L’infelicità, una dimensione dello spirito (da átopon Vol. VI)

Maria Pia Rosati

 

Considerazioni preliminari

Le grandi tradizioni religiose nell’affrontare il problema della liberazione dalla sofferenza e della vera guarigione sottolineano la necessità di essere iniziati ai misteri della vita e della morte. Se il mondo è rottura, scissione, sofferenza, dolore, colui che voglia raggiungere la soluzione che dona la salvezza non può vivere in esso senza imparare a superarli.
In primo luogo l’uomo deve imparare a riconoscere che soffre in quanto è inserito nel mondo: cioè proprio il mondo costituisce la sua sofferenza e il suo problema. Possiamo anche anche dire che essere nel mondo e soffrire sono la stessa cosa e che il mondo è la sofferenza dell’uomo, o – in altri termini – è l’uomo che soffre.
Tuttavia l’uomo soffre perché, esistendo, entra a far parte della più ampia sfera del mondo. La sofferenza e l’infelicità non lo riguardano in quanto singolo individuo ma sono strettamente collegate al rapporto con il tutto e rivelano la dimensione di apertura universale della sua spiritualità.

infelicitaL’induismo interpreta il mondo come il risultato dello smembramento di Purusha, l’Uomo cosmico: « … da Purusha è nata l’energia creatrice/ dall’energia creatrice è nato l’Uomo. Una volta nato si è esteso/ aldilà della Terra…».
In Grecia, il dionisismo si basa sul sacrificio del dio che viene sbranato ( sparagmòs ) dai Titani.
Il cristianesimo parla dello strazio e della crocefissione del Figlio di Dio, necessari alla redenzione e alla salvezza dell’umanità decaduta che egli raccoglie in se stesso.

D’altra parte, solo l’uomo che soffre ha un mondo. Il mondo non esiste di per sé ed è proprio la rappresentazione e la manifestazione del modo con il quale l’uomo esiste nel suo profondo. L’esteriorità, il tempo, l’avvio della storia sono espressioni di un dramma che ha avuto inizio e si è sviluppato nella interiorità originale dell’anima e nelle sue arcaiche radici.
Appropriarsi di questo dramma archetipico interiore e profondo è impresa ardua, possibile tuttavia all’iniziato che ha raggiunto la pienezza del suo essere uomo, il suo Sé.
Resta invece fuori della portata dell’uomo ordinario, del non iniziato ai misteri della vita e della morte, che non ha alcuna consistenza autonoma, che non esiste per se stesso, estraneo a sé e al mondo in cui vive.

Questo uomo non maturo fa parte di un mondo che non è il suo; il centro del suo vissuto gli è tanto estraneo che inevitabilmente egli finisce per gravitare nel mondo e nel vissuto di un altro soggetto, e ne subisce tutte le vicissitudini interne senza capirle e senza potere opporre loro alcuna resistenza.

a) Il tema della coscienza infelice in Hegel

Nella filosofia moderna tale tema è ripreso con una interessante prospettiva dalla teoria della infelicità di Hegel, secondo il quale la coscienza infelice è la coscienza dell’ altro.
L’infelicità è per Hegel, come nota il suo commentatore Jean Wahl, strettamente collegata con uno scenario spirituale, contrassegnato dalla famosa categoria della dominazione/servitù.
L’infelicità è la situazione della coscienza, del soggetto che si trova davanti ciò in cui non riesce a riconoscersi, che gli risulta incomprensibile e che gli si contrappone dunque come un oggetto ( ob-jectum ), da cui si sente oppresso, come un ‘no’ che egli sente provenire ab externo .

Liberarsi dall’infelicità diventa dunque impossibile se non ci si libera nel tempo stesso dalla idea di oggetto che a essa è sottesa ( La malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel , Paris 1929, tr. it. p. 35).
I Greci (come del resto i Germani) erano immediatamente felici, in grado di vivere in comunanza con gli dei e partecipare al mistero della vita e non se ne sentivano esclusi, come lo saranno i cristiani, fino al momento in cui la loro anima non fu inquinata dalla figura dell’opposizione soggetto/oggetto. Tale opposizione, propria del mondo orientale, in cui c’è asservimento all’oggetto, o meglio tutto è oggetto, prende in particolare l’aspetto dell’opposizione di signoria e servitù ove si è sempre oppressori solo per essere oppressi.

Possiamo dire che il problema dell’infelicità, colto nella sua vera natura, riguarda proprio la dimensione universale e spirituale dell’uomo: è una figura dello Spirito e un evento della coscienza.
Lo spirito, per Hegel, non resta in sé, chiuso, implicito, inespresso. Al contrario esso è essenzialmente espressione dispiegata e manifestata: fenomenologia. Il mondo, la storia del mondo, gli uomini che agendo configurano un senso sono appunto il dispiegarsi dello spirito.

La storia è lo spirito che si esprime e assume la forma di un susseguirsi di figure che in sintesi sono complessi di fenomeni rappresentativi di momenti essenziali della struttura dello spirito. Infatti lo spirito non si esprime a caso e senza senso, bensì si articola secondo passaggi logicamente sensati.
La fenomenologia dello spirito rappresenta dunque la trama del logos che manifestandosi si fa storia.

Se sostituiamo “Dio” a “Spirito”, possiamo dire che l’essenza profonda di Dio consiste nel farsi mondo e che di conseguenza la storia del mondo esprime lo sviluppo interno di Dio. Così, ogni figura, a causa di ciò che rappresenta, non è fatto transeunte e effimero, bensì una componente strutturale e permanente della storia dello spirito.

Dobbiamo concludere che anche l’infelicità fa parte intrinsecamente della storia dello spirito e ne costituisce una dimensione essenziale.

La coscienza è infelice quando si pone di fronte a un problema, ad una situazione che non sa risolvere e la cui risoluzione, invece, la renderebbe felice, pacificata come dice Hegel. Il problema che genera infelicità è una sorta di blocco, un ostacolo, una trappola in cui la coscienza incappa; è, innanzitutto, un problema del conoscere e ha natura spirituale, filosofica, logica.

Ricordiamo la drammaticità legata in molte culture all’enigma.
In Grecia il dio propone agli uomini attraverso la Sfinge l’enigma causa di morte per chi non riesce a risolverlo, ma anche causa di sventura per chi, come Edipo, crede di averne completamente compreso il mistero inafferrabile.
Per Hegel questa situazione “tipica” della coscienza si manifesta e proietta nella religione, segnatamente in una situazione epocale storica: la situazione del cristianesimo medioevale in cui la coscienza usciva dalla precedente situazione tipica (dalla figura) costituita dalla crisi del mondo antico.
La crisi del mondo antico si era concretizzata nelle vesti dello scetticismo, cioè nella incapacità di trovare la sintesi tra il sì e il no. Il mondo antico si frattura per non aver potuto e saputo dire sì. La coscienza si è trovata di fronte il mondo che le si è presentato come un enorme “no” da cui si è sentita schiacciata. Il problema irrisolto ha investito la coscienza rendendola infelice.

La infelicità nasce in uno scenario spirituale in cui la coscienza si trova davanti l’incomprensibile che gli si contrappone ( ob-jectum ), l’oggetto da cui si sente oppresso. E nessuna oppressione storica sarebbe possibile se la coscienza non la sentisse legittimata e inevitabile, se non sentisse che così va il mondo, e che l’oppressore è, a suo modo, un rappresentante di Dio.

b) Il no è Dio 

Quando il no si presenta come insuperabile e estraneo assume il valore e la potenza terribile di Dio. La coscienza crolla, si arrende e l’unica via possibile e doverosa sembra essere la sottomissione. è questa la devozione che culmina nell’ascetismo del cristianesimo dell’epoca medioevale.
Ma a questo punto, inaspettatamente, la coscienza scopre di essere riuscita in fine a incontrare ciò che le si contrapponeva, il no terribile, il Dio estraneo e lontano.
E proprio a questo punto, essa è divenuta il suo stesso limite, essa è divenuta il suo stesso ostacolo infinito: essa è vicina a Dio, essa è Dio.

In tale modo siamo oramai entrati in una altra figura ovvero in una altra epoca. Siamo entrati nel Rinascimento (nel quale Dio si è fatto trasparente nel mondo…).

Hegel vede il problema della coscienza individuale e dell’infelicità come un problema che appartiene non all’individuo e alla sua dimensione fattuale ma alla sua dimensione universale e spirituale (storia universale, universo, Dio) e che pertanto solo in quella sede si risolve. Nella prospettiva specifica di Hegel si può dunque dire che l’infelicità non è un problema dell’uomo preso a sè, ma è il problema dell’uomo che cerca di comunicare con Dio: è cioè un problema dell’uomo in quanto egli è anche partecipe del Tutto e dunque è anche Dio. In definitiva dunque possiamo dire che è un problema di Dio.

Il problema dell’infelicità può trovare soluzione e pacificarsi solo quando emerge con flagrante chiarezza che si tratta del problema di d io o, meglio del cammino della umanità che aspira a divenire libera (uscendo dalla contrapposizione soggetto/oggetto, oppressione/servitù).
Vediamo anche che il problema oppressione/servitù che sembra presentarsi come un problema esclusivamente politico (della polis ) è in realtà un problema di coscienza infelice, un problema religioso e filosofico.

I contrari inespressi provocano tormento e infelicità 

Per Hegel i contrari inespressi dividono la coscienza in due e provocano tormento e infelicità.
La coscienza ha una sola possibilità. Deve dapprima riuscire a trarre i contrari fuori dalla confusione caotica in cui sono, esprimerli, svilupparli; quindi cercare di ricomporli e ricomporsi: cioè di ridurre i contrari a contraddittori, smascherarli nella loro inconsistenza reciproca, abbatterli l’uno contro l’altro. Non è compito facile, né operazione semplice in quanto il soggetto percepisce dentro di sé le contraddizioni che lo opprimono e lo lacerano ma le vive come potenze estranee che irrompono da fuori, come presenze ostili di fronte alle quali crede di poter essere soltanto passivo. È necessario che egli riesca ad approfondire l’esperienza di quelle che vive come opposizioni reali, oggettive, indipendenti da sé, assumerle al suo interno come opposizioni soggettive e logiche, decifrarle, accettarle fino a riconoscere in esse una sua proiezione. Deve arrivare ad interpretare le contraddizioni come un problema di conoscenza e anzi di autoconoscenza.

Non è facile per l’uomo intervenire su un oggetto ostile – considerato come il male – e riconoscervi un demone che abita nella coscienza, dargli un nome, chiamarlo e proiettarlo a combattere contro un altro oggetto ostile parimenti penetrato e denudato, finché i due contraddittori, esaurita la loro virulenza nella lotta alla quale sono stati sospinti, tornino, domati, a servizio della coscienza liberata.

Se l’uomo ha paura del male, preferisce tenerlo a bada a distanza. Vuole dominarlo oggettivandolo e finisce per esserne dominato: perché finché il male è vissuto come altro, esso lacera l’uomo e lo opprime.

Il male (o la malattia) può essere affrontato solo in combattimento diretto, in un confronto vissuto fino in fondo con la consapevolezza che non ci sono vie di fuga.
L’infelicità è la coscienza infelice, nel linguaggio hegeliano, in quanto coscienza della insolubilità della contraddizione tra sì e no; ma il sì e il no si contrappongono in modo inconciliabile solo quando la coscienza non li coglie come reciprocamente dominati dalla legge suprema dello spirito, la quale impone l’unità dei termini della contraddizione.
Se si riesce a vedere i contrari come termini di una contraddizione essi non restano più tali e si mostrano profondamente e intrinsecamente implicati e connessi. Solo nel momento in cui il sì e il no si connettono ( coincidentia oppositorum ) la coscienza si autoriconosce e si sente libera; finché restano sconnessi e scissi, la coscienza è scissa, perché essa o è un sì che non riesce a capire e prendere in sé il no o è un no che si distacca da un sì.

d) L’infelicità e il problema dell’altro 

L’ età della coscienza infelice si esprime nell’antitesi filosofica, con la quale si conclude il mondo antico, che vede opporsi lo Stoicismo (per cui la libertà è solo all’interno dell’io: è nota la figura del filosofo che si sente libero anche se in catene) e lo scetticismo (per cui la libertà è solo fuori dell’io).
Ci sembra interessante vedere come si viene costituendo la problematica dell’altro e del rapporto con l’altro.

Per Kant, l’altro (il tu) è derivato, spiegato, riconosciuto nella stessa struttura del pensare: infatti, dato che «io– penso che io– penso», l’io– penso si pensa – nel mentre si pensa – anche come a un altro che pensa, a un tu– pensi.
L’io che pensa può pensare a sé come a un tu perché può pensare di essere pensato da un altro io– penso. Nel pensare, l’io e il tu si costituiscono insieme. In tal modo la universalità dell’io trova una fondazione intellettualistica.
Per Hegel, l’altro (il tu) viene derivato, spiegato, riconosciuto come una delle polarità nelle quali si trova scissa la coscienza infelice (non la coscienza intellettualistica, bensì proprio la coscienza infelice, che è resa tale dal vissuto della scissione). L’altro è il no, il limite, il non– io, l’oggetto, la separazione: un evento non meramente logico, ma sentimentale e dunque radice di infelicità. La stessa natura più intima della coscienza– autocoscienza, il pensiero, è infelicità. L’io infatti percepisce l’essere, la realtà, la vita universale come altro, negazione, non essere. L’avversione di Hegel all’illuminismo intellettualistico è completamente radicale.

Tuttavia se spostiamo il fuoco della prospettiva sull’essere, vediamo che è l’io a essere niente e negativo. Se infatti io sono questo qui e non sono tutto ciò che resta, tutto ciò che resta, che per me e rispetto a me risulta occupare l’area del non essere, è invece proprio il mondo nella sua interezza senza del quale evidentemente non potrei essere. Già in Platone (nel Sofista ) l’essere richiama con sé il non essere, e però il non essere è il vero essere universale da cui l’essere si ritaglia: l’indeterminato da cui si ritaglia il determinato. Il Sofista e il Parmenide sono per Hegel uno dei vertici della speculazione sul tema.

e) L’infelicità, problema religioso. 

«Nel mondo moderno – dice Hegel – c’è un carattere torbido, grave e irritabile insieme, che attiene all’essenza stessa del mondo cristiano».
Se il problema dell’infelicità riguarda la dimensione universale e spirituale dell’uomo, deve essere considerato un problema religioso, o, più esattamente, il problema della religione. Questa, infatti, svela il significato peculiare del modo con cui l’uomo ha concretizzato nella storia il proprio rapporto con il tutto e pertanto del modo con cui si è autointerpretato e ha raggiunto l’autocoscienza.

La religione, in quanto riguarda la posizione dell’uomo verso Dio o l’Assoluto, non occupa solo un settore della vita dell’uomo ma ne caratterizza l’intera civiltà. La religione (= civiltà ) può dunque offrire una via di salvezza e di guarigione, una speranza di felicità, ma può anche tramutarsi in una trappola mortale quando viene a rappresentare una cristallizzazione della coscienza infelice. Ciò accade allorché Dio si presenta come un Altro separato, lontano, estraneo, un oppressore e un padrone. In tale caso la coscienza viene fermata nel suo viaggio verso l’autocoscienza e la presa di possesso di sé (la liberazione) e viene inchiodata nella condizione di rottura e di scissione.

Questa situazione si è effettivamente realizzata nella storia che appunto è la fenomenologia dello spirito e delle sue vicende.
All’inizio la coscienza è coscienza immediata e ingenua di sé, così all’inizio la religione esprimeva la serena immediatezza della coscienza. Per Hegel, l’Olimpo e il Walhalla erano sereni. Gli dei greci giocano; per loro la vita, e dunque anche il dolore che è in essa, è gioco. E l’uomo greco, iniziato (da in– ire ), sente di poter entrare nel mistero del dolore, della vita e della morte (cfr. i misteri eleusini).
In seguito la coscienza doveva proseguire verso la coscienza mediata di sé, e così la religione (civiltà ) veniva ad esprimere il problema della mediazione e il suo tormentoso costituirsi.

Attualmente, saremmo proprio a questo stadio e la coscienza infelice sarebbe rappresentata in modo emblematico da Faust, lo spirito inquieto. Tuttavia l’infelicità non ha la dimensione di un’esperienza che appartiene al singolo e riguarda invece l’essenza stessa del mondo.

Lo spirito orientale opera la saldatura tra dolore e infelicità. La religione orientale sarebbe per Hegel inquinante perché con essa inevitabilmente la scissione tra soggetto e oggetto ha fatto sì che l’oggetto divenisse l’Altro. Attraverso il giudaismo, ha introdotto la visione di un Dio oppressivo che si erge contro il soggetto come un oggetto ( ob– jectum ) gigantesco, altro, un Dio vendicativo e irato che impone all’uomo la Legge, un Dio padrone di fronte al quale l’uomo può essere solo un servo. Il Dio di Abramo è un Dio che fatica , la cui vita è fatica e che impone fatica.
L’uomo risulta disarmato di fronte al dolore perché la sofferenza, il dolore sono divenuti altro da lui e sono diventati infelicità.

Contro l’oppressività della Legge si levò la predicazione di Gesù che proponeva un Dio padre e non padrone, un Dio prossimo e non lontano.
Ma quanto dello spirito giudaico non era stato trasformato dalla predicazione di Gesù, saldatosi con lo spirito romano, con il culto della legge astratta e dell’ imperium , dette origine alla nuova religione del cristianesimo. Nel cristianesimo grave e severo si saldano il mistero della Croce – della sofferenza umana – e della collera di Dio. Il cristiano guarda al mistero non come a qualcosa di cui è partecipe, ma a qualcosa collocato davanti a sé. A questo aspetto del cristianesimo Hegel contrappone l’essenza del messaggio di Gesù.

Questa situazione spirituale caratterizzata dal nesso tra coscienza infelice e categoria della dominazione/servitù non appartiene soltanto alla fase storica determinata dalla fine del mondo antico e dall’affacciarsi del cristianesimo, ma assume un valore che si proietta fino a noi in quanto il viaggio della coscienza verso sé stessa è permanente e costituisce il nòcciolo della storia del mondo. E la coscienza, nel proseguire il suo cammino, dal momento che non è mai possibile tornare indietro a stadi precedenti, ha portato il messaggio spirituale del cristianesimo alle estreme conseguenze: bisogna abbandonare il Dio morto per il Dio vivo. E un Dio separato dal mondo e dall’uomo è morto come l’uomo separato da Dio è morto. L’uomo e Dio separati reciprocamente l’uno dall’altro sono due no (non– io) contrapposti e scissi: per questo l’uomo deve trovare la strada per essere Dio, per esserlo da uomo e attraverso l’uomo.

Si tratta di un tema, fondamentale in tutto il Romanticismo, caro a Goethe, Schiller, Novalis, Schelling, Hölderlin.

f) Dal dolore alla guarigione 

Si ha pacificazione, cioè riconciliazione perfetta e guarigione, solo se si è passati attraverso gli stati della più completa lacerazione e del dolore infinito. Dato che il dolore è un viaggio che ha origine da una scissione, la scissione fa da ponte verso la conquista di sé. E la guarigione consiste nell’inserire il dolore in un percorso.

Questo concetto risulta della massima importanza in Hegel che ritiene sia necessario non solo accettare il dolore e rassegnarsi a esso, ma anche esplicitarne la componente più profonda e il significato riposto.

La coscienza conseguirà infatti la piena felicità, ossia la conquista di sé, allorché avrà preso coscienza del suo proprio svolgimento, del cammino fatto e potrà raccontarlo come già avvenuto.È il percorso compiuto da Odisseo nel suo viaggio di ritorno ad Itaca.La verità si trova solo al termine. Ma la coscienza infelice costituisce già una apertura verso l’infinito, perché se nella coscienza finita non fosse intervenuta la coscienza dell’infinito essa non sarebbe infelice.

Così il percorso verso la felicità (cioè verso la conciliazione, pacificazione) passa necessariamente attraverso l’approfondimento della natura della infelicità e la felicità, come la verità, emerge solo alla fine, al termine del viaggio, dallo spessore del dolore infinito e della infinita scissione.

Eppure il viaggio dello spirito è circolare e non finisce mai! Cioè, essendo circolare, il percorso si trova sempre al suo termine e dunque la coscienza potrà essere sempre al termine, e quindi pacificata e felice, se in ogni punto, in ogni momento, riuscirà a riassumere e contenere tutti gli altri.

g) La religione, una risposta alle malattie dell’anima 

La storia delle religioni potrebbe essere riletta anche quasi fosse il ventaglio delle risposte che i singoli popoli sono riusciti a formulare di fronte a quelle sofferenze dell’anima che hanno sentito come dominanti e nelle quali si sono – per così dire – riconosciuti.

Si potrebbe dire che un movente ineluttabile spinge all’incontro con alcuni dei e demoni, potenti figure di forze vissute come schiaccianti e inesorabili. Ogni religione, proprio attraverso la devozione che esprime a tali figure, rivela le più problematiche situazioni dell’esistenza umana. Gli sciamani dicono che ognuno si orienta verso i demoni responsabili della propria malattia.

Gian Battista Vico con grande intuizione rintracciava nelle guise della storia dei popoli che egli suddivideva in tre età (quella degli dei, quella degli eroi e quella degli uomini) la proiezione delle caratteristiche tre età della psiche: «gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con animo puro» ( Sc. Nuova , 1744, degn. 53).

Sulla sua scia la psicologia analitica e la mitoanalisi potrebbero offrire una chiave ermeneutica per studiare le formazioni storiche.

Sotto questa ottica potrebbe essere ripercorsa anche la storia delle religioni. Quale mai sarà la malattia (o il demone prevalente) contro cui hanno dovuto lottare le religioni dell’islam, del buddhismo, del c ristianesimo, delle varie sette gnostiche, del dionisismo, ecc.? In quali contesti religiosi si è cercato di dare una risposta a malattie come depressione, bulimia, impotenza, schizofrenia e a tutte le altre che infestano il mondo moderno con il loro sofferente corteo?

In una fase arcaica, precedente alle differenziazioni e alle varie specializzazioni (la cui testimonianza archeologica più leggibile è rappresentata dallo sciamanesimo nelle sue varie espressioni), non si distingueva il malessere del corpo da quello dell’anima, si guardava alla malattia nel suo insieme e non si inseguivano le particolari malattie.

Le religioni postsciamaniche, pur se hanno organizzato visioni generali, lo hanno fatto condizionate dal peso di uno specifico problema dominante, la paura del male, e si sono orientate attorno a un centro di gravità specifico in corrispondenza di una singola malattia dell’anima

A differenza delle religioni sciamaniche le postsciamaniche sembrano appartenere a una umanità decaduta, dominata dalla paura del male che organizza, assumendo una posizione da sùccube, una risposta a uno dei mali, ovvero a quella tra le molte facce del male con la quale esso a volta a volta si impone.

Il Dio che fu percepito come temibile signore che impone al suo popolo devozione sembrò rendere più convincente la sua richiesta accompagnandola con minacce, sofferenze e mali superabili soltanto con il suo favore. Ma dietro a ciò si poteva scorgere come fosse percepito quale vero Dio proprio il male, mentre i singoli dei altro non erano che i suoi servi, capaci solo di illudere e ingannare e incapaci di risolvere il vero problema. Tuttavia questi dei hanno l’aspetto del male soltanto per una umanità decaduta e sconfitta.

Nel romanticismo ci fu un importante dibattito sul cristianesimo, o sulla religione.

Hegel, che aveva avuto come compagni di seminario a Tubinga Schelling e Hölderlin, riassume tale dibattito in modo filosofico. Secondo Wahl, Hegel avrebbe razionalizzato il cristianesimo o cristianizzato la ragione, ma questo era già il programma di Goethe.

Hölderlin ha inclinato verso una forma di dionisismo mistico (ed in tale modo ha parlato del Cristo, in Morte di Empedocle Hyperion ) in questo mostrando una certa somiglianza con Hegel giovane che contrappone Gesù al cristianesimo.

Goethe, Humboldt, Schiller, F. Schlegel… si volgono verso il cristianesimo ma lo ripensano avendo in mente l’anima della Grecia (e degli antichi Germani, come Herder ad es.).

Novalis, contrapponendosi a Goethe, inclina verso un cristianesimo mistico, come appare in suo romanzo su un menestrello medioevale, Heinrich von Ofterdingen. 

La letteratura su questo dibattito è molto ampia. Ricordiamo tra i testi più significativi il libro di Löwith, Da Hegel a Nietzsche e i saggi di Heidegger su Hölderlin e in particolare Lafenomenologia dello spirito di Hegel, la cui figura emblematica è Faust.

Hegel è critico nei riguardi dei Romantici in quanto ritiene che perpetuino le scissioni dell’anima sia pure in forma diversa dagli Illuministi. La sua polemica si rivolge in particolare con quelle che egli chiama “anime belle”, le quali, pur protese all’unità tra felicità e infelicità, non possono attuarla perché tale unità è solo sognata e astratta, collocata in un “fuori di sé”. E fra le anime belle annovererà Cristo (sul quale torna a varie riprese), Novalis, Schiller.

La sua polemica contro il giudaismo si riproduce contro il protestantesimo e contro l’illuminismo, e in sintesi contro le filosofie e le morali astratte e oppressive che non colgono l’individuo particolare, ovvero la vita.

Hegel, dal momento che connette la coscienza infelice con la categoria di signoria e servitù, connette la felicità alla libertà. Il grande tema della libertà è stato al centro dell’attenzione dei romantici. Tuttavia la libertà di cui parla Hegel non è né la soggiacenza a una legge astratta e oggettiva– oggettivante né individualismo.

h) Libertà e sacrificio 

Dice Hegel: «essere schiavi di se stessi è peggio che esserlo di un altro».
Per Hegel, dunque, il male fa parte dello spirito: è infatti proprio la negazione dello spirito, ciò che ne ostacola la vita, dunque la morte.
Soltanto lo spirito che nega la negazione e per negarla la accoglie e fa propria riesce ad affermare se stesso. Lo spirito che invece non sa accoglierla e riconoscerla come parte di sé si scinde e a causa di questa scissione perde la sua forza, si deprime e diviene coscienza infelice. Ma la morte non è una cosa, allo stesso modo che non è una cosa il male; e perciò male e morte sono atti dello spirito.

Hegel ha voluto dire che diviene infelice lo spirito che non è in grado di tradurre la morte in un atto dello spirito, lo spirito che non è in grado di vivere la morte come un agire.

Ciò è forse spiegato dal concetto heideggeriano di anticipazione della morte, almeno in quanto in esso si descrive un’esperienza circoscritta all’interiorità (per Hegel l’interiorità comporta la separatezza e il contrasto nei confronti del mondo). Comunque si può anche pensare che Hegel abbia voluto significare proprio la nozione più inconcepibile per la cultura cristiana: la morte come atto è precisamente l’atto che dà la morte .

Un simile atto (il dare la morte), che attiene così essenzialmente alla dialettica dell’autocoscienza che si svincola dalla servitù e si rappacifica con sé stessa finalmente libera, deve evidentemente muoversi su un livello diverso da quello della realtà banale e precisamente sul livello in cui si è immessa la coscienza libera, trasmutandosi. Di modo che morte vera sarà solo quella che si realizza in quel livello e che in quel livello appartiene alla coscienza libera.

Eppure ciò non toglie che quell’atto sia pur sempre l’atto che dà la morte, pur non essendo il mediocre atto brutale. La coscienza raggiunge il vertice della sua completa libertà nel punto stesso in cui si dimostra capace di agire la morte e di dare la vera morte. E la morte vera è quella che si è capaci di prendere con sé e in sé: quella morte quindi che si è capaci di dare a sé e, nel darla a sé, si è capaci di dare agli altri.

L’uccisione (il dare la morte, l’agire la morte) è al centro della riflessione sull’azione sacra per eccellenza, il sacrificio; e il sacrificio è al centro della questione della ricomposizione di Dio e del ruolo dell’uomo in questa ricomposizione.

La metafisica del sacrificio è discorso antico e lungo …

Nel paragrafo precedente è stato rilevavo il nesso tra libertà (la coscienza liberata dalla scissione e dalla infelicità ) e accettazione– riconoscimento della morte come esperienza intima (l’esperienza della negazione reale): la morte che si prende e che si dà, la morte che non è un fatto, ma un valore, che non è un qualcosa che si subisce e che ci si oppone: il valore creativo della morte.

La percezione più semplice di ciò può essere espressa dicendo che nessuno è libero se non è pronto anche a morire per la propria libertà. O anche semplicemente: nessuno è libero se non è pronto a morire.

i) L’uomo sofferente è superiore agli dei 

Hegel si riappropria – dopo le critiche iniziali – del cristianesimo razionalizzandolo, facendo del Cristo l’incarnazione della dialettica (ma già per Giovanni era il logos !), il punto in cui la storia è insieme particolare e universale. Invero ciò non vale per il solo Cristo e in definitiva vale per la umanità intera, tuttavia la coincidenza di Dio e uomini aspettò Cristo per rivelarsi.

Dato che Dio e uomini coincidono, dato cioè che la storia degli uomini esprime la storia di Dio, allora la sofferenza degli uomini appartiene intimamente e essenzialmente alla storia di Dio: e la sofferenza è la coscienza infelice, la scissione, il peccato, la rottura.

Così quando in Dio interviene una scissione, tale scissione è appunto l’uomo. Tuttavia, proprio nel punto della massima scissione (quando è uomo dilacerato e morente, uomo per eccellenza), diventa di nuovo Dio. L’individuo diviene Dio solo perché e proprio perché muore. L’individuo, negandosi come tale, e finendo, si apre all’infinito … È il grande tema di Hölderlin. A sua volta, il tema della rottura di Dio (la creazione è una rottura, la nascita dell’uomo è una scissione interna a Dio), sta anche in Goethe, Lessing, Schiller (Teosofia di Julius), Schelling. E prima ancora in Eckhart, Boehme, e soprattutto presso gli gnostici.

Se, come è stato detto, la coscienza infelice è insieme un evento dello spirito del mondo (Dio, storia degli uomini, essere) e un evento della psiche, tutta la storia della umanità si risolverà, pertanto, proprio quando di essa sarà chiaro il logos , la ragione, quando essa sarà un grande ragionamento che contiene la spiegazione della negazione, e per contenerla la nega e pure negandola la conserva.

La proposta di Hegel consiste in una religione filosofica, in una filosofia che si fa religione.

La scoperta del movimento del logos può diventare una religione proprio in quanto il logos hegeliano è storia e quindi è concreto; ma esso può essere concreto e non mera astrazione proprio perché contiene la negazione, quella negazione che è reale solo nella fremente determinatezza dell’individuo. Lo spirito che contiene e conserva in sé la negazione per ciò stesso contiene e conserva gli individui, articolandosi in loro.

In breve, lo spirito secondo Hegel si muove (vive) in quanto si rompe e si riconcilia continuamente; e poiché tale rottura viene introdotta dalla e con la individualità, lo spirito coincide con la vicenda della soluzione del problema della individualità.

l) L’individualità : coscienza infelice 

Il problema della individualità si configura come la coscienza infelice, dimodoché lo spirito deve essere interpretato come la coscienza felice che ha bisogno della coscienza infelice (detto in termini filosofici, esso è la unione che ha bisogno della rottura).

Il nòcciolo conclusivo della visione hegeliana consiste nel conseguimento della conoscenza che coscienza infelice e coscienza felice sono la stessa cosa. È questa la conclusione di tutto il movimento romantico.

La IX sinfonia di Beethoven e La Fenomenologia dello spirito si concludono entrambe con i versi di Schiller, secondo i quali il dolore è necessario alla gioia. L’infelicità è essenzialmente felicità perché la felicità non è una beatitudine senza sofferenza, ma “felicità virile”: essa è piuttosto Lucifero che risale dall’inferno, dice Hegel. In definitiva, è l’uomo al massimo della sua umanità ; non l’uomo disumanato e divinizzato bensì al contrario semmai il Dio umanizzato e sofferente.
Anzi, va detto che l’uomo sofferente è superiore agli dei.
Il dolore rende l’uomo superiore agli dei perché lo spirito universale e il logos nella loro intima essenza sono rottura e dolore, cioè sono uomo.
L’essenza dello spirito è la incarnazione, ovverosia fenomenologia, apparire, realizzarsi, farsi mondo, rompersi nella articolata pluralità degli individui.

Questo è il cristianesimo filosofico di Hegel che in tale modo rilegge Eckhart con la sua visione del logos divino e gli gnostici.

Naturalmente, come abbiamo visto, l’individuo si trasmuta nell’universale perché finisce e muore, e dunque proprio la sua caratteristica essenza (l’essere mortale e finito) lo forza a diventare universale.

Dice Wahl che la spiegazione del disincarnarsi dell’individuo (del suo farsi universale) sta nel processo mediante il quale l’universale si incarna. Il particolare si trasforma dolorosamente in universale soltanto perché l’universale si è tradotto dolorosamente in particolare. L’uno è il rovescio essenziale dell’altro. Nell’uomo vive una scintilla divina, egli può amare Dio solo perché è pari a lui.

Conclusione 

conclusione possiamo dire che l’uomo deve amare il proprio destino. E deve prendere coscienza del proprio destino. Se e in quanto vi riesce, egli diventa il destino stesso.

Per Hölderlin l’uomo è superiore agli dei a causa del dolore ( Morte di Empedocle ). E, osserva Wahl, il poeta o il filosofo (che vede i movimenti attraverso i quali disperazione e speranza si trasmutano reciprocamente l’una nell’altra) è superiore anche a Empedocle.

Dice Hegel che ciò che ha fatto difetto all’anima bella del Cristo è l’audacia, la fierezza, il coraggio di mantenersi nel mondo e di vincerlo: egli non ha posseduto la pienezza della forza della sintesi e non ha conseguito una religione di popolo. Occorrerà dunque procedere a un ripensamento del cristianesimo portandolo a consapevolezza filosofica, ritrovando il suo lato gnostico.

Possiamo dire che Hegel, sostenendo che la felicità sta nell’estremizzare cioè nel portare a conclusione (e dunque fino in fondo!) l’infelicità, riprende l’antico tema del viaggio iniziatico agli inferi che, nella tradizione degli sciamani, comporta anche sofferenza fisica per cui l’esperienza della rottura e della lacerazione è reale e sofferta anche con il corpo.

 

Maria Pia Rosati


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