede il vestito meraviglioso, colore della luce, splendente d’oro e di gemme, confezionato per lui nel luogo della sua origine, farglisi incontro non come una cosa inerte e muta, ma come un essere cosciente, vi si scorge «come in uno specchio» che gli rimanda un’immagine assolutamente fedele di se stesso. Egli «vede» il vestito e «si vede tutto intero» nel vestito, si conosce grazie a esso e prende coscienza che entrambi sono una cosa sola, che la loro «statura» è cresciuta simultaneamente e identificatosi pienamente con esso, sale alla «Porta» del Palazzo del «Re dei Re».

Riteniamo che proprio questo sentimento del senso della vita e del suo fine ultimo, che ha generato tale testimonianza di antica fede nel nobile destino dell’uomo, possa essere considerato di vitale importanza proprio ai nostri giorni in cui l’uomo occidentale sembra aver smarrito il suo centro, il suo orizzonte, i punti cardinali del suo orientamento, non sa più il senso della sua vita e sembra errare, senza patria e senza meta, in una terra desolata, tra sconosciuti e sconosciuto a se stesso, in preda al panico. Le manifestazioni psicopatologiche più frequenti vengono chiamate con nomi che evocano lo smarrimento, la lacerazione e il disperato tentativo di reagire ad essi: si parla di attacchi di panico, depressioni ansiose, sindromi fobico-ossessive.

Contro le forme di più grave disagio sia fisico che psichico dell’uomo che non riesce a vivere perché non ha senso la sua vita, invano la medicina rincorre sempre più sofisticate tecniche diagnostiche e terapeutiche, sia sul piano farmacologico che chirurgico. I nostri ospedali superspecializzati non sono ormai più lo spazio o il luogo privilegiato per ascoltare la sofferenza dell’uomo e comprenderne il senso, come gli antichi templi di Esculapio, ma si progettano come efficienti aziende di gestione della malattia, in cui le patologie debbono venir risolte nel più breve tempo possibile e al minor costo per la colletività.

Ma se si ha l’impressione di poter sconfiggere la malattia, ripristinando la funzionalità dei vari organi di un corpo-macchina, sembra sempre più nascondersi la salute (per usare un’espressione di Gadamer10) intesa nel suo significato più completo di pienezza di vita fisica, psichica, spirituale, intesa come ben-essere . Da una parte la scienza medica odierna si arroga l’ultima e definitiva risposta su quello che riguarda il mal-essere, dall’altra si rivela incapace di rispondere in maniera convincente al problema della salute e alla ricerca di un ben-essere generale e sembra anzi impegnata nel compito di Sisifo in quanto ogni qual volta debella una malattia si trova ad ingaggiare una nuova lotta con altre nuove forme di malattia.

Forse questa è una delle motivazioni per cui un numero sempre crescente di persone, spaventate da alcune forme esasperate di tecnicismo medico, si rivolge, talvolta in maniera confusa ed indifferenziata, ad altre culture nella speranza di trovare ancora la parola salvifica tramandata da antiche saggezze e ricerca antichi metodi di cura e medicine alternative.

In alcuni ospedali americani si è constatato che i più moderni metodi terapeutici non producono alcun effetto sulle popolazioni dei nativi americani se non si ricorre anche alla cura dei medecinmen della gente alla quale il malato appartiene. Si è infatti compreso che l’individuo per riconquistare la salute deve essere accompagnato nel cammino della guarigione da coloro che, in quanto portatori del sapere tradizionale, sono in grado di convocare le forze positive presenti in lui e nel suo ambiente e concentrarle in modo che agiscano in suo favore per portarlo fuori dalla situazione di difficoltà.

sabbieindianeUna delle più interessanti modalità terapeutiche dei medecinmen sono alcune cerimonie molto complesse celebrate dallo sciamano accompagnato da tutto il clan che partecipa con canti di preghiera. Nel corso di tali cerimonie vengono creati sulla sabbia dei disegni simbolici11 in cui vengono illustrate le difficoltà incontrate dal malato e le soluzioni che le forze positive degli antenati e delle divinità hanno configurato per lui. Questi disegni, di grande complessità e bellezza, vengono distrutti alla fine della cerimonia.

La psicologia analitica attraverso “il gioco della sabbia” ideato da Dora Kalff12 ha riscoperto le potenzialità terapeutiche costituite dalla attivazione della immaginazione creativa. I pazienti, abbandonandosi ad essa, possono riuscire a modellare sulla sabbia delle figure o situazioni che rappresentano simbolicamente le loro problematiche. Il terapeuta, a sua volta, grazie alle proprie capacità immaginative, porgendo ascolto a tali espressioni simboliche dell’inconscio può renderle decifrabili, comprensibili e trarre da esse preziose indicazioni.

Al medico si può nuovamente aprire dunque l’antica possibilità di reinterpretare la propria funzione terapeutica. Egli non è solamente un operatore tecnico di cui vanno affinate e perfezionate le specifiche competenze, ma anzitutto un uomo che proprio in quanto compatiens, in quanto ha indagato («ho indagato me stesso» Eraclito) e conosce sé stesso, e cioè la propria fragilità di essere umano, sa essere anche terapeuta.

Aveva già detto Eraclito: «se non speri l’insperabile non lo scoprirai, perché è chiuso alla ricerca, e ad esso non conduce nessuna strada»13 (22 B18 DK). 

Maria Pia Rosati

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NOTE:
1) Cfr. Heinrich Schipperges, Der Garten der Gesundheit: Medezin in Mitttelalter, Munchen1985; tr. it., Il giardino della salute, Milano 1988 

2) Hildegardis Causae et Curae ( Bibliotheca graecorum et latinorum scriptorum ), Teubner, Leipzig 1903. 

3) op. cit. in Heinrich Schipperges, op. cit., p. 22 

4) Eraclito, tr. G. Colli, La sapienza greca, vol. III, Eraclito, Milano 1980.

5) Charle Baudelaire, Oeuvres complètes II, Paris 1868 p. 264. 

6) Johann Wolfang Goethe, Faust, I parte; tr. it. (a cura di) Vittorio Santoli, Firenze 1970. 

7) Miguel Unamuno, Vida de Don Quijote y Sancho, Espasa-Calpe, Madrid 1938. 

8) Gilbert Durand, L’imaginaire, Hatier, Paris 1994; tr. it., L’immaginario, Red, Como 1996. 

9) Carl Gustav Jung, Alchemie und Psychologie, 1948; tr. it., Alchimia e Psicologia in Opere vol. XIII, Bollati Boringhieri, Torino 1988. 

10) Hans George Gadamer, Aber die Verborgenheit der Gesundheit, Frankfurt am Main 1993; tr. it., Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano 1994. 

11) Reichard Gladys, Navajo Medecin Man Sandpaintings, New York, 1977. 

12) Dora Kalff, Il gioco della sabbia, Edizioni O S, Firenze 1966. 

13) Eraclito, op. cit. 


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