Federico de Luca Comandini, Robert M. Mercurio,
Daniele Ribola, Giulia Valerio, Claudio Widmann
Edizioni Ma.Gi. – Roma – 2011
Acinquanta anni dalla morte di Jung, in un momento in cui ‘le magnifiche sorti e progressive‘ dell’umanità stanno mostrando un volto particolarmente inquietante dietro la maschera smagliante della efficienza tecnologica, il pensiero dello psicoanalista svizzero, attentamente rimeditato dagli studiosi della ‘scienza umana’ mostra una ricchezza archetipale a cui abbiamo particolarmente bisogno di attingere. Un omaggio al suo pensiero è il libro scritto da cinque psicoterapeuti junghiani, In dialogo con l’inconscio, composto da articoli che si soffermano sugli aspetti più fecondi della ricerca che Jung condusse durante la sua lunga vita di studioso e che lo coinvolse fin nelle più profonde radici del suo essere.
Di recente, nel 2009 è stato pubblicato per la prima volta, Il ‘Libro rosso’, sorta di dialogo con sé stesso e con le immagini, figure talvolta inquietanti, che emergevano dal profondo del suo inconscio. Il libro, mai pubblicato dall’autore in vita, e oggi fruibile in una preziosa edizione arricchita dalle immagini create dallo stesso Jung, ha destato grande interesse non solo presso gli studiosi ma anche presso un vasto pubblico che si è mostrato inopinatamente interessato alla strana modalità di ricerca dello psichiatra svizzero. Ci vengono in mente le parole di Crizia, nell’omonimo dialogo di Platone (Critias 110a) : “Ascolta o Socrate un discorso atopon (strano, fuori del consueto), e tuttavia completamente vero“.
Ancora una volta proprio la situazione di crisi fa sì che si sia disposti ad ascoltare anche un discorso ‘strano’ e a ri-cercare ‘altrove’, fuori dai consueti schemi, insomma ad aprire uno spiraglio all’ignoto che ci permette di scoprire una verità più profonda.
Robert Mercurio nel suo articolo Dalla roccia all’acqua sottolinea che ‘ i precetti e i comandamenti i riti e i rituali, le formule dogmatiche che spesso sembrano definire e dare il senso di identità e di appartenenza a chi professa un determinato credo, sono diventati l’equivalente della roccia che, lungi dal nutrire una fede veramente sentita, spesso celano e nascondono l’acqua della vita‘. Al contrario la visione junghiana della religiosità come, possiamo aggiungere, della conoscenza era lontana da ogni forma di dogmatismo o rigidità dottrinale; era vera filo-sofia nel senso etimologico, apertura al mistero della vita, ad-tenzione ‘paziente e intensa’ ad ogni segno in cui potesse cogliersi una manifestazione, un simbolo dell’invisibile, desiderio di interazione con l’Altro che ci trascende.
L’immaginazione attiva è la strada principe secondo Jung e da lui stesso intensamente seguita, come ci rivela il Libro rosso, per entrare in contatto con l’invisibile (vogliamo usare, seguendo il grande antropologo Jean Servier, questo termine al posto di inconscio che rischia di diventare una parola troppo coartata da definizioni dogmatiche).
Tutte le mie opere, tutta la mia attività creatrice è sorta da iniziali fantasie, e dai sogni che cominciarono nel 1912, circa cinquant’anni fa‘ (dice Jung nel 1958, a 83 anni) “tutto ciò che in seguito ho fatto nella mia vita vi era già contenuto, anche se dapprima solo in forma di emozioni e di immagini” con questa citazione inizia il saggio di Claudio Widmann: Jung fra civiltà dell’immagine e cultura dell’immagine. Il saggio è centrato su un tema-problema di grande attualità che proprio l’esperienza di Jung, il suo continuo confronto con le immagini può aiutarci a meglio comprendere in tutta la sua complessità.
Le esperienze immaginative di Jung ripercorrono una antica modalità conoscitiva, quella degli antichi saggi, dei rishi vedici, del poeta vate, dell’aedo cieco alle cose del mondo ma dotato di vista interiore, del profeta ebraico che parlando in cospetto all’Eterno può cogliere la verità al di là dei limiti temporali. Come fa notare Widmann, queste esperienze immaginative sono toccate dal misterium nouminosum e tremendum delle esperienze archetipali, conclamano la forza delle immagini e l’incisività di quanto partecipa del loro potere creativo e poietico. Esse insomma appartengono al Mundus imaginalis di cui parla Corbin, mondo visionario, àtopon (non-luogo) a cui appartengono sia la Psicologia analitica che l’Alchimia, (cfr. Psicologia e Alchimia 1944), da C. G. Jung accostate e considerate non scienze, ma arti. Si tratta infatti di modi inusuali di conoscenza, di un sapere che si distoglie da oggetti specifici per affacciarsi a scenari inconsueti da cui trapela un altro livello ontologico, un altrove, mundus imaginalis, in cui non valgono i protocolli delle ‘scienze esatte’. L’atopon è per Plotino un livello ontologico di carattere più originario da cui irradia la forza su tutti i luoghi della mondanità fisica. Proprio la presa di contatto con il vuoto (espressa nell’alfa privativo, il non) ci porta a ritrovare la capacità del pensiero simbolico, propria delle culture tradizionali, in cui il mondo è vivo ed aperto, ogni oggetto non è mai semplicemente se stesso, ma è anche segno o ricettacolo di qualcos’altro, rimanda a una realtà che lo trascende, in un continuo trasmutare.
Il problema molto forte dei nostri giorni, su cui Claudio Widmann si sofferma con ampie esemplificazioni, già segnalato dall’antropologo Gilbert Durand (L’imaginaire 1994) è proprio il pericolo per il mondo occidentale e occidentalizzato, abituato da secoli di più o meno rigorosa iconoclastia o comunque svalutazione del pensiero immaginale e analogico rispetto al pensiero logico astratto, di essere sommerso da una massiccia invasione di immagini manipolate con tecnologie altamente sofisticate, immesse attraverso i mass media da anonimi opinion makers e pubblicitari. Tali immagini che mirano ad orientare, dalla culla alla tomba, masse globalizzate non possono che soffocare le possibilità immaginative che, sorgendo dal pozzo profondo del passato, aiutano la psiche dell’uomo nel suo processo individuativo, nel suo cammino di sviluppo verso un Se stesso che possa comprendere e integrare il diverso e unirsi all’Altro in una sorta di coincidentia oppositorum.
Infatti se da un lato l’unione degli opposti è al di là della nostra capacità cognitiva, quando essa è oscurato, la vita non ha più senso e l’individuo ha perduto e tradito la sua anima.
Questo tema, oggetto della riflessione di Jung fino agli ultimi anni della sua vita, è svolto da Giulia Valerio nell’articolo conclusivo del libro: Jung e i misteri dell’amore. Dobbiamo innanzitutto rilevare l’intensa e ad un tempo delicata attenzione con cui la psicoanalista junghiana si è avvicinata ai misteri dell’amore, materia sempre incandescente, ma fonte ineludibile della vita, come di ogni creatività e di ogni relazione, compresa la relazione terapeutica. E l’autrice ci ricorda con le parole di Jung ne La psicologia del transfert, da lei definito ‘uno dei più esaustivi trattati sull’amore che sia stato scritto’, che è sempre necessario “non solo lo sperimentare, la lettura dei libri, meditazione e infine la pazienza, ma anche l’amore” (ed. it. 1971, p. 120). Ma l’amore, sottolinea Giulia Valerio, riprendendo il Libro rosso, è anche deinòs, spaventoso, misterioso, oscuro e potente. E, come ci insegna la bella favola di Amore e Psiche nelle Metamorfosi di Apuleio, la strada che porta alle nozze finali di Psiche ed Eros nell’Olimpo, alla coniunctio dell’umano con il divino, del visibile e dell’invisibile è un arduo percorso iniziatico in una dimensione sacrificale che conosce dolore, tormenti, scoraggiamento, ma anche un cammino di individuazione che ci libera dalle strettoie dell’Io per aprirci alla ricerca di una nuova armonia, di un nuovo cielo e una nuova terra. Particolarmente profonda è l’analisi che G. Valerio fa dell’Alcesti di Euripide. L’autrice ci fa cogliere il miracolo di un’amicizia “che supera la morte, ma che dalla morte ha origine, capace di risanare tutte le lacerazioni e di rendere divina una storia di mortali, e allo stesso tempo di incarnare nella storia di due esseri umani tutta la trascendenza e la dimensione misteriosa dell’invisibile“.
Sul tema della trascendenza si impernia il saggio di Federico de Luca Comandini Simboli della trascendenza, al di là del mito della coscienza. Partendo dalla constatazione che al tramonto del mito della coscienza eroica si stagliano ombre di titanismo insensato, l’autore vede proprio nella psicologia junghiana la possibilità di orientare l’umana disposizione alla consapevolezza intorno alla congiunzione tra conscio e inconscio e si sofferma sull’idea di funzione trascendente che ne è lo spirito guida e sull’area dell’inferiorità psichica, punto nodale del processo di individuazione. Perché quando l’ego è costretto a confrontarsi con i suoi limiti, solo dalla funzione psichica inferiore può venire una autentica possibilità di trasformazione e di apertura ad un senso altro dell’esistenza. Lo insegnano tutte le religioni che con il simbolismo del sacrificio dell’io segnano la prima tappa di qualsiasi processo iniziatico. Lo insegnano le favole che danno alla figura più insignificante e più umile, che però saprà ascoltare la ‘voce delle cose mute‘, la possibilità di raggiungere il compito prefissato. Ma le problematiche del singolo sono in realtà problematiche che riguardano l’umanità intera e la cui criticità fu fortemente avvertita da Jung. Nell’epoca della ‘morte di Dio’ dove e in che modo si sarebbe potuta manifestare la forza archetipica dell’imago dei? De Luca Comandini cita un parafrasi di Samuel Bellow: “ora che Dio è morto, la Morte è diventata Dio” che manifesta il potenziale distruttivo che può emergere dalla destrutturazione dell’Imago dei nella psiche umana. Se si vuol arrestare la corsa sfrenata dell’Umanità verso il nulla è necessario esperire nuove forme del sacro che diano senso all’esistenza. Federico de Luca Comandini propone una psicologia della trascendenza che aiuti l’umanità a non rimanere schiacciata dall’autodistruttività di una coscienza inflazionata. Facendo perno sulla meditazione sulla morte e la dimensione infera della personalità l’Umanità può costruire un ponte per attraversare la terra di nessuno verso un al di là dell’io. Questa nuova prospettiva sulla base dell’esperienza e della psicologia junghiana ci auguriamo apra un fecondo cammino transdisciplinare di ricerche.
Infine vogliamo riferire del saggio di Daniele Ribola Entanglement.
Il termine entanglement (intreccio) è mutuato dalla meccanica quantistica. Due particelle si dicono in stato di entanglement quando le proprietà di una di esse sono completamente correlate con le proprietà dell’altra. Due particelle entangled non rappresentano più due enti separati, ma un’unica manifestazione di una sola entità. L’incontro del fisico Wolfgang Pauli con Jung, il reciproco scambio di esperienze che emerge dallo scambio epistolare tra i due studiosi, è stato di somma importanza sia per la psicologia analitica che per la fisica quantistica. Pauli cercò di interpretare la rivoluzione scientifica anche secondo una visione psicologica del fenomeno, mentre Jung, con grande apertura verso altri campi del sapere, ha trovato nelle nuove acquisizioni della fisica quantistica una base oggettiva per il suo modello di psiche. Ciò portò Jung, in accordo con Pauli, a definire fenomeni a cui aveva posto da sempre grandissima attenzione, come il fenomeno della sincronicità : “due o più eventi apparentemente accidentali, tuttavia non necessariamente simultanei, sono detti sincronici se sono soddisfatte le seguenti condizioni:
1. Qualunque presunzione di un nesso causale tra gli eventi è assurda o inconcepibile;
2. Gli eventi sono in corrispondenza tra di loro attraverso un significato comune, spesso espresso simbolicamente;
3. Ogni coppia di eventi sincronici contiene una componente prodotta internamente e percepita esternamente”.
In particolare, l’ultimo di questi criteri evidenzia la possibilità di parlare di fenomeni psicofisici che non possono essere trattati nell’ambito di una sola scienza. Ciò implica una rivoluzione epistemologica ed assiologica, di cui G. Durand si è fatto promotore: una epistemologia del significato che utilizzi le regole della similitudine e dell’omologia a differenza di quelle dell’esclusione di tipo ipotetico-deduttivo e affermi un’unica scienza dell’Uomo nella prospettiva di un sapere olistico senza frontiere che vede l’implicante, l’ologramma, il non-separabile, l’altrove determinare realmente l’aspetto, talvolta paradossale, dei fenomeni. Diviene dunque possibile conciliare attività poetica artistica e metodo scientifico (mythos e logos) e rinvenire un ordine metodologico, logico, epistemologico sia nella Scienza che nell’Immaginario. Del resto i primi pensatori all’origine della coscienza occidentale erano sapienti, ad un tempo filosofi, poeti, scienziati e siamo stupiti nel constatare che le loro straordinarie intuizioni concordano con le scoperte più avanzate dei nostri scienziati contemporanei. Ci sembra dunque assolutamente importante che questo argomento che caratterizza l’apertura della ricerca di Jung nel senso della transdisciplinarità sia trattato in maniera pianamente comprensibile anche ai non esperti di fisica quantistica.