Intorno al Graal – parte I Archetipo dell'incorporazione divina e sembianze della presenza
(da átopon Vol. I)

(Traduzione dal francese di Annamaria Iacuele)

Gilbert Durand

“La storia segreta del Graal
si può perseguire solo se si spezza ogni volta
il corso della storia essoterica collettiva”. 

H. Corbin En Islam Iranien. T. IV

Nell’enorme letteratura consacrata al Graal e già nella ventina di testi fondamentali che Jean Marx reperisce nell’area celto-germanica (la pletora di libri e articoli è del resto segno di un interesse che incontra molte difficoltà ) ci siamo confrontati con molteplici piste che tentano di esaminare, di spiegare, ma che sboccano raramente in una buona “comprensione” degli oggetti enigmatici che appartengono, insieme a molti altri, ai “Tesori di Bretagna”.

Proprio il tentativo di spiegare – come ha intravisto Julius Evola – cioè di ridurre il fatto policulturale del Graal a dei “pregiudizi” siano essi letterari, etnologici, sociologici, psicoanalitici, o piattamente storicisti, fa sì che venga a mancare la giusta comprensione del fenomeno.

Miniatura del XIII sec. dal Perceval di Chretien de Troyes
Miniatura del XIII sec. dal Perceval di Chretien de Troyes

Evola stesso si perde un po’ nel cercare di stabilire un “metodo tradizionale” che finisce a sua volta con l’insabbiarsi, nella ricerca di “qualcosa di superiore e di anteriore” alle manifestazioni scritte e leggendarie. Finisce così con il rifarsi non ad una trans -storia, una meta -storia, ma ad una banale pre -istoria, fonte luminosa del la Tradizione, che procede in maniera non diversa da quell’evemerismo che lo stesso Evola tanto critica. Sacrificio inatteso allo storicismo in cui il susseguente è determinato dall’antecedenza dell’ hoc !. Barattare lo storicismo aborrito con il preistoricismo non fa che respingere indietro ogni soluzione del problema.

Certamente Evola ha ragione quando constata che tale o tal’altro momento storico-culturale accentua il processo antropologico considerato – e esamineremo anche tali accentuazioni – ma ha torto quando suppone che ci sia stato un “momento” storico originario e kerigmatico che tiene celato il segreto del paradigma. Si tratta ancora una volta di pensare e ridurre il fenomeno in termini di temporalità storica e di storia unica, lineare e universale sul modello etnocentrico dello storicismo occidentale. Per sfuggire a questa sterile impasse è necessario “presentificare” l’oggetto studiato, utilizzare un “evemerismo rovesciato” nel quale ogni apparizione storica del Graal è l’esistenziazione di una grande immagine decisamente trans meta -storica. I prefissi (“aldilà ” e “a lato”) indicano la natura radicalmente non storicista del senso secondo una fenomenologia integrale preconizzata da Mircéa Eliade, C. G. Jung o Henry Corbin.

Eliade propone che nelle “scienze dello spirito” si demitizzino i moventi, i postulati, cioè gli assiomi di ogni demitizzazione, e che quindi si proceda ad una “demitizzazione al contrario” poiché i demitizzatori fondano surrettiziamente la loro ricerca su un mito puramente gratuito: l’Edipo in Freud, la “società senza classi” in Marx e, aggiungiamo, l’eta d’oro edenica in Evola.

C. G. Jung rintraccia nella scienza dell’anima ( psyché ) i termini ultimi (da noi già ricollegati alle strutture “antropologiche” del sapiens sapiens ), i famosi archetipi, energie produttrici delle Grandi Immagini (immagini archetipiche). Miti e Archetipi, “senza padre né madre” storici (proprio come Melchisedec), tutt’al più con padre e madre adottivi.

Henry Corbin infine, ha la chiara coscienza che la comprensione del senso può risultare solo dal percorso fenomenologico di un “corpus” esaustivo, per quanto possibile, delle epifanie dell’oggetto studiato: e come Pierre Gallais” ha sognato un “corpus del Graal”.

Il metodo di riferimento ai miti, agli archetipi, ai poemi, attraverso le più esaustive convergenze comparative (omologia, similitudine, analogia, ecc…), esclude beninteso ogni gerarchia che miri sia ad innalzare un esemplare mito originario, esso solo autentico, sia a fondare un assoluto pre-istorico di tipo guenoniano o anche abelliesco.

La ricerca dei nostri maestri – Eliade, Corbin, Jung – trova una alleata nella fenomenologia poetica di Bachelard. Il “metodo”, sbarazzatosi definitivamente di ogni tentativo di riferimento gerarchico e riduttore ad un avvenimento fondatore ( kerygma ), si propone di utilizzare la linea della Poetica della Revêrie in cui solo le “immagini rendono conto delle immagini” e in cui il senso è costituito dalla lettura e dagli engrammi degli avvenimenti accumulati, delle convergenze. Senso che, quindi, è sempre in divenire, aperto, incompiuto, di quella incompiutezza costitutiva di cui parla così spesso il grande specialista di romanzi medievali Pierre Gallais.

Oancora, se si vuol utilizzare un altro linguaggio, quello della biologia di H. Waddington o di R. Sheldrake – in concordanza del resto con “l’implicazione” cara a Bohm – diciamo che ciò che “determina” tali fenomeni biologici o antropologici non deve essere cercato nei moventi di “lunghe catene” di ragione, ma in una “forma causativa”, una sorta di onda di identificazione che rimbalza, indefinitamente portatrice dei suoi singolari significati. Sono ancora i suffissi “trans” “meta” che propongono la loro immagine: nel circondario sincrono e ridondante dei fenomeni risiede la loro comprensione. Per questo abbiamo scelto il titolo: Intorno al Graal, perché proprio l’interconnessione delle periferie è il “treno d’onda” specifico che illumina, cioè che costituisce, il suo centro emissario. Ciò che illumina il fenomeno non è un legame deduttivo con un altro fenomeno antecedente o un legame logico di interconnessione di differenze specifiche in un “genere prossimo”, ma piuttosto un indice di “risonanza semantica” che percorre nella sua singolarità significativa tutto un immenso spazio antropologico in cui si ritrovano le ridondanze di ciò che potrebbe essere chiamato – metaforicamente – una “frequenza semantica”.

Per riassumere, secondo una visione delle cose che la fisica più moderna (David Bohm) ha riscoperto, non bisogna cercare di spiegare il Graal, ma domandarsi ciò che il Graal implica nella costellazione sempre aperta delle sue apparizioni.

Certamente ci sarà sempre rimproverato d’aver “troppo abbracciato”, con un comparativismo troppo vasto, similitudini “apparenti”… Notiamo per prima cosa la debolezza di tanti pedanti che professano di “paragonare solo ciò che è paragonabile”: frigida ed impotente tautologia poiché per dire ciò che è paragonabile bisogna che si sia già fatto il paragone!

Noi al contrario riteniamo che sia necessario, per quanto possibile, paragonare il non paragonato. Senza tuttavia lasciarsi intrappolare da avversari in malafede, che procedono ridicolizzando, denunciando per mezzo di amalgami e non di paragoni, come Umberto Eco che rimescola alla rinfusa in un ‘calderone da strega’, tutti gli esoterismi aborriti mentre scrive contro gli stregoni una requisitoria ironica degna del Protocollo dei Saggi di Sion .

Ancora una volta la rete delle comprensioni non è dettata da ipotesi e umori del ricercatore. Nelle omologie del comparativismo c’è una obiettività il cui contrassegno è il carattere euristico se non pragmatico. Per esempio, Pierre Brunel, per spiegare il mito della metamorfosi esplicitato in Anatole France, Kafka, Raymond Roussel, Lewis Carroll ma già in Ovidio e Apuleio, è ricorso al Popol-Vuh dei Maya Quiché o al Koji-Ki dell’antico Giappone, facendo scaturire da questo ampio confronto assi di comprensione che permettono di “cogliere” le intenzioni antropologiche del mito: antropogonia, crescita, degradazione, palingenesi.

Ciò che dirige la ricerca e la scoperta è l’accumulo costellante di reticolati oggettivi. Proprio i “censimenti completi” che non disprezzano alcuna “parte maledetta” dell’Immaginario umano ci autorizzano a costruire tavole sincroniche (C. Lévi-Strauss) e a perfezionare così la comprensione del fenomeno studiato.

Non è forse necessario in ogni ricerca (e soprattutto in quella che si avventura attraverso gli isolotti, gli scogli a fior d’acqua e i meandri dell’esoterismo) completare il puzzle, secondo l’espressione di J. Frappier, e colmare le lacune inerenti ai cammini discreti, se non segreti, della ierofania? Ce ne hanno dato l’esempio gli specialisti che prima di noi si sono impegnati nello studio dei “testi del Graal” (o dei testi alchemici. Cfr. F. Bonardel) e anche di ogni “racconto” mitologico, tappando i buchi delle versioni, rattoppandone il tessuto mitico con parti presenti altrove. Un dizionario di mitologia (P. Grimal) o una “integrale”, come quella di Tristano fatta da J. Bédier non sono costruiti in maniera diversa. L’autore anonimo del “Haut Graal”, Perlesvaus , non esita a dare al castello del Graal a volte il nome ebraico di Eden, a volte quello di “Chteau de la Joie” preso in prestito dalla giovane tradizione dell’ Erec di Chrétien de Troyes, a volte, infine, Isola della Gioia, Isola delle Anime dell’Altro Mondo dell’antica tradizione celtica…

Per quale “ragione di Stato” non dovremmo fare altrettanto?, In materia di veracità, non è altrettanto sicuro cercare nei documenti positivamente reali delle relazioni “sincroniche” confluenti (C. Lévi Strauss) che supporre legami causali e diacronici in un passato più o meno lontano, ma sempre lacunoso, in cui storici, l’archeologi, o paleontologi architettano i loro determinismi senza appello? E quando la trama di un mito è così logorata da nascondimenti, così smarrita e perduta a causa delle rimozioni della nostra civiltà positivista e tecnocratica, non è forse legittimo andare a cercare “altrove”, nelle “riserve” di umanità che sopravvivono qua e là nel cuore delle foreste africane e indiane, dei deserti di sabbia o di oceano, e di ciò che la nostra civiltà etnocida ha trascurato o perseguitato: “selvaggi”, “infedeli”, “eretici” e… artisti?

Se si applicano queste considerazioni al Graal dobbiamo prima di tutto dire che non c’è un Graal prototipo: né quello dei Celti o dei Persiani, né quello degli Sciti o della tradizione Indo-Europea. E d’altro canto non c’è nemmeno un Graal di minor valore: né quello della pseudomorfosi cristiana, né quello di Richard Wagner, né quello di tutti i registi, di teatro o di cinema, del Parsifal : Adolphe Appia, Geyling, Alfred Rollers, Wieland e Wolfang Wagner, Götz-Friedrich, Chéreau, Eric Rohmer, H. J. Syberberg, come pure dei pittori del Graal: A. V. Beardsley, Paul Dauce, Lima de Freitas, Sophie Busson o Carmelo de la Pinta… Allo stesso modo una Età d’oro preistorica non è stata più “età d’oro” di quanto non lo sia stata quella dell’Imperatore Augusto (J. Thomas) o l’Edipo dei Tragici Greci, sebbene “senza complesso” (J. P. Vernant), non è stato più edipico di quello di Freud…

Dunque, dopo aver demitizzate le riduzioni storiciste e preistoriciste, accettato il concetto operativo di Grande Immagine (immagine archetipica), applicata la fenomenologia dell’immaginario e intrapreso un vasto censimento, possiamo anche porci la domanda: “Che cosa è il Graal?” che tradurremo: “Qual’è l’implicazione del Graal?”.

Dobbiamo tuttavia ancora notare che dal punto di vista metodologico, come aveva detto Descartes, “l’ordine della scoperta non è quello dell’esposizione” didattica. Dalla confusione di questi due ordini nascono inestricabili difficoltà.

In questo caso la “scoperta” è la lettura, o l’osservazione, fenomenologica – la “venatio Panis” che insegue “pacchetti” (sciami, costellazioni, sincronismi, ecc…) di convergenze semantiche; e da queste convergenze parte l’esposizione che classifica in un quadro o in un discorso “mitografico” diacronico. Perciò, esponendo i risultati della ricerca, esamineremo quattro insiemi sincronici (che si possono suddividere a loro volta in sotto-insiemi):

1) il tratto costante di imprecisione, di incertezza degli oggetti del Graal che rinvia all’esoterismo del senso e all ‘implicazione archetipica ;

2) il carattere iniziatico dello svolgimento dell’avventura segnalato dall’essere iniziaticamente collocato in un sodalizio ordinato (corteo);

3) il carattere generale di contraddittorietà del simbolismo e delle funzioni dei “talismani” del Graal che sviluppa una intenzione permanente di Coincidentia oppositorum ;

4) infine il carattere bene fattore, terapeutico o rettificatore, tratto che l’avventura del Graal condivide con ogni quête iniziatica

Nell’intento di darci una definizione operativa del Graal approdiamo ad una singolarità : “i talismani” del Graal (J. Marx) sono molteplici e il Graal stesso è a volte la coppa famosa, a volte la pietra (Wolfram von Eschenbach), a volte il libro (Vercoutre); diciamo dunque che si tratta di un insieme coordinato di oggetti che incorporano il sacro, o la potenza divina. L’“archetipo dell’incorporazione” è a un primo approccio facilmente classificabile nelle strutture che abbiamo chiamato “mistiche” (secondo gli etnologi: strutture che poggiano su una “logica di partecipazione”. Cf. G. Durand, op. cit. ). Tali strutture danno agli “oggetti meravigliosi dell’Altro Mondo” (J. Marx) la definizione più generale e riassuntiva attraverso l’immagine archetipica del “contenente”; ne è certamente paradigma la famosa coppa del Graal, ma paradossalmente anche la lancia che sanguina.

I. IMPLICATIO. Oggetti ed esoterismo dell’incerto.

La prova del carattere archetipico di questi oggetti (carattere secondo noi “presostantivo”, a livello dell’azione “espressa dal verbo” che qui è “incorporare”) traspare dal carattere primo e costante di instabilità e vaghezza sostantiva, raddoppiato dal rifiuto antropofugo di assimilare ogni “Graal” a un idolo, o ad una semplice icona dalla figura umana. Proprio la “vaghezza” sostantiva ha fatto sì che molti specialisti diffidassero delle derivazioni cristiane teologiche troppo precise (il pane, il vino, ecc…) e troppo antropomorfiche (simboli di Gesù Cristo) e privilegiassero modelli precristiani celtici (Jean Marx), sciti (Grisward), persiani (P. Gallais) distanziando più facilmente il kerigma antropomorfo dell’ “Uomo Dio”.

Si potrebbe quasi avanzare l’ipotesi che il “Graal” sia non figurativo e che metta una certa distanza iconoclasta, pur senza essere iconoclasta,.

Notiamo che la Chiesa cattolica romana fa una distinzione sottile tra il culto delle immagini o “dulie”, semplice onore reso al modello rappresentato, e il culto di adorazione o “latria” dovuto alla sola Presenza Divina, la cui “presenza” canonica è nel pane e nel vino eucaristici. Si deve notare che questa “latria” non figurativa è stata promulgata dal Concilio di Trento che nello stesso tempo – di fronte alla iconoclastia decisa dalla Riforma – darà una parte così importante all’arte figurativa, antropomorfa ed espressionista del barocco. Sottolineiamo come la “ querelle delle immagini” che assilla l’iconoclastia più o meno forte delle “religioni del Libro” (giudaica, cristiana, musulmana…) – anche se non è loro esclusiva – accentua il carattere simbolico della rappresentazione del “sacro” o anche del “santo”. Il velamento precauzionale del simbolizzante rende questo ultimo ipersimbolico.

Il culto di adorazione delle figure antropomorfe è del resto episodico – se non tardivo – nella Grecia classica. L’umanismo dei Tragici e dei Filosofi è passato di là. Parallelamente sembra che in Grecia l’adorazione sia votata ad oggetti non direttamente figurativi: alberi o luoghi sacri e pii, betili, come l’Onfalo di Delfi, l’Altare di Delo, l’Erma (pietra o pilastro fallico) di Ermes (C. Kérény, l968). Ciò è ancora più netto nella religione romana. Senza soccombere al “manaismo” di M. H. Wagen Voort (assimilazione del numen romano al mana melanesiano) Georges Dumézil ( op. cit., l966) riconosce che l’essenza del sacro è nel numen dei , il volere del dio liberato, grazie alla non figuratività, dai sovraccarichi antropomorfi della mitologia romanzata dei Greci. Tuttavia, anche Dumézil, avversario del “primitivismo” (teoria che stabilisce una precedenza storica del numen sul dio ), pensa che gli indigitamenta (entità non figurative) “economi di precisione” ( sic ) e i grandi idoli figurati, Marte, Giove, Giunone, non sono confusi.

Eludendo le querelles storiciste di anteriorità e l’assimilazione (falsa secondo Dumézil) tra numen mana , notiamo che accanto agli dei figurati (“poveramente” a Roma secondo Dumézil), accanto alle entità non figurate ( indigitamenta ) esistono anche simboli concreti che rappresentano non figurativamente il dio: fuoco del focolare (Vesta), lance (le famose Hastae Martis ), “pietra del fulmine” ( Juppiter Lapis ), pietra nera (Cibele), ecc…Tutti “oggetti meravigliosi” che si ritroveranno spesso, immagine per immagine, negli inventari del Graal: pietra di Fail, spada di Nuadu, lancia di Lug, calderone di Dagda…

Bisogna sottolineare la differenza tra il religiosus – vedi theologicus – e il magicus , tra i canoni della figuratività e le definizioni religiose e i “talismani” (la parola è di J. Marx) operativi. Gli uni e gli altri non hanno la stessa destinazione, e C. Lévi Strauss sottolineava già che il mito non corrisponde al rito in una data cultura. Tuttavia una religione si dissecca e si secolarizza in semplice morale quando si separa dalle liturgie rituali o sacramentali, proprio come queste ultime divengono pura operazione magica quando dimenticano il loro supporto giustificativo e commemorativo, il sermo mitycus fondatore.

La non figuratività antropofuga costante degli “oggetti meravigliosi” è la firma di ogni esoterismo che si trova sopra – o sotto! – l’esteriorizzazione esplicita degli essoterismi. La differenza di livello tra esoterico ed essoterico – sottolineata da Corbin – denota la tendenza del primo a fuggire l’antropomorfizzazione mentre l’altro, al contrario, si avvicina ad una figuratività antropomorfa (portando con sè tutte le difficoltà delle situazioni storiche, culturali del modello). Tale differenza può brevemente essere tipizzata nel caso dell’esoterismo dal “mistero” eucaristico, nel caso dell’essoterismo dall’icona del “velo” di Veronica.

Negli universi delle religioni afro-americane (Vodù di Haïti, Candomblé e Shangô brasiliani, ecc…), esplorati grazie a R. Bastide, di A. Métraux, di P. F. Verger e M. Augras, ad esempio, le “rappresentazioni” antropomorfe degli Orishas (divinità ), spesso manichini che brandiscono gli accessori segnaletici del dio, sono modelli, “patroni”, essoterici di comportamento, di mantenimento liturgico e vestimentario per l’adepto. “Patterns” facilmente assimilati alle statue di San Sulpicio della agiografia dei missionari cattolici, mentre le vere collocazioni ( assentos ) differenziate degli dei sono esotericamente costituite da un “insieme di oggetti che serve da supporto alla presenza reale e costante” del dio (M. Augras e A. Guimaraés, op. cit .).

Ancora più illuminante sull’omologia tra nostri talismani del Graal e gli “assentos” africani è il “paniere di giustizia” ( Kweemi a ishaam’l ) bakuba che Madiya C. Faïk-Nzuji descrive e commenta. Il “paniere” – raddoppiato – del re Bakuba, trasmesso dall’Essere Primo al primo re attraverso l’intermediazione del Demiurgo, oltre alla sua forma suggestiva di recipiente con ansa e coperchio, contiene sia “le insegne regali: pelle di leopardo, piuma d’aquila, piuma di pappagallo”, sia il caolino “che serve ad ungere il futuro re al momento delle cerimonie di intronizzazione”. I “panieri” sono i ricettacoli simbolici dell’autorità suprema e della saggezza del Creatore. Sul coperchio “tappo pressato” che assicura la sicurezza troviamo tre cerchi concentrici e al centro lo scarabeo ( nieemy ) simbolo sia dell’unità gerarchica del popolo: re/notabili/popolo, sia dell’unità e della solidarietà della nazione. Elementi simbolici sono anche sull’ansa del paniere (ornata con cauris , emblemi della ricchezza materiale e con segni astratti che designano il fuoco del focolare) e sul corpo, coperto da quattro segni a losanga chiamati “la casa – il lignaggio – del re” al centro dei quali è figurato un segno formato da due squadre a testa rovesciata*. Tutto ciò fa di questo talismano del potere legittimo un tipico esempio del “seggio degli dei”.

L’attenta considerazione di questi assentos degli dei ci riporta a due segnalazioni di capitale importanza per i nostri “oggetti meravigliosi”.

Per prima cosa troviamo negli elementi costitutivi degli assentos del Candomblé la stessa incertezza e la stessa pluralità che si ritrovano negli “oggetti meravigliosi” del Graal quali coppa, pietra, cesto, hanap , spada, lancia, scodella, calderone, dunque, grosso modo, “recipienti” e armi (la pietra è spesso un proiettile di fionda). Il “seggio” del resto è chiamato anche col nome yoruba igba , la “zucca”; molto spesso i diversi assentos sono contenuti in un recipiente: catino di terracotta ( alguidar ) per Eshou, pieno di olio di palma, catino di terracotta pieno di olio di palma o di miele per Ogoun, piatto in terra d’argilla ocra per Oshossi, scodella in terracotta per Logounèdé, scodella in legno ( gamela ) per Shango, zuppiera bianca di Oshala o di Jémania. I colori hanno un ruolo simbolico efficace nella ripartizione teofanica di questi “seggi”.

Ma oltre ai contenuti liquidi appropriati, si trovano altri oggetti familiari ai lettori del ciclo bretone. Nell’argilla del igba di Eshou è piantato l’utensile di ferro (ferramenta) a tre o sette punte del orisha così come differenti pezzi di moneta (monete metalliche o conchiglie chiamate cauris ). Il catino di terra di Ogoun, dio metallurgo della guerra, contiene un minerale di ferro, una hampe in ferro in cui sono fissate delle miniature di utensili agricoli o artigianali (incudine, martello, ecc.); in quello di Oshossi, divinità della caccia, oltre ad uno o più ciottoli di fiume, come in quello di suo figlio Logounèdé l’arco e le frecce…

Ritroviamo ancora la stessa pluralità ordinata di “oggetti meravigliosi” negli altari dei culti dell’Africa continentale. Per esempio nei tre altari (myanaw) di una società iniziatica bambara (il Koré ) studiata da Dominique Zahan si ritrovano i contenitori simbolici, le “pietre di tuono”, i cauris; nel Koré dyo un oggetto dalla polarità sessuale nettamente segnalata: pene monumentale che si erge fuori della terra, sormontato da un vaso contenente a sua volta ventuno “oggetti”.

A nche nelle nostre religioni occidentali l’altare consacrato presenta un altrettanto complesso insieme di oggetti “incerti” perché variabili secondo i riti. “L’altare” nella religione cristiana non si riassume nella funzione di ostensorio del calice: è obbligatoriamente una pietra (J. Hani), contiene una reliquia, generalmente frammenti d’osso , sostiene i calici calix minor, crater maior, scyphus ), le patene ( patena o discos ), i cibori (dapprima pyxides o custodes) , un tempo le zampogne (fistula, sipho, arundo, ecc…) o il colino (“passino”) ma soprattutto – importante nella comparazione con gli “oggetti meravigliosi” del Graal (J. Marx) – la lancia liturgica (nella liturgia bizantina di San Giovanni Crisostomo la lancetta serve a tagliare la parte centrale dell’ostia – la prosphora – chiamata l’agnello, amnos , sola consacrata, durante il “preludio” alla messa propriamente detta, o protesi ), senza contare le ampolle, e gli acquamanili (P. Haegy).

Jean Hani non ha difficoltà a trovare nei differenti altari del tempio di Salomone (olocausti, profumi, pani di offerta…) una panoplia di oggetti diversi: candeliere a sette braccia, dodici pani di offerta, tendine, incensori , che gravitano intorno alla shethiya , la “pietra” del Santo dei Santi sulla quale posava l’arca che racchiudeva le tavole della legge così come la verga di Aronne e una misura di manna .

Esaminando pur rapidamente nei diversi “riti massonici” (J. Naudon, D. Ligou) l’altare (che è il tappeto della loggia e non la “piattaforma” del Venerabile Maestro), constatiamo anche in questo caso una collezione a prima vista disparata: squadra, compasso, pietre (grezze o cubiche), livella, regolo, sole, luna , o “lumi” rinforzati dalle tre fiamme che sormontano i tre pilastri, ecc…

Aggiungiamo a questo insieme le raffigurazioni della Tabula Smaragdina figura alchemica corrente a partire dal XVI e XVII secolo in cui si ritrovano con una rimarchevole costanza, inscritti in un cerchio o un ovale, che porta la famosa massima V.I.T.R.I.O.L. ( Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem ) i sette pianeti chimici di cui Mercurio figura come una coppa in cui si riversano, attraverso dei canali, l’oro solare e l’argento lunare. (A. Faivre e J. Telle, in Chaiers d’hermétisme 1988 ).

In ogni caso in questi esempi di “altari” delle diverse tradizioni, spesso molto lontane le une dalle altre (Bambara e Cristiana, ad es.), benché ci sia una proliferazione simbolica inizialmente disparata, non c’è mai una figura antropomorfa, ma tutt’al più figure animali (i Cherubini simili ai tori alati dalla testa d’uomo delle religioni assirie che sostengono l’arca nel Santo dei Santi in memoria della famosa visione di Ezechiele, la merkabah e i “quattro viventi”).

Ugualmente sull’altare Bambara del Koré dyo (D. Zahan) si trova un cranio secco e zampe di avvoltoio, ossa di cavallo, di ippopotamo, di lamantino.

Non possiamo qui considerare le rappresentazioni divine terio-morfe dell’Egitto Antico, pur di grande interesse (cfr. A. Diop).

Il secondo tratto che deriva direttamente dall’assenza di antropomorfizzazione degli “oggetti meravigliosi” è l’esoterismo. Infatti la non figuratività degli ‘oggetti meravigliosi’ è garante del loro segreto, del loro esoterismo. Il rifiuto dell’antropomorfosi impedisce l’accesso diretto a un idolo e costringe alla trasmissione (traditio) di un insegnamento. Non si tratta più di una volgare “bibbia di pietra” o di legno, ma di un insieme di oggetti il cui simbolismo e le cui interrelazioni necessitano un’educazione e una iniziazione (P. Gallais), come nei casi citati.

Il dramma del nostro “Graal” occidentale è forse prima di tutto di aver spezzato, dunque perso, il suo giustificativo trasmesso attraverso la catena iniziatica. È forse questa interruzione che accentua ancora il carattere lontano, disparato, incompiuto di tutto ciò che si riferisce al Graal nei nostri testi medioevali? Questi caratteri non sono sfuggiti ai nostri medievalisti (J. Ribard, J. Frappier, P. Gallais). Per quest’ultimo l’incompiutezza ripetuta delle opere di Chrétien de Troyes è significativa. Jacques Ribard è sensibile alla vaghezza, al carattere non descrittivamente naturalista dei paesaggi dei nostri romanzi, mentre Jean Frappier parla di “giustapposizioni incoerenti” dei nostri racconti. Queste “incertezze” sono per noi il segno stesso del rifiuto dell’essoterico che situa, descrive, incatena con una precisione teologica gli oggetti. Esse sono il segno di una soprasimbolizzazione che mira al significato e si ferma poco al significante, che mira all’esoterico del senso. Ma, qualunque cosa sia accaduta a questa “parola” se non perduta per lo meno velata, riportiamo dall’analisi succinta del primo “mitema” del Graal (il suo esoterismo simbolico e la sua indeterminazione oggettuale impediscono ogni idolatria essoterica) il carattere archetipico primo della “incorporazione divina” che attraverso il gioco metaforico o semplicemente metonimico del simbolo investe una grande pluralità di oggetti.

II. INITIATIO. Corteo e quadri iniziatici. 

Studiando il carattere iniziatico dell’opera di Richard Wagner che culmina nel Parsifal, moderna “continuazione” di venti o più racconti medioevali, siamo stati colpiti dalla costanza dei sodalizi spirituali, se non iniziatici, presso l’illustre creatore del “Dramma lirico”. Sodalizio dei Minnesänger del Tannhaüser al quale fa eco il sodalizio, tutto borghese, dei Meistersinger , sodalizio dei Cavalieri di Franconia, come Walther von Stoltzing, dei cavalieri del Graal che già fanno da sfondo al Lohengrin , e direttamente sulla scena nel Parsifal . Notiamo di passaggio che il sodalizio ultimo dei Cavalieri del Graal, chiave di volta di tutta la filosofia di Wagner è situato “in Spagna”, paese “orientale” per la sua impregnazione giudea e araba, al quale fa da pendant nella mente del compositore, nella stessa epoca, il progetto di un dramma buddista Die Sieger .

Ora se questo sodalizio, malgrado i sarcasmi di Nietzsche, ci appare lontano dal sacramento cristiano dell’Eucarestia, bisogna tuttavia sottolineare che anche quest’ultimo è rimasto a lungo iscritto in un contesto iniziatico manifestato dalle tappe del “catecumenato”: non soltanto l’atto di incorporazione radicale, che è la transustanziazione, o la consustanziazione luterana, non può essere effettuata che da un prete che ha ricevuto i sette ordini minori e maggiori, ma anche la comunione con le “Sante Speci” non può essere data che al catechista (l’insignito) che ha già superato gli scalini dei tre sacramenti che sono il Battesimo (obbligatorio), la Penitenza (in caso ce ne sia la necessità ) e infine la Cresima. Il catecumenato implicava del resto che fosse interdetto al catecumeno, considerato come “profano” assistere al canone della Messa (prima dell’Offertorio il diacono ingiungeva al profano di “ritirarsi”). A San Cirillo di Gerusalemme la gerarchia del catecumenato è ben sottolineata: 19 Catechesi sono riservate ai catecumeni non battezzati, 5 sono mistagogiche indirizzate – la settimana di Pasqua – ai nuovi battezzati. Il Concilio di Elvira nell’anno 300 fissava a due anni il catecumenato; la semplice preparazione al Battesimo era costituita da due gradi: audientes dapprima, poi competentes. 

Del resto tutto il Corpus romanzesco del Graal in Occidente comporta obbligatoriamente il compagnonaggio guerriero dei Cavalieri del Graal, che Wace e Goffredo di Monmouth tipificano nei Cavalieri della Tavola Rotonda e della Corte di Re Artù, confusi più tardi con i Templari (Wolfram) o, in un’antitesi simmetrica, con la corte del Re Pescatore. Poiché la tradizione irlandese (cf. J. Marx) fissa a dodici i posti (archeologicamente piccole tavole individuali) dei cavalieri in circolo, Robert de Boron non ebbe difficoltà a collegare il racconto della Cena e dei dodici Apostoli con quello della Tavola Rotonda arturiana e anche con quello della tavola del festino del Castello del Graal.

Nel sodalizio arturiano (cf. P. Gallais) abbiamo a che fare allo stesso tempo con una semplice educazione e con un’iniziazione. La differenza sta nel fatto che l’educazione ha bisogno di precettori che trasmettano, mentre l’iniziazione mette semplicemente un “cercatore” – attraverso l’intermediazione del sodalizio – di fronte al suo proprio “cammino” e ai suoi pericoli e ostacoli. Perceval è la pianta selvaggia, la “regina Tor” di Wagner, è dal lato della natura, e l’iniziazione consisterà nello svelare attraverso la sofferenza la perfezione di questa “Natura perfetta”. (P. Gallais trae lumi dalla “Natura perfetta” della tradizione iranica, al-Tiba’ al-tmm, studiata dal grande islamista Henry Corbin).

Gli “oggetti meravigliosi”, segnalati dal loro ipersimbolismo, dal loro esoterismo, e dalla loro distanza dalla figura dell’uomo “caduto”, sono sempre accompagnati dal“corteo” iniziatico.

Confrontandoci con le culture africane e afro-americane, rinviamo a D. Zahan e P. Fatumbi Verger, J. Girard e M. Griaule. Non insisteremo sulle fasi del vero “corteo” temporale, (cf.P. F. Verger) che si costituisce durante i 17 giorni di iniziazione “nella casa della morte” ( igbo iku ) e il cui preludio è la cerimonia della “veglia” ( aisun) che evoca la “veglia” dell’iniziazione cavalleresca. Notiamo ancora tuttavia la processione del primo giorno, per andare ad attingere l’acqua: l’iniziando con la testa coperta da un velo bianco ( älä ) porta l’acqua con cui viene lavato, e, abbandonati i suoi stracci rituali, è rivestito da un perizoma bianco. Cerimonia d’ anlodo in cui si trovano ad un tempo le purificazioni battesimali, i simboli di accecamento, e quindi di “cambiamento” e a cui fa seguito famoso “battesimo di sangue” ( afèjêvè ) di cui l’iniziazione massonica ha mantenuto una (debile) traccia (C. Naudon).

P. F. Verger ha ben visto che l’ “iniziazione” inquadrata dal sodalizio e i rituali degli iyawoorisa già iniziati, sono fatti “non per rivelare un segreto sconosciuto ai non iniziati, ma per far loro ritrovare (sottolineatura nostra) un certo comportamento presente in loro allo stato latente”. Secondo Verger l’iniziazione è, come per P. Gallais, una “liberazione” della Natura Perfetta, “inibita ed alienata” dalle circostanze della vita profana. Non educazione o insegnamento educativo artificiale, ma corteo temporale e spaziale che permette l’emergenza di questa “Natura Perfetta” divina (H. Corbin) che si manifesta direttamente nei culti di possessione qui segnalati.

Ora una delle parti principali dell’evocazione del Graal è il famoso corteo la cui “significanza” P. G. Sansonetti ha paragonato con il corteo delle famose feste del S. Spirito nelle Azorre. J. Marx ( op. cit., cap. IV) ci mostra il legame del “corteo” celtico dei talismani regali e della “processione” del Graal in Chrétien de Troyes, infine la parentela tra questi cortei e la “processione” bizantina. Segnaliamo per prima cosa che nei “cortei” del Graal, come nel “corteo” delle Azorre “non c’è prete”, il che sottolinea l’aspetto archetipico, extraconfessionale di questa cerimonia, in quanto significa che l’entrata nella via, l’ in iziazione è diversa da un magistero o da un sacramento che sono funzioni ecclesiastiche. Il sodalizio dei confratelli è un quadro iniziatico. È l’iniziato stesso che deve scoprire la via, come dice con grande profondità il cavaliere Gurnemanz nel Parsifal di Richard Wagner (atto I): “Ciò che è il Graal… non si può dire, ma se tu sei stato eletto, il suo senso ti raggiungerà… non c’è alcun cammino che porti a esso nel paese e nessuno può servirsene che non sia egli stesso una guida …”

Sansonetti, riprendendo un suggerimento di P. Gallais, propone di guardare “dall’alto” i cortei. Procedimento che spazializza, per così dire, le presenze dei protagonisti che sfilano nel tempo davanti alla tavola del Re Pescatore a cui siede Perceval. I cortei sono ordinati secondo un insieme quinario significativo che Sansonetti avvicina arditamente alla forma della runa algiz o “runa del cervide” (slancio), figura d’albero triforcuta con prominenza della punta centrale. Quest’ultima in posizione di avanguardia, è il posto del “valletto” portatore della lancia che sanguina (nel corteo delle Azorre la lancia è sostituita dall’asta della bandiera del Santo Spirito di colore rosso e ornata dai bianchi emblemi paracletici: colomba, corona, ecc…). Talvolta in testa al Corteo viene portato lo “scettro” dell’Imperatore sormontato da un globo e dalla Colomba Paracletica. Le due punte laterali del tridente sono il posto dei due “valletti” portatori dei “candelieri d’oro” in ciascuno dei quali bruciano “dieci candele” (nelle Azorre ritroviamo questi due portatori di candelieri). La runa algiz è ravvicinata dagli specialisti ai gemelli germanici o alci (L. Musset, R. Boyer).

Vengono in seguito la famosa “damigella” portatrice di un Graal “grande piatto concavo” da cui emana un vivo chiarore che segnala l’insigne rango di questo oggetto collocato al centro del quinario processionale. Chrétien de Troyes dice che il corteo si apriva con i valletti portatori della lancia e dei due candelieri, e che il “Graal si presentava alla testa del corteo”, significando l’importanza capitale di questo oggetto sacro. Nel corteo delle Azorre questo è anche il posto dell’oggetto più sacro: “il” Graal ha qui l’aspetto della pesante Corona Imperiale in argento ornata di fiori bianchi cesellati nel midollo del fico.

Infine il corteo si chiude con un’altra damigella che porta un “tagliere” d’argento (piatto per tagliare le carni). Nella tradizione delle Azorre ritroviamo stranamente lo stesso “piatto” sorretto in questo caso da un piede – terzo “oggetto” essenziale della cerimonia portoghese – il quale a sua volta, quando non sostiene più come piedistallo la corona imperiale, è portato da una donna.

Nella presenza officiante delle donne (le conubiae del cattolicesimo irlandese) non si deve vedere un segno di distanza o di ripudio del Cattolicesimo romano, piuttosto il ricordo costante dell’emergenza dell’androgino che contrassegna la “Natura Perfetta”.

Aggiungiamo che la carne se non è servita su questo “tagliere” è presente, nelle Azorre, dal Venerdì che precede la Domenica del Corteo, grazie al sacrificio e alla masticazione del sangue cotto del toro, animale che fornirà al banchetto ( bodo ) della Domenica la “zuppa del S. Spirito” e il ragù rituale.

Sarebbe possibile ricollegare i posti del corteo iniziatico ai dieci posti di “ufficiali” nei rituali massonici che J. Boucher sovrappone, posto per posto, a quelli dell’albero sefirotico. I primi cinque sono chiamati “Luci della Loggia”. E, come nei nostri “cortei”, c’è la messa in atto non di uno solo, ma di un doppio quinario, un denario su tre colonne, due laterali di rigore/forza e di clemenza/saggezza, uno centrale di “bellezza”. È dunque evidente che il corteo, come la spazializzazione intera del “tempio” (loggia) iniziatico è fortemente significativo e portatore di carica simbolica.

P. G. Sansonetti, riferendosi a Eliade, H. Frankfort e Evola, confronta la singolare configurazione dei cortei esaminati e della runa algiz con le diverse figure dell’albero della vita ( arbor vitae) che si trovano anche nella forma di alcuni crocifissi (come quello di Nicola Pisano nella cattedrale di Siena) e nella “croce di vita” ( ankh ) degli antichi Egizi, ornata spesso da due braccia in preghiera (il Ka , doppio spirituale) al sommo dell’asse del mondo ( died ) mentre brandisce il disco solare. La croce ansata ( ankh ) si iscrive curiosamente, per quel che riguarda le proporzioni, nel pentagramma stellato (“la stella fiammeggiante” dell’iniziazione massonica con al centro la misteriosa lettera G letta da Jules Boucher come con l’iniziale della parola Graal). Ricordiamo che l’ordinamento del corteo è quinario. Osservando che che i cinque triangoli che formano l’irraggiamento del pentagramma hanno ciascuno angoli di 36° e 36° X 2 = 72°, troviamo il triangolo sublime dei pitagorici, (angoli 36°, 72°, 108°) di cui Lima de Freitas, in dotti studi ha mostrato il significato paracletico “trasformatore”.

La costellazione che collega sempre i rami del cervide all’ arbor vitae , esplicitamente presente nel corteo del Carro di Strettweg (età del ferro) lo è doppiamente nel corteo del Graal: il “tagliere” è fatto per tagliare la carne del cervo, carne consumata alla presenza del corteo da Perceval e dal suo ospite il Re Pescatore e servita su un altro tagliere.

Si potrebbero studiare con Hartley Burr Alexander i significati dei “rami” del cervide equivalenti all’ arbor mundi presso gli Indiani (Hopi, Maya, Pawnee, ecc.) d’America.

Nella Cristianità, da Origene, il cervo è l’emblema dell’Uomo Nuovo, il Cristo. Così il crocifisso tra i rami del cervo segna l’apparizione dell’Uomo Nuovo a Sant’Eustachio, a Santa Idda di Toggenbourg, a San Felice di Valois, contemporaneo di Chrétien de Troyes; un cervo bianco che porta la croce rossa e blu è l’emblema dell’Ordine dei Trinitari. Cervi “dieci corna” (2 x 5) inquadrano la luce del primogenito in cui Lima de Freitas nel suo sapiente studio riconosce il numero “trasmutatore” 5.1.5.

Troviamo la stessa costellazione nel Markandeya-Purana (H. Zimmer, P. Gallais) quando il saggio Markandeya vede apparire un fanciullo luminoso e bello nelle tenebre dell’albero cosmico. P. Gallais si meraviglia di trovare tale e quale nella seconda Continuazione Continuazione detta di Wauchier): un bambino dai cinque ai sei anni, seduto sull’alto ramo di un grande albero, che tiene una mela in mano… Ancora la stessa costellazione si trova nel curioso episodio della “testa del cervo bianco” sospesa ad un albero immenso (con qui degli scambi di modi attivi/passivi abituali in materia di immaginario) al quale Sansonetti dà un senso mercuriale.

Evola avvicina la runa del cervide ( algiz ) ad una statua di Ermes con le braccia alzate a “V” proveniente da un tempio di Samotracia che rappresenterebbe la corporeità mercuriale liberata dal tempo saturniano, il “corpo glorioso”, “Corpo di Luce”, “Natura Perfetta” (cf. H. Corbin). Sottolineamo che il cervo – sposo divino del Cantico – è chiamato in ebreo ‘ayyal, ‘ayil “ariete” e ci rinvia all’agnello (ariete a sette corna!) in cima alla montagna di Sion, al centro della Gerusalemme apocalittica. Nel famoso polittico di Van Eyck a San Bavon de Gand (cfr. M. T. Mallman) abbiamo una illustre rappresentazione dell’agnello – il cui altare sovrasta la “ fons vitae” ottogonale – che riempie del suo sangue la coppa.

Senza soffermarci su tutta la costellazione simbolica che conduce dal cervide all’ariete o all’agnello, passando per il simbolismo di Agni, del Vello d’Oro, del segno zodiacale iniziale in cui l’ariete e il fuoco sono associati, ricordiamo soltanto l’ariete di Ermes crioforo – emblema cristico – la cui allusione ad Ermes ci riporta al simbolismo della “Natura Perfetta”, “l’Adamo Primordiale”. Corbin sottolinea che la “Natura Perfetta”, espressione mistica di Sohrawardi, di Haydar Amolî e di Mollä Sadrä Shîrazî, è una derivazione personale della “Natura dell’Umanità ”, l’”Angelo” Gabriele, assimilato al Paracleto la cui funzione (Giovanni XIV. 16, 26) sarebbe di “rivelare il senso dei simboli”. La “Colomba” del Santo Spirito ha del resto un equivalente nella Simorgh l’uccello mistico (Sohrawardi), e l’evocazione di questa entità è sempre collegata al ricordo del nome Ermes. Questo “Sé”, scrive Corbin (II, 313), è il “doppio”, il Compagno celestiale, il “Gemello”, la “nobile Natura”, il “ filius philosophorum ” dell’alchimista, il “generatore generato”.

Abbiamo dunque un’immensa costellazione in cui l’ordine del corteo, la numerologia pentagonale, i simboli costellano l’emergenza iniziatica di una natura perfetta raddoppiante, in qualche modo gemellare e confluente nel quadro plurivoco della sodalità iniziatica, necessario recettacolo della tradizione simbolica.

Esamineremo in seguito il coerente sistema di queste plurivocità.

Gilbert Durand


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