Invisibile e inaudibile la musica come architetto della cura

(Lavoro presentato nel maggio 1999 durante la sessione primaverile
delle Eranos Tagung, ad Ascona, Svizzera)

Giorgio Moschetti

Johann Wilhelm Ritter nato a Samitz, in Slesia,nel 1776 e morto di tubercolosi a Monaco nel 1810, a soli trentaquattro anni, pubblicò nell’anno della sua morte i Frammenti dalle carte postume di un giovane fisico : nel quale presentò la sua concezione del rapporto fra musica e linguaggio. Sappiamo che le sue idee influenzarono profondamente anche Schumann. Ritter fu un fisico di gran rilievo: fra le altre cose scoprì la polarizzazione delle pile, fondamentale per la costruzione degli accumulatori, intuì la natura chimica dell’origine della corrente elettrica nelle pile, segnalò l’esistenza della radiazione ultravioletta, studiò gli effetti del galvanismo sul sistema nervoso. Fu ammirato da Goethe, Novalis e Schlegel. Nell’ Appendice dei suoi Frammenti leggiamo:

Maestro di Tolentino: angeli musicanti
Maestro di Tolentino: angeli musicanti

“L’essere e l’attività dell’uomo sono suono, sono linguaggio. La musica è parimenti linguaggio, universale, il primo degli uomini. Le lingue esistenti sono individualizzazioni della musica: non musica individualizzata, bensì esse stanno alla musica come i singoli organi al tutto organico. La musica decadde nelle lingue. Per questa ragione, ogni lingua può servirsi della musica quale sua accompagnatrice; è la rappresentazione del particolare nei confronti dell’universale; il canto è musica doppia, universale e particolare nello stesso tempo. In esso, la parola particolare viene innalzata alla intelligibilità universale – in primo luogo, a quella del cantante stesso. I popoli di tutte le lingue comprendono la musica; tutte [le lingue] vengono comprese dalla musica e da essa tradotte nell’universale. E tuttavia il traduttore resta sempre l’uomo. Può sembrare strano che quella lingua universale non gli sfugga, ma essa gli è data con la sua stessa coscienza e assieme ad essa si manifesta. Poiché l’uomo è autoconsapevole solo esprimendosi; ciò accade dapprima nella lingua universale e poi nelle lingue particolari. Così ogni parola da noi pronunciata è un canto segreto, poiché è sempre accompagnata interiormente dalla musica. Nel canto spiegato la voce interiore s’innalza insieme a quella esterna. Il canto diviene lode al Creatore, esprime interamente la dimensione dell’esistenza”.1

Dicevamo in Immagine del cuore e canto dell’anima, che uno dei compiti della psicologia, e segnatamente della psicoterapia, consiste nel “destare la musica interiore al linguaggio, restituire alla parola quanto abbiamo esiliato nella musica”.

Vogliamo riprendere quel discorso. Approfondiremo nell’esperienza musicale alcuni momenti di profondo valore formativo per lo psicoterapeuta, in particolar modo nel suo rapporto di cura con l’altro sofferente in condizione psicotica. Vogliamo mostrare come il far musica, inteso come apprendimento e studio del linguaggio musicale quale si manifesta nella musica d’arte, riesca indirettamente a svolgere una funzione terapeutica sul paziente mediante le trasformazioni che favorisce nel terapeuta.

Prima di entrare nel vivo del discorso è necessario tuttavia accennare brevemente alle due nozioni di Immagine del cuore e canto dell’anima.

Immagine del cuore II: musicalizzare l’anima

Anni fa ebbi a dichiarare a un funzionario che al centro della mia attività terapeutica si situava la prassi musicale, senza che tuttavia mai si parlasse di musica nella relazione fra me ed il paziente. Il senso psicologico del far musica, intendevo dire, sta nelle trasformazioni profonde che può indurre in chi lo pratica, rendendone la personalità terapeutica. Vediamo ora come.

Per prima cosa diciamo allora che il far musica musicalizza il terapeuta. Che cosa significa: “ Musicalizza il terapeuta ”? Lo scopriamo facilmente se appena consideriamo la polifonia ed il contrappunto: far musica insegna in primo luogo a condurre le diverse linee musicali; insegna a valorizzarne ciascuna in modo che nel suo svolgersi enunci il suo messaggio e nello stesso tempo sia elemento di dialogo e di sfondo per le altre. Far musica insegna un modo di relazione fra le parti (nel linguaggio del teatro diremo fra personaggi ), improntato all’armonia, all’accordo e alla coerenza fra di esse, sì che il loro insieme costituisca un tutto organico, ed alla bellezza. Bellezza: una parola oggi trabocchetto. Qualunque cosa essa significhi, si riferisce tuttavia a qualcosa senza il quale la nostra vita può impoverirsi fino alla disperazione. Si tratta di una di quelle realtà tanto indefinibili quanto necessarie per vivere. Chi fa musica impara, per raggiungerla, a coniugare necessità ed espressività nella condotta di ognuna delle parti. Ogni parte dice qualcosa di valido di per sé e nello stesso tempo è elemento necessario strutturale per l’insieme. Chi fa musica è propriamente impegnato nell’allestire e nel gestire modelli complessi di relazioni. Basta pensare le parti in termini vocali, ed ecco che ci avviciniamo ad un modello di relazione fra persone. Non a caso comunemente un passaggio quasi obbligato nello studio musicale è la traduzione vocale del testo, la lettura cantata. Il primo strumento è la voce, la stessa che, come dicevamo, più d’ogni altro mezzo di espressione manifesta le più sottili screziature psichiche. È fin da ora evidente il ruolo fondamentale della bellezza nel nostro discorso: se appare scontato quando parliamo di musica, laddove costituisce l’obiettivo cui convergono molteplici sforzi di diversa natura, meno è ovvio, il ruolo della bellezza, quando parliamo di relazioni interpersonali. Ma su questo punto torneremo in seguito.

Far musica insegna dunque un modo di rapporto fra parti, il che già lo avvicina alla relazione interpersonale. Attenzione: non stiamo suggerendo che nella relazione terapeutica con l’altro sofferente occorra pensare esplicitamente a questa o a quella musica, a questo o a quel brano. Tutt’altro: qui la cosa essenziale è piuttosto pensare all’altro, anzi pensare l’altro, rappresentarselo in modo vivente e differenziato, sì che il proprio campo immaginativo sia specchio fedele, erogatore di senso, nel quale egli può scorgere finalmente una tollerabile immagine di sé ricca di significato. L’intervento terapeutico consisterà poi, guidati da questa rappresentazione immaginativa, nel sapergli offrire una presenza discreta, anche opportunamente distante se necessario, nei modi e con la prossimità compatibili con quanto la sua sofferenza può sopportare (ci riferiamo particolarmente alla condizione psicotica). Ma nel momento del contatto diretto con l’altro sofferente, quando la sua immagine mobilita la nostra immaginazione, in quel momento proprio non deve esserci null’altro, il manifestarsi della sua presenza in tutti i dettagli deve riempire la nostra attenzione, proprio come nel suonare o nel cantare l’unico reale compito è essere una cosa sola con ciò che si suona o canta. È il modo di essere al livello più profondo dell’atteggiamento terapeutico, quello che precede tutti i contenuti particolari della situazione concreta, a poter somigliare al modo musicale. Non è detto che di per sé assomigli: noi riteniamo che debba assomigliare. Approssimiamo questo modo con le parole: volontà ostinata e profonda, nonostante tutto, di cantare la vita, così come si manifesta nella tua particolare presenza . Se così riusciamo a guardare all’altro sofferente, allora ci sarà agevole collegare e organizzare i fatti della sua vita alla maniera delle note di una partitura, cui diamo senso prestando le forze del nostro campo immaginativo, e restituirgliene un’immagine dotata di senso e necessità.

Far musica significa liberare un brano dalla pagina scritta per permettergli di librarsi nell’aria: è possibile solo con profonda conoscenza. Solo a questa condizione siamo in grado di tralasciare l’abituale assetto della nostra coscienza per entrare totalmente nell’oggetto musicale, sì che in certo modo noi scompariamo nella nostra identità per ricomparire nella sua: così nella relazione con l’altro sofferente. Probabilmente nella musica circola una forma di conoscenza non poi così diversa da quella che si esplica nella relazione interpersonale. Noi stiamo tentando qui di esportare dalla pratica musicale un livello profondo di atteggiamento, per importarlo nella vita quotidiana e nella relazione con l’altro sofferente. E parliamo in particolare dell’atteggiamento da cui scaturisce l’esecuzione musicale: questo, noi riteniamo sia molto terapeutico. Quando suoniamo o cantiamo una musica che conosciamo profondamente e nella quale intimamente ci riconosciamo e ci specchiamo, stiamo facendo qualcosa che è denso di significato e di necessità, che porta la firma della nostra presenza più autenticamente umana, il che è ciò di cui più di ogni cosa necessita l’altro sofferente . Lo studio musicale insegna a perseguire il gesto essenziale, centrato ed equilibrato nel nascere e nel morire, assolutamente necessario, inequivocabile, attraverso il quale ci consegniamo per intero al mondo. Insegna a raccogliere e condensare nel gesto una molteplicità di significati, a muoverli e dolcemente coordinarli: il costante studio musicale significa lenta e diuturna concrezione del simbolo. Pensiamo all’opera di Johann Sebastian Bach: la sua musica è palestra meravigliosamente funzionale per addestrarsi al dialogo fra diverse voci. Il dialogo fra le voci è sempre propositivo, la musica non nega mai, è un continuo sì: chi studia una polifonia deve impegnarsi a rendere necessario il dialogo fra le voci in tutti i suoi momenti, quel dialogo, con quelle caratteristiche, non un altro, proprio quello. Lo stesso impegno ci è necessario quando l’altro sofferente ci si presenta e ci chiede muto di essere accettato così come è, proprio così come è. Nello svolgersi del tessuto musicale risuonano ininterrottamente proposte e risposte, anzi il tessuto musicale diventa proprio l’organizzazione di continui richiami, di assiduo dialogo fra le voci. La musica è costituita dall’intreccio di questi legami, e muoversi al suo interno significa vivere un’intensa esperienza di appartenenza, assai importante per la terapia. È facile capire come sia giovevole, per chi si rivolge con sguardo di cura al sofferente, aver consuetudine con questa capacità di discorso intessuto di senso, dal momento che la condizione di sofferenza è fondamentalmente sempre uno smarrimento di senso del vivere o quantomeno un’incapacità di coglierlo per mancanza di adeguati strumenti.

In quale altro senso il far musica musicalizza il terapeuta? Nel favorire il matrimonio fra affetti e ragione, o in altre parole fra empatia e cognizione, connubio che ci conduce verso quella che Oscar Wilde nel De profundis chiama la “ perfetta sapienza dell’amore ”: ove l’autentica conoscenza è resa possibile ed orientata unicamente dall’amore. Di Bach si dice che in lui la matematica diventa poesia, regola e affetto si sposano diventando uno fondamento dell’altro. È essenziale nella relazione autentica con l’altro, e più che mai in quella terapeutica con l’altro gravemente sofferente, questa capacità di muoversi sui due livelli, senza che mai uno mortifichi l’altro. La più profonda empatia e compartecipazione alla sofferenza devono accompagnarsi alla più analitica lucidità e capacità di conoscenza di quella particolare situazione. Sono la specificità della situazione del sofferente, insieme alla molteplicità dei dettagli, a sollecitare le capacità cognitive e a pretendere lucidità intellettuale. L’empatia e la partecipazione non devono oscurare la conoscenza, al contrario sono finalizzate a rendere più acuto e preciso lo sguardo, ci spingono a guardare ed ad individuare i dettagli. Non si parla mai realmente di amore quando la vista si offusca, e se si dice che l’amore è cieco è solo per conservare il ricordo del suo mistero: Eros visita Psiche di notte e le è sempre invisibile, per questo amore è associato a cecità, per la sua origine misteriosa ed indicibile. Non è l’amore ad accecare e ad impedire di vedere l’altro: sono piuttosto l’avidità, la bramosia, il desiderio di possesso. L’amore rende trasparente il mondo ed aumenta la vista. Quando amo, desidero guardare e vedo assai di più. Accolgo sempre come indispensabile quanto l’altro sofferente mi presenta, per strano o anche fastidioso possa apparirmi. Compito terapeutico è riuscire ad accoglierne parole e gesti come messaggio profondo, come modi della sua manifestazione dei quali prendere atto, riuscendo a pensarli come pezzi indispensabili del suo puzzle . Spesso lui non riesce a farlo, incapace di trovare stabilmente valore in sé. Se mi pongo in questa relazione d’amore-conoscenza con l’altro sofferente, ciò che io sperimento come conoscenza di lui viene da lui sperimentato come atto d’amore che promana da me nei suoi confronti.

La musica dice ciò cui le parole accennano soltanto, incapaci di andare oltre: nella relazione con l’altro, attraverso il linguaggio verbale passa sempre una più o meno intensa comunicazione empatica. Più è intensa e più ci sentiamo capiti, più la sperimentiamo simile ad una musica che “ci piace”: il “ci piace” dell’ambito musicale corrisponde nella relazione interpersonale al “sentirci a nostro agio perché compresi ”. Ma questo accade quando con l’altro possiamo liberamente esprimerci, quando le nostre presenze l’una per l’altra costituiscono efficace sfondo per il reciproco manifestarsi. Esprimerci significa manifestare la nostra presenza. Ogni forma espressiva comporta almeno una sorta di primordiale affermazione del tipo: io esisto , eccomi qui! e questo, per piacere, non è occasionale o gratuito, è bensì necessario ed importante, affermazione che nello scorrere del tempo si declina nelle concrete situazioni del vivere. Tutto questo avviene nel modo più diretto nel fare musicale. Lo studio musicale è tensione continua verso un’espressività che esprime la nostra presenza e la sua necessità.

Espressione è quindi espressione di presenza; ma anche momento di conoscenza di sé, come ci ricordava Ritter. Esprimere significa “ premere per far uscire ”. Il momento espressivo è impegno a trasformare qualche contenuto psichico da dentro , interno, potenziale, indefinito e imprecisato, a fuori , esterno, concreto e reale, preciso, definito, individuato. Quando mi impegno ad esprimere qualcosa, per poterlo guardare devo prima prenderne distanza, poi metterlo a fuoco: io personalmente ne ho avuta precisa esperienza nelle ore trascorse a trasformare le pagine che state ascoltando da informe e caotica massa di appunti in un testo che, spero, dovrebbe essere in qualche misura comprensibile. Lo sforzo per esprimere ha quindi un forte carattere conoscitivo, tanto per me quanto per coloro con i quali mi esprimo: se non si tratta di conoscenza diretta di realtà fisiche oggettive, tuttavia si tratta di vissuti nei quali in ogni caso la realtà entra in gioco nello specchio dell’esperienza umana. L’impegno espressivo trasforma l’indicibile e caotica esperienza in comunicabile forma: tramite l’espressione il caos prende forma e diventa contenuto di conoscenza. Tutto questo vale per l’esperienza musicale come per ogni esperienza artistica, ma assomiglia anche molto alla presa di coscienza. Se ricordiamo la connessione intima fra presa di coscienza e condivisione con l’altro, centro focale di ogni psicoterapia, appare chiara la contiguità fra momento terapeutico e momento espressivo artistico. Proprio nella ricerca della chiara e inequivocabile espressione metto ordine nell’esperienza, mi ci oriento assegnandole un nome, rappresento a me stesso e conosco quanto mi sta accadendo. Possiamo tornare a Ritter, che ricordava: “ L’uomo è autoconsapevole solo esprimendosi ”.

In campo musicale come in campo terapeutico, l’autenticità dell’espressione è fondamentale: si suoni male, o non si riesca ad accettare l’altro sofferente davanti a noi, in ogni caso, per usare il linguaggio di Beethoven non si va da cuore a cuore . L’espressività in musica risulta dall’incontro dell’immaginario con il materiale, del progetto mentale con il concreto sensibile. È il momento dell’incarnazione, quando l’immagine musicale diventa vivente, quando il quadro lungamente meditato nella mente si concretizza nel colore sulla tela. Se l’immagine mentale è il Padre, suggerirebbe Meister Eckhart, il lavoro pratico è il Figlio, la creatura, fatta ad immagine del Padre. È essenziale avere le idee chiare, conoscere a fondo la musica, il pensiero deve essere lucido e preciso: bisogna pensarla, prima di tutto, la musica, assai prima di suonarla, così come “ si pensano ” le persone, l’amata o l’amato, i figli, l’innamorata (“ mi pensi ? ”) essa deve avere un posto stabile nella mente, che nulla può scalzare. Quando la rappresentazione mentale è chiara, allora poi l’esecuzione tecnica è relativamente semplice, è un obbedire ad un modello prestabilito. Ma attenzione: questa fase della “ incarnazione ” è anche quella della creatura e della pietà. Tutto ciò che viene al mondo ha bisogno della pietà e della tenerezza, della cura, dell’accudimento e della sollecitudine.

Ancora in un altro modo il far musica musicalizza il terapeuta: attraverso la difficoltà, talvolta scoraggiante fino alla disperazione, del percorso artistico, dell’accudimento dell’ opus . La musica ci parla attraverso le opere di coloro che, fortunati, hanno saputo far parlare l’anima attraverso la padronanza tecnica e la lucidità intellettuale. Il percorso di interiorizzazione e di stabilizzazione del pensare musicale può essere, se non si è stati baciati dagli dei, molto impervio. Di fronte alla bellezza intravista siamo sempre troppo deboli e fragili. Esiste il rischio che la percezione della bellezza ispiri una reazione di chiusura e di rifiuto disperato, se si coniuga alla percezione della nostra pochezza e insufficienza:

“ e se anche un Angelo – recita Rilke – a un tratto mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte mi farebbe morire. Perché il bello non è che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora, lo ammiriamo anche tanto, perch’esso calmo, sdegna distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo. ”2.

La bellezza ci abbaglia e ci distrugge se non riusciamo a tradurla al livello del nostro personale percorso, se non riusciamo a trovare la nostra misura , mediatrice fra la nostra posizione particolare e quella archetipica espressa dai grandi artisti, che giacché universale si rivolge tuttavia proprio a ciascuno di noi, a quanto è comune – ed è ciò che è più profondamente umano – a ciascuno di noi. La musica come prassi in questo senso non perdona: la misura che ci dà di noi stessi è assolutamente implacabile e veritiera. Se vogliamo portare per un istante la bellezza in questo mondo, dobbiamo esattamente aderire all’oggetto musicale nella totalità del dettaglio, dobbiamo superare tutte le difficoltà, nessuna esclusa, non possiamo saltare nessun gradino. Facciamo esattamente quello che sappiamo fare, che sappiamo conoscere, che sappiamo padroneggiare. Null’altro. L’errore che ci perseguita, tenace come la nostra ostinazione a non prendere lucida coscienza del messaggio specifico di ogni passaggio, la nostra pochezza, insieme alla fatica richiesta per padroneggiare anche una semplice musica, sono modi per imparare la gradualità di ogni cammino, la misura della difficoltà in relazione al proprio strumento, alle proprie capacità, ai propri limiti, l’impossibilità di bluffare. Vedremo in seguito quanto questo punto sia importante nel rappresentarci adeguatamente la difficoltà dell’altro sofferente nella condizione psicotica.

Per concludere questa prima parte del nostro discorso, vogliamo proporre dunque il far musica come percorso ricco di insegnamenti di profondità psicologica. Probabilmente ogni percorso artistico, e forse non soltanto artistico, può fornire questi insegnamenti, che nel nostro caso particolare abbiamo incontrato attraverso l’esercizio musicale. Ci è anche ben chiaro che non necessariamente qualunque far musica svolge questo ruolo. La domanda essenziale non riguarda la capacità o la bravura. È piuttosto: di questa capacità, di questa bravura, che uso faccio? in nome di cosa o di chi? Nella nostra prospettiva l’opera d’arte è sempre espressione visibile dell’invisibile, di ciò che non può essere detto, che non può essere udito, non certo ricerca seduttiva di piacevolezza sensoriale.

Voglio menzionare, come emblema atroce di tutti gli usi perversi della musica e di come la musica possa non essere percorso salvifico, la tremenda scena della liquidazione del ghetto, nel film Schindler’s List di Steven Spielberg: le SS devastano una casa, meccanicamente implacabili su e giù per scale, uccidono, sfondano, raffiche di mitra, urla e latrati d’ordini, zampilli di sangue, e intanto un ufficiale, calmo nell’assordante frastuono, seduto ad un pianoforte suona trasognato il preludio della Seconda Suite Inglese di Johann Sebastian Bach, quella in la minore. Personalmente vivo questa scena come l’orrore della bestemmia. Essa suggerisce che si può suonare bene, e suonare altissima musica angelica, e tuttavia essere irrimediabilmente perduti come esseri umani. Il far musica può essere, ma soltanto può , non necessariamente è, percorso verso l’individuazione dell’anima. Rimane strumento e soltanto strumento, come tale utilizzabile nei modi più diversi. Pensiamo ai tre tenori, dove indubbie capacità sono impiegate in operazioni di dubbio gusto e d’indubbio profitto; pensiamo alla musica di consumo, ai grandi concerti rock, dove tutto sembra livellarsi verso il basso, dove la semplicità e la banalità del linguaggio favoriscono assai più la collettivizzazione che non l’individuazione dell’anima, che è poi la condizione per accedere al successivo gradino dello spirito

La bellezza, la più libera dimora dell’anima,
come ponte verso l’altro sofferente

Friedrich Nietzsche ne La Gaia Scienza scrive

334. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare ad ascoltare una figura e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come una vita per se stessa; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza cosa c’è di inusitato in essa – finalmente arriva un attimo in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia. Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore“.3

Saper vedere l’altro bello, nonostante le storture che la sofferenza gli ha inflitto, saperne vedere la bellezza: ecco la scommessa terapeutica. Se lo vedo bello, mi è facile volergli bene. Siamo grati e stiamo bene con chi ci regala cose belle, dal bel dono alle grandi opere d’arte. Stiamo meglio di fronte alla bellezza, che coniuga significato, amore e necessità. “La bellezza in se stessa è cura per il malessere della psiche”4 (Hillman). Che cosa significa vederlo bello? Significa festeggiare il suo compleanno. È bello che tu esista. Il mondo e noi stessi saremmo assai più poveri se tu non esistessi.

È nostro preciso compito, nella prospettiva terapeutica, imparare a vedere l’altro sofferente in questi termini: solo così riusciremo a rimandargli l’immagine bella di sé, che è il farmaco più potente che possiamo somministrargli. Nietzsche ci ricorda che quella “ inenarrabile bellezza ” è il modo in cui l’altro sofferente ci si presenta se lo guardiamo con la “ nostra buona volontà  ”, la “ nostra pazienza, equità, mitezza d’animo ”. Lui per primo ignora la propria bellezza, ha bisogno di noi per ritrovarla, e per questo dobbiamo essere addestrati a riconoscerla. Questa buona volontà, questa pazienza, equità, mitezza d’animo, dobbiamo per prima cosa saperle coltivare in noi stessi, sono gli strumenti del nostro operare terapeutico, e il banco di lavoro del far musica può essere un buon laboratorio per svilupparli. Se da lì apprendiamo i nostri gesti, se da lì impariamo l’arte della pazienza, dell’intendere in profondità, la capacità di scorgere connessioni e appartenenze, la nostra presenza potrà essere vissuta dall’altro sofferente come messaggera di senso. Il modello è la bellezza, far musica è un continuo inseguirla e adoperarsi per portarla qui ed ora, per consentire che essa risvegli in noi amore, e con esso trasparenza e corrispondenza intima con il mondo.

Canto dell’anima II:
la Casa dell’Ospitalità, ovvero l’uscita verace verso l’altro

Un’iscrizione funebre egiziana testimonia come la carità fosse atteggiamento diffuso nell’antico Egitto:

“Amava gli infelici e dolcemente gli parlava, finché le lagrime cessassero di fargli nodo in gola. Voleva essere il sorriso di coloro che piangono”

Qualche anno fa ci recammo a Mauthausen. Scoprimmo una ridente località sulle rive del Danubio, una natura romantica addolcita da colline, boschi e campi nei quali pascolavano indisturbati i cerbiatti. In alto, su un rilievo rispetto alla settecentesca cittadina stesa lungo le rive del fiume, troneggiavano le strutture del campo. Visitammo tutto, in silenzio, ed io ebbi un fortissimo vissuto di sacro, mai provato prima di allora in nessun luogo di culto. Lo strazio ed il dolore erano, a distanza di più di cinquant’anni, ancora assolutamente tangibili. I rari visitatori, sparsi per le varie strutture del campo, sembravano ancora più rari, l’assolato spiazzo antistante le baracche era silenzioso e non v’era chi non parlasse sottovoce. L’intensità di dolore che emanava da quel luogo lo rendeva sacro. Di questo mi resi conto e mi sovvennero le parole che Oscar Wilde scriveva dal carcere di Reading: “ Dove c’è il dolore c’è il sacro ”.

Io vedo anzitutto nella condizione psicotica la sofferenza del vivere allo stato puro. Le ondate di terrore che possono costituire il vissuto di una persona schizofrenica in preda al delirio credo costituiscano la sofferenza. Rimango sempre stupefatto quando devo prendere atto che quanto avevo accuratamente progettato, pensandolo alla portata di una persona in condizione psicotica, si riveli tante volte per lei ancora un ostacolo insuperabile, torreggiante e minaccioso. Non finisco di stupirmi di quanto possa essere radicale e pervasivo il senso di fragilità di fronte a quelli che noi “normali” consideriamo i momenti più elementari del quotidiano. Oppure di quanto possa essere fragile e discontinuo il senso dell’identità personale agli albori del suo affermarsi: una volta una giovane donna, per un istante lasciata sola sotto la pioggia che cominciava a cadere, pensò giustamente all’ombrello, ma subito scoppiò in un pianto disperato perché, come riferì a chi la soccorse, aveva paura di diventare un ombrello.

Da qualche anno lavoro ad Ivrea presso una comunità, chiamata Casa dell’Ospitalità. una struttura protetta riabilitativa per pazienti psichiatrici.

Ritengo che la qualità di quest’ambiente globale sia il fattore terapeutico di maggiore importanza per il vissuto esistenziale degli ospiti, e può essere garantita, istante per istante, solo da opportune modalità relazionali instaurate dagli operatori. Per questo vorrei dedicare ora qualche attenzione ad alcuni punti focalizzati nella formazione degli operatori.

Preliminarmente vorrei precisare la nozione di sguardo psicoterapeutico, quindi psicologico e terapeutico, che dovrebbe costituire l’atteggiamento comune a tutti coloro che interagiscono con gli ospiti in condizione psicotica.

Con sguardo psicologico intendo:

  • La capacità di saper sempre guardare oltre l’immediatamente manifesto, senza tuttavia squalificarlo ;
  • La capacità di immaginare il non detto ;
  • La capacità di rappresentarsi l’altro sofferente coniugando sempre costruttivamente affetti e cognizione, e non separandoli artificiosamente;
  • L’atteggiamento, che abbiamo in precedenza chiamato “musicalizzato”, in virtù del quale il manifestarsi umano è sempre accolto e vivificato da un’immaginazione pronta a tessergli sullo sfondo un contesto portatore di senso .

Lo sguardo psicologico ricostruisce con affettuosa sollecitudine l’eco immaginativa di ogni cosa, sa guardare in profondità ma sa anche scorgere il piccolo dettaglio, sa pensarci , non esaurisce mai nulla con un distratto “è tutto lì!”, non limita mai ciò che è detto alle sole parole, sa immaginare in ogni momento dell’esperienza l’intersezione di infinite possibilità, sa cogliere, perché la vuole cogliere, la domanda di fondo nonostante l’inadeguatezza del linguaggio. Noi tutti possiamo intenderci uno con l’altro grazie al continuo immaginare, capacità che in qualche misura abbiamo spontaneamente sviluppato e che è indispensabile potenziare nel contesto terapeutic

Quanto a sguardo terapeutico , intendo in primo luogo:

  • La capacità di cogliere la sofferenza della condizione umana, in qualunque forma si presenti, e di condividerla;
  • La capacità di rispondervi con il prendersene carico , con l’accoglienza e la carezza ;
  • La prontezza nel cogliere al volo quanto è inespresso in base al poco che è espresso ;
  • Infine la capacità, tutta invenzione immaginativa, di dare forma a quell’urgenza disperata del vivere che tante volte non ha gli strumenti per farlo .

L’incontro dello sguardo psicoterapeutico con la concreta sofferenza della persona consente lo sviluppo del progetto terapeutico . Per quanto possa occasionalmente anche tradursi in un documento materiale scritto, il progetto terapeutico è in primo luogo il risultato di un’interiore attività immaginativa, è il lento ma costante sviluppo dell’immagine dell’ospite nel cuore dell’operatore . Il progetto terapeutico è il frutto del continuo interiore “ meditare, concepire, immaginare, progettare, desiderare ardentemente ”, tutte quelle modalità psichiche, dicevamo, la cui sinergia è metaforizzata dal cuore. Affinché questa sinergia interiore si sviluppi occorre che nell’immaginazione dell’operatore l’immagine dell’ospite acquisti un posto relativamente stabile come centro di valore, possa divenire un polo attrattivo autonomo che coagula con l’andare del tempo osservazioni e nessi associativi, si arricchisca e si differenzi via via che il tempo passa. Il progetto terapeutico è allora lo sviluppo dello sguardo del mentore nel senso di Hillman5, che sa vedere o indovinare le potenzialità dell’altro perché riesce a concepirlo come centro di valore. Sviluppare il progetto è sviluppare quindi uno sguardo progettante, che sa pensare l’altro nel suo potenziale manifestarsi (ora solo potenziale, celato come è dietro le piaghe della malattia), che gli promuove un ambiente-specchio efficace per trovarsi e manifestarsi. Riprendiamo da Hillman anche la nozione di daimon , come spinta segreta e fedele a diventare ciò che siamo. Queste persone hanno perso il loro daimon e l’operatore ne diventa provvisoriamente il sostituto concreto, impegnato nel compito di risvegliare quello interiore. Il daimon è il garante della nostra unicità, che “…chiede di essere vissuta e che è già presente prima di potere essere vissuta…”6. Ha ciascuno un proprio daimon ? Sì, è la mia risposta, ma non è una risposta oggettiva. Vedo la nozione di daimon come tutta interna al tessuto relazionale umano. Dipende da noi: ognuno l’ha potenzialmente, ma diventa attuale nella misura in cui altri lo vedono, lo confermano e predispongono il terreno, ossia l’ambiente, per il suo manifestarsi. Essere persona, questa particolare e unica persona che siamo, non è caratteristica stretta dell’essere individuale astratto, è bensì modo di sentirsi nella relazione con gli altri: sono gli altri che mi confermano come questa persona che mi sento di essere e che esprimo con il mio specifico manifestarmi. Siamo noi che guardiamo gli altri e li confermiamo nel loro essere persone uniche e particolari. Lo facciamo, con maggior o minore attenzione, non sempre consapevoli dell’enorme responsabilità morale del nostro sguardo, e forse anche dei nostri pensieri. Di qui l’importanza dell’immaginazione, fondamentale. È grazie ad essa, allo sforzo immaginativo retto da amore, che riesco a concepire l’altro come persona, tanto più riccamente quanto più immagino, e gli rimando l’immagine di sé ricca, valente, piena di significato: in una parola, l’immagine bella .

Sta al terapeuta indovinare la persona che ancora non c’è e accompagnarvi dolcemente l’altro sofferente, con i tempi e le modalità compatibili con la sua particolare fragilità. Che il suo sguardo riesca a dire “sì, fallo, è bello ciò che stai facendo, continua, tu forse non te ne accorgi ma vale ciò che fai” a chi, incerto di sé, ha perso coscienza del proprio valore: ecco l’importanza terapeutica del mentore, che vede nell’altro assai più di quanto questi non veda in sé.

Lo sguardo terapeutico, una cosa sola con lo sguardo del cuore, è immaginativo, benedice e trasforma. L’altro sofferente con la sua presenza ci dice: “ Eccomi, sono qui, proprio davanti ai tuoi occhi. Riesci a leggermi ? ”7. La persona è tutta davanti a noi: sappiamo noi accoglierla immaginativamente, sappiamo accoglierla con carità ? sappiamo leggere questa partitura e aiutarla a diventare creatura vivente che canta con le sue opere l’entusiasmo del vivere? Nel senso cristiano la carità è l’amore di Dio negli uomini: meglio, la capacità, amando Dio, di amare gli uomini, perché lo si rintraccia al centro della loro umanità come essenza umana, riserva inesauribile di significati che alberga in loro.

Se il progetto terapeutico è lo sguardo del mentore che indovina le potenzialità dell’altro sofferente, è anche desiderio di conoscerlo nel profondo, è desiderio di conoscere la sua storia. Spesso la storia della persona in condizione psicotica è lacunosa, ambigua, imprecisa, approssimata.. Spesso la persona in condizione psicotica è incapace della nozione stessa di storia, poiché quasi per lei il tempo non esiste. Se in condizione autistica o catalettica, non esiste neppure la parola.. Insomma, il consolidamento dell’io, la nascita e la conferma della persona sono tutt’uno con il ricostruirne elementi della storia pregressa e soprattutto con il fare accedere il suo vivere in un percorso storico. Ci accorgiamo addirittura dei progressi quando il delirio lentamente nel corso dei mesi (talvolta degli anni) si attenua e lascia scoprire una crescente capacità di gestire il tempo: “…una volta, verso i 12 anni…” oppure “…quand’ero bambino …”.

La relazione terapeutica è lo sfondo su cui si individua questo percorso: funge da coagulante della storia dell’ospite, sempre che si desideri realmente arrivare a quella storia, e l’ospite riesca a vedere nello sguardo dell’altro il desiderio che egli viva e si manifesti. Se l’ospite si sente trattato come qualcuno che conta qualcosa per qualcun altro, di cui ad altri importa qualcosa, sarà come risucchiato nella relazione e comincerà un percorso storico, nel quale il tempo sarà finalmente scandito da un prima e da un dopo.

Ogni operatore deve poter ospitare l’immagine dell’altro sofferente nel tessuto della propria anima immaginativa, e con questa nutrirla ed accrescerla. Ci vuole tempo, tanto, e pazienza, tanta. Sempre Hillman ci ricorda:

« La percezione immaginativa richiede grande pazienza. Come dicevano gli alchimisti dei loro complicati, frustranti esperimenti: “nella tua pazienza è la tua anima”. Come reggere altrimenti l’incomprensibile comportamento dell’altro, quella stranezza, quella lentezza ? »8

L’impegno terapeutico è una scommessa di fiducia ad oltranza verso l’altro, un atto di fede, un ‘uscita verace verso l’altro nel senso di Florenskij9. Uscita, perché si tratta di uscire del tutto fuori da se stessi, di dimenticarsi, per gettarsi fuori verso l’altro, sempre in qualche misura estraneo, per salvarlo confermandolo come essere umano e in quanto tale centro di valore. Verace , perché questo gesto di coraggio e questo salto sono portatori di verità.

Giorgio Moschetti

________________________________________________

NOTE:

1) Citato in Charles Rosen, La generazione romantica, Adelphi 1997, pag. 84.

2) Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Einaudi 1978, pag. 3

3) Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, 1965 pagg. 192/3

4) James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, 1997, pag. 59.

5) Op. cit.

6)Op. cit. pag. 21

7) Op. cit. pag. 160.

8) op. cit. pag. 162.

9) Pavel Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, Rusconi 1998, pagg. 114/5.

 


Articoli correlati