La psicoanalisi: scienza o arte?

Maria Pia Rosati

Contraddicendo la più diffusa tendenza dei nostri tempi, che spesso ci sembrano dominati da una sorta di idolatria della scientificità, vogliamo guardare alla psicoanalisi come ad un’arte, piuttosto che ad una disciplina appartenente all’universo delle cosiddette scienze esatte.

Infatti in particolare la psicoanalisi può essere assimilata ad un’arte, intesa proprio nella concezione tradizionale, in quanto implica una rappresentazione simbolica e significativa di aspetti della realtà visibili dall’intelletto e tende ad un’opera poietico-creativa che abbia peso e dignità metafisica.

Uroboro
Uroboro

Nella cultura greca antica all’arte è riconosciuta una funzione catartica e le è attribuito il compito di aiutare l’uomo nel suo cammino (una sorta di processione, prosodos ) verso le cose ideali, considerate la vera realtà. Grazie all’esperienza dell’arte si affinano le facoltà percettive e di comprensione del mondo e della vita: la vista esteriore si trasforma in una capacità intuitiva, in vista interiore.

Le parole di Plotino riguardo all’opera dell’artista ci danno una splendida immagine dell’analogia tra il lavoro di crescita psichica (quale quello prefigurato dal cammino analitico) e il lavoro dell’artista.

“Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interamente bello, fa come lo scultore di una statua che deve divenire bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce, finché nel marmo appare la bella immagine: come lui leva il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di coprire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro ”.

C. G. Jung in tutta la sua opera e in particolare in Psicologia e alchimia ha avvertito l’insufficienza e la pericolosità di una modalità di comprensione dei fenomeni psichici secondo un’ermeneutica univoca e dunque forzatamente riduttiva. In “ Simboli della trasformazione ” ha affermato con il principio finalistico di ciò che si riferisce alla psiche. è impossibile procedere nel cammino analitico senza lo sguardo rivolto ad una meta finale, al telos. Secondo quanto recitato dall’antica sapienza non si può mai pretendere di arrivare a comprendere pienamente un avvenimento, o addirittura di scoprirne la causa ultima, senza ricordare che la causa ultima è sempre anche al di là dell’esperienza che pure ce la manifesta.

Possiamo usare come metafora il viaggio dantesco attraverso l’inferno ed il purgatorio, viaggio iniziato secondo il volere del cielo (rappresentato dalle tre donne celesti, Maria, Lucia e Beatrice), come se l’uomo possa raggiungere la realizzazione del Sé, “l’Uomo Vero” soltanto se illuminato dall’alto e con la coscienza dell’altezza, di quella che sarà la sua meta.

Dante deve vivere dapprima in maniera compartecipe le sofferenze delle anime sprofondate nel mondo infernale senza luce in una situazione che gli alchimisti definirebbero di nigredo (in cui la materia passa attraverso una serie di trattamenti e di torture affinché da essa possa liberarsi lo spirito).

Solo dopo aver compiuto questo percorso lungo e doloroso, dopo un bagno purificatore può proseguire il suo cammino di ascesi purificante (sette ripetute sublimazioni), salendo di balza in balza la montagna del p urgatorio (dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno ). Solo allora la sua anima totalmente purificata sarà pronta a salire in cielo e, di cielo in cielo, giungere alla meta che è al di là di ogni immaginazione umana, al Verbum , in cui il Divino è insieme vero Uomo e vero Dio ( id quod fuit permansit, et quod non erat assumpsit ).

Forte l’analogia con l’opus alchemicum di cui ci offre una sintesi particolarmente pregnante l’acrostico Vitriol ( Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem) .

Questo è anche il vero senso del cammino prefigurato dalla psicologia analitica.

È necessario dapprima prendere contatto con la materia prima , con le profondità dell’inconscio sia collettivo che personale, con la propria parte ombra, con le torture della vita dominata da pulsioni, passioni, emozioni. E è importante poter contare su un compagno di viaggio, quale possiamo considerare il terapeuta, una guida che aiuti a entrare in contatto con le potenti forze dell’inconscio, senza che queste prendano il sopravvento, a portarle alla luce della coscienza e prendere consapevolezza del loro duplice aspetto ad un tempo potenzialmente generoso e terribile. Dante non procederebbe nel suo cammino senza Virgilio, figura di antica sapienza, che egli riconosce come ‘maestro’ che lo guida attraverso il labirinto infernale e lo difende dalle potenze demoniache pronte a catturare e impossessarsi di chiunque cada nel loro dominio

Solo dopo questa fase dolorosa sarà possibile uscire finalmente “a riveder le stelle” e essere illuminati da una nuova luce (che gli alchimisti chiamano albedo), distaccandosi attraverso un bagno purificatore dalle scorie non più passibili di miglioramento ( terra damnata ).

Progressivamente, anche nel processo di alchimia psicologica dell’analisi si possono trasformare le forze perturbatrici e minacciose della fase caotica iniziale in forze positive e dominarle, affinché conducano ad un livello di coscienza più elevato e diventino strumento di accrescimento e di maturazione psichica.

Gli alchimisti parlano di nozze tra i due elementi fondamentali dello Zolfo e del Mercurio, cioè tra l’aspetto attivo e maschile dello spirito e l’aspetto femminile e passivo della natura (simbolicamente rappresentate nei due serpenti che si fronteggiano e si intrecciano intorno al caduceo) come di una coniunctio oppositorum . Come se le forze che dapprima entrano in una sorta di opposizione e di estrema tensione, tendano nel cammino di risalita, di libertà, di perfezionamento spirituale e di liberazione dagli angusti confini dell’Io ad unirsi in un piano superiore. Siamo all’incontro con il Sé, a quel “conosci te stesso” scritto sul frontone del tempio di Apollo.

Psicologia e Alchimia possono essere considerate due particolari modalità di conoscenza: tendono ad un sapere che si distoglie da oggetti specifici per affacciarsi a scenari inconsueti da cui trapeli un altro livello ontologico, hanno una particolare dimensione che possiamo chiamare ‘ átopon’ ( neutro dell’aggettivo atopos , composto da alpha privativo e topos) . Ciò fa sì che esse possano essere considerate rappresentativamente appartenenti all’universo delle arti ieratiche (secondo la definizione di H. Corbin) in quanto metodi tendenti alla trasfigurazione o rinascita dell’anima stessa dell’artista. Esse possono essere comprese pienamente solo facendo riferimento ad una modalità di essere che si sottragga alla logica razionale (potremmo parlare con Gilbert Durand di surrazionalità o con Mircea Eliade di conoscenza transrazionale) in quanto si situano altrove in mundo imaginali , in un non-luogo, átopon. Il termine átopon indica ciò che è insolitus mirabilis absurdus: non il luogo consueto in cui abitiamo e dunque anche il luogo dell’opinione comune, del verosimile, del ragionevole, del normale, in cui tutti pensano nella stessa maniera, ma ciò che è senza luogo , ovvero che non ha un luogo, che è fuori luogo , non a posto.

Quando nel livello dell’esperienza comune ( topos ) si incontra una disarmonia, una rottura, una negazione, quando qualcosa introduce discontinuità e contraddizione nella coerenza e nella prevedibilità del nostro mondo, nasce sentimento di incertezza e di inquietudine; ma la crisi del mondo dei luoghi si fa segnale di un altro livello, epifania di una vocazione al trascendimento. Una volta che il luogo della percezione abituale si rivela insufficiente ed illusorio, comincia l’esplorazione dell’ átopon , del non luogo che da mero limite diviene apertura ad un altro livello ontologico di carattere più originario da cui irradia la forza su tutti i luoghi della mondanità fisica. È questo l’insegnamento di Socrate, un vero atopos, nei suoi comportamenti come nei suoi discorsi (vedi le storie di Atlantide o le immagini del mito della caverna o il discorso di Diotima) che inizialmente sconcertano, disorientano, mettono in crisi il sapere acquisito, facendolo apparire non più sapere, ma ignoranza per rivelare infine scenari inconsueti e una vera sapienza. La vera scoperta infatti è che il non-essere è un modo di essere .

Questa presa di contatto con il non , con il vuoto, ci porta nel mondo dell’immaginale, dell’immaginazione creativa, dei miti che narrano degli dei e degli eroi, delle favole che iniziano con c’era una volta, in un regno lontano, delle antiche saghe. Ci riporta a quell ‘illud tempus , il tempo ciclico dell’eterno ritorno, dei “ricorsi” di vichiana memoria, tempo non unidirezionale che sfugge alla entropia del tempo mortale e dunque tempo del sacro e del numinoso, dello svelamento e dell’iniziazione, collegato con un illud spaziale, lo spazio spirituale del temenos, del templum. 

In questo mondo non valgono le limitazioni poste dalla logica razionale ed è possibile che gli opposti si incontrino ( coincidentia oppositorum) e che oltre alle due possibilità che ci pare di scorgere immediatamente ce ne sia anche una terza ( tertium datur ) non così evidente. Come nella ricerca del Castello del Graal, quando tutti i luoghi sono percorsi, il loro essere luoghi si mostra figura di un altro che non può esserlo, e tuttavia sorge sgomento all’idea di affacciarsi al di là della barriera fissata, del limite da non oltrepassare.

L’alchimia fin nelle sue lontane origini si è proposta come un sapere che cerca di riscoprire e riproporre la tradizione di una antica perduta saggezza .

La più antica forma di alchimia di cui ci sia data conoscenza certa secondo Eliade ( Arti del metallo p. 99), l’alchimia cinese (abbiamo un documento del 144 a. C.) era collegata con un sapere iniziatico trasmesso oralmente da maestro a discepolo all’interno delle confraternite iniziatiche dei fabbri, custodi dei misteri relativi alla teurgia del fuoco, e quindi signori dell’arte del “fare” ( poiein ), sia che questa si applicasse alla trasmutazione dei metalli e alla creazione di utensili necessari allo sviluppo civiltà, sia all’arte poetica, cioè alla creazione e trasformazione attraverso la parola, il verso.

Infatti secondo la logica essenzialmente sintetica delle culture tradizionali, ogni operazione ha senso all’interno di un rapporto di omologazione tra microcosmo e macrocosmo, tra Terra e Cielo e ha un valore liturgico, simbolico che cerca di riprodurre l’antica originaria potenza di integrazione alle realtà sacre. Non c’è netta separazione tra astratto e concreto, tra fisico e metafisico. La parola, usata nella pienezza del suo significato pregnante evocativo e simbolico, detiene grande potere sulla realtà. Parimenti quando si parla di metalli si intende anche sempre parlare delle qualità caratteristiche dei metalli, della loro virtù. L’oro degli alchimisti è il metallo perfetto, come lo Spirito, libero dalle impurità, non soggetto all’usura del tempo, immodificabile nello spazio e quindi un átopon all’origine di ogni misura e di ogni topos. In questa ottica la trasmutazione del piombo, metallo vile, in oro fa dell’alchimia anche una tecnica di ascesi spirituale.

L’alchimista cinese interpreta in termini alchemici il suo corpo, materia prima che deve dessere trattata, torturata e raffinata per sfuggire alla corruzione e alla morte e raggiungere, proprio attraverso la rigenerazione spirituale, l’immortalità, la beatitudine e la ricchezza spirituale.

La pratica dell’alchimia come tecnica di ascesi spirituale è attestata anche in India dove numerose leggende descrivono i miracoli degli alchimisti analoghi a quelli di yoghi fachiri che operano sul proprio corpo e sulla propria vita psico-mentale mirando a purificare la materia impura, a perfezionarla e a tramutarla in una sostanza più nobile e incorruttibile come l’oro.

Nella medicina indiana dell’Ayurveda c’è una sezione speciale consacrata al ringiovanimento. Il rituale terapeutico ripropone una cerimonia iniziatica arcaica (diksa =consacrazione) in cui il malato entra in una capanna (vedi le somiglianze: capanna= grotta=vaso alchemico) nel quale subirà un processo di trasformazione per rinascere ad un livello spirituale superiore.

In altri termini dal momento che esiste una perfetta solidarietà tra materia psichica, corpo psico-somatico e sostanza primordiale (prakrti) l’alchimista proietta la propria ascesi sulla materia.

Le operazioni alchemiche operate sui metalli vili i ntervengono sui processsi della natura,precipitano il ritmo lento della trasformazione della natura (prakrti), mirano a redimerla, a liberarla, ad affrancarla dalle sue stesse leggi; queste operazioni rituali vengono interiorizzate e mirano a liberare lo spirito (purusa) separandolo dalla sostanza e da qualunque esperienza appartenga alla sua sfera.

Secondo il Samkhya-Yoga, ogni spirito (purusa), quando raggiunge la propria autonomia, libera a sua volta un frammento della prakrti e permette alla materia (che costituisce il suo corpo, la sua fisiologia e la sua vita psicomentale) di modificare il suo stato ontologico. In tal modo si forgia un “corpo divino” e immortale.

Ciò può risultare per noi occidentali comprensibile se ritroviamo la capacità del pensiero simbolico, propria delle culture tradizionali, in cui il mondo è vivo ed aperto, ogni oggetto non è mai semplicemente se stesso, ma è anche segno o ricettacolo di qualcos’altro, rimanda a una realtà che lo trascende, in un continuo trasmutare. Se cioè ci muoviamo nel mondo dell’immaginazione creativa “dove gli spiriti prendono corpo e i corpi divengono spiriti”, in un mondo attraversato dallo spirito mercuriale.

Le origini dell’alchimia occidentale risalgono alla Tavola di Smeraldo attribuita ad Ermete Trimegisto, il tre volte grande, il cui potere si esercita sui tre regni (superno, terreno ed infero), messaggero degli dei che assicura la continuità tra mondo dei mortali e degli immortali, psicopompo che guida le anime nel regno di Ade, l’Invisibile.

I princìpi trasmessi dalla Tavola di Smeraldo e da Il libro delle sette statue attribuito al grande ermetista greco Apollonio di Tiana rappresentano La scienza delle corrispondenze. “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso” ne è il principio più chiaro, l’essenza di un sapere che trascende quello di ogni esperimento scientifico ed è la constatazione di una realtà, organicamente presente in ogni cosa, che agisce ovunque e in ogni istante.

Gli esseri dei tre regni sono specchi nei quali si rendono visibili le costellazioni del mondo superiore, le forme archetipiche, i modelli ideali. “Inutile distruggere lo specchio per vedere ciò che vi è dentro” (H. Corbin lezione del 12 maggio 1973 in Alchimie comme art hiératique , Paris 1976).

Nell’alchimia araba, a cui ci ha introdotto H.Corbin, sia le dottrine che la pratica non segnano alcuna separazione tra materia e spirito. La differenza tra corpo e spirito è vista come la differenza tra l’acqua e la neve: gli spiriti sono essere-luce allo stato fluido mentre i corpi sono luce-essere allo stato solido (Ahmad Ahs’î). Il reale manifestato, (pur nella sua diversità e molteplicità ) è uno, uscito dall’Uno e il lavoro alchemico si sforza di ricondurlo all’unità assiale.

L’opera degli alchimisti consisteva nell’operare su una sostanza unica, di base, chiamata materia prima, attraverso molteplici triturazioni, lavaggi e distillazioni, separando ciò che è sottile da ciò che è spesso, affinando ciò che è spesso per renderlo sempre più sottile e simmetricamente nel tentare di integrare lo spirito, volatile, a parti più dense della materia. Si voleva raggiungere progressivamente uno stato di purezza, di omogeneità perfetta di equilibrio tra gli Elementi, come tra i componenti sottili e densi: il Fuoco, elemento più volatile e spirituale, è destinato a prendere corpo mentre la terra, la parte più densa, deve progressivamente divenire spirituale. La comprensione di tali operazioni presuppone naturalmente una complessa lettura del reale: in ogni fenomeno sono presenti rapporti bidimensionali e dinamici, ad ogni qualità corrisponde una intensità apparente, esterna ed un’intensità nascosta, interna ( batin ) che ne é l’inverso, tra interno ed esterno funziona un rapporto di inversione di intensità, un rivolgimento che fa della qualità apparente l’ombra della qualità nascosta.

Dopo il lungo trattamento la materia diveniva un composto stabile, di color rosso vivo e di consistenza di cera (la Pietra filosofale ) che proiettata sui metalli comuni (piombo, stagno) permetteva di trasmutare il piombo in oro.

L’alchimista riusciva a partecipare all’Opera con tutto il suo essere ad entrare in risonanza con le trasformazioni della materia nel recipiente: meditava su tutti i metalli, ne comprendeva il valore, la virtù che essi rappresentano, ne traeva l’energia spirituale ( extrahere cogitationem ) immanente per incorporarla all’uomo interiore e sincronicamente realizzarne la crescita. Nelle manipolazioni materiali vedeva rispecchiate le trasformazioni interiori, in un costante passaggio da un piano all’altro della realtà. Viveva in una completa omologia tra mondi e nell’equilibrio tra l’apparente e il nascosto; simile ad un ermeneuta che pratica l’esegesi simbolica del testo (il tawil) e ne cerca il senso esoterico (batin) concepiva ciascuno dei dati operativi come la manifestazione diretta, sensibile di movimenti e di forme di mondi superiori.

Per Jaldakî, esoterista del XIV sec., al quale si deve la versione araba di Il libro delle sette statue di Apollonio di Tiana, l’alchimista è un sacerdote che opera un rito secondo l’antica arte teurgica. Costruisce un’immagine, una statua in oro alchemico cioè in metallo e-ducato , trattato, nutrito, fino a divenire più ricco e prezioso dell’oro volgare. La statua che egli modella è la sua statua interiore chiamata anche Uomo celeste, Filius Philosophorum, creatura sprituale, ad un tempo umana ed angelica. Essa è situata tra due mondi (il puro intellegibile e il sensibile) appartiene al suo sogno visionario, e è visibile solo nel mundus imaginalis, nel mondo della mediazione nel quale gli occhi si aprono alla comprensione delle verità esoteriche là dove soltanto può essere percepita la coincidentia oppositorum. Per Jaldakî l’alchimia non è infatti né una semplice drammaturgia dell’inconscio, né un’allegoria psicologica, né una semplice manipolazione di materie, ma una ars ieratica il cui segreto nascosto è proprio l’integrazione tra operazione materiali e spirituali.

Vorremmo concludere con la speranza che coloro che si propongono di essere psicologi o psicoterapeuti, cioè secondo l’etimo “attenti” alle anime e alla loro “cura” si applicassero pazientemente nell’esercizio di quest’arte il cui segreto gli alchimisti ci hanno fatto intravvedere attraverso il mistero delle loro parole oscure.

Maria Pia Rosati


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