Tramontare di fronte al dio assente

Giuseppe Lampis

Premessa
Solo un dio ci può salvare

Heidegger accettò di essere intervistato da “ Der Spiegel ” nel settembre 1966.

Il testo fu pubblicato, peraltro con alcune modifiche non a conoscenza del filosofo, solo dieci anni dopo (31 maggio 1976, XXX, n. 23), a pochi giorni dalla sua morte avvenuta il 26 maggio 1976.

Il titolo è il famoso Ormai solo un dio ci può salvare Nur noch ein Gott kann uns retten.

Trascrivo la frase che segue dalla versione effettivamente autorizzata dell’ampio colloquio (Politische Schriften 1995; trad. it. Gino Zaccaria, Scritti politici, Piemme, Casale Monferrato 1998, pg. 284).

1
Una frase inquietante

A una domanda sulla possibilità di contrastare lo stato attuale del mondo afferrato nel destino della tecnica, Heidegger, rispondendo che ormai solo un dio ci può salvare, conclude che l’unica via è di prepararsi « per l’apparizione del dio o per la sua assenza nel tramonto; in modo che il nostro destino non sia quello, per dirlo brutalmente, di “crepare”, ma che sia, se dobbiamo tramontare, quello di tramontare al cospetto del dio assente. »

Concentriamoci sul pensiero di una morte che sfugga alla dissoluzione: « non… “crepare”, ma tramontare al cospetto del dio assente. »

2
Heidegger legge Nietzsche

I due concetti di « tramontare » e di « dio assente » sono tratti dalla lettura de La Gaia scienza di Nietzsche.

Tramontare –

Il concetto è preso dall’aforisma 242 (Incipit tragoedia).

Qui la morte avviene per sovrabbondanza.

Zarathustra decide di seguire il sole che, per sovrabbondanza di essere, sceglie di aggiungere al sorgere anche il tramontare.

Dio assente –

L’aforisma 242 soprarichiamato è in relazione stretta con il precedente 125 (L’uomo folle).

Nel 242 si annuncia che « dio è morto », che la trascendenza è finita, smontata, smascherata.

Nel 125 l’uomo libero è colui che decide–accetta di « tramontare » perché il tramonto è un portato della sua stessa ricchezza vitale. Un uomo che, alzandosi e guardando severamente in faccia al destino, abolisce la subalternità al trascendente e acquista la pienezza dell’esistenza integrata.

I due passi de La Gaia scienza ci aiutano a comprendere quanto la filosofia di Heidegger rappresenti un’approfondita ermeneutica di Nietzsche e gli sia debitrice delle intuizioni antimoderne.

La morte di dio e la libertà dell’uomo sono le inscindibili facce della stessa idea e dello stesso vissuto.

Con la conseguenza che è terribile per l’uomo occupare il posto di dio; essendo terribile assumere il destino di morire – precisamente come dio, appunto, muore –.

L’uomo libero, colui che si riappropria del sé esteriorizzato in dio, deve risolvere il problema, il problema essenziale. L’uomo libero è libero perché assume il compito di risolvere il problema di dio.

3
Dio e l’umanità

Che dio risolva i suoi problemi impersonandosi nell’umanità è dottrina (esoterica) assai antica.

Martin Heidegger – foto del 1950

Una prima traccia documentale scritta compare nei libri Veda e in Platone, però l’intuizione è più remota e appartiene allo sciamanesimo e in generale agli scenari religiosi della doppia creazione, ossia del doppio creatore.

Malauguratamente, la dottrina dell’alienazione di dio nell’uomo, per riconoscervi proiettato il proprio essenziale problema e risolverlo, ha avuto la sventura di uno dei più esiziali fraintendimenti della storia della cultura mondiale.

Che l’uomo sia la soluzione del problema di dio è da intendersi in senso completamente rovesciato rispetto alle religioni mondaneggianti culminate nel cristianesimo e simili.

Innanzitutto, non si tratta della dinamica dei singoli specifici uomini, di ciascuno preso a sé, bensì della storia dell’intera umanità, dal suo principio alla sua inevitabile fine.

Seppure di tanto in tanto viene eletto un caso esemplare di uomo dall’altezza straordinaria, si tratta purtuttavia di un modello che riassume le potenze dell’umanità e non di un ente che la trascende.

Inoltre, la storia dell’umanità a sua volta non è certo infinita, l’umanità è un episodio del cosmo attuale, ha avuto un principio e avrà una fine, fine che sulla scala universale non risulta nemmeno troppo lontana; sicché, ammesso che dio si sia proiettato in lei, dobbiamo convenire che la proiezione vale per una sua parte e non per tutto sé stesso.

4
L’uomo risolve il problema?

Ma il punto decisivo, purtroppo per i teorici della salvezza, è ancora più stringente.

Come si fa a non vedere che cosa sia l’uomo?

Se vogliamo prendere l’uomo per una soluzione, dobbiamo pensare che dio ha risolto il suo problema mettendo l’uomo esattamente nello stato in cui è per natura.

La soluzione sarebbe perciò la miseria e la distretta della condizione umana ordinaria?

Eraclito proclama che polemos ha deciso la differenza gerarchica di dèi e uomini. polemos è la legge suprema, una volta per tutte, che decide in eterno, ripetendosi incessante. polemos decide sempre e per sempre, sicché sempre il dio è dio e l’uomo è uomo.

Perciò è vero che dio risolve nell’uomo il suo problema; è tanto ovvio da non vederlo:

lo risolve precisamente nel fatto che l’uomo è quello che è.

Forse in questo consiste la riposta verità della splendida religione olimpica. E forse né Eraclito né la gnosi più sottile e riservata hanno mai pensato altrimenti.

Che le cose dell’escatologia e del logos stiano così non toglie – anzi prevede – che l’uomo autentico sia colui che ha il coraggio e la semplicità di stare al suo posto e di viverlo fino in fondo; una sola vita, ancorché secondaria, vale per un disegno il cui senso la eccede.

5
L’assenza di dio

Gli dèi se ne sono andati. Che si siano allontanati loro o l’uomo materialistico e storicistico, non fa differenza, è lo stesso evento. L’uomo interamente materia e storia sta in una dimensione nella quale gli dèi sono assenti perché disomogenei con essa. In questa dimensione, l’uomo crede di essere il signore degli dèi, mentre è semplicemente atrofizzato e sordo. Il primo passo per la distruzione della dimensione precedente fu il monoteismo, il monoteismo era la proiezione della pretesa umana di essere il signore, – in questo avevano inconsapevolmente ragione Voltaire e Feuerbach.

Comunque, gli dèi possono andarsene o essere allontanati perché non sono eterni. All’inizio non ci sono gli dèi, c’è un unicum denso e pieno senza né olimpi né inferi.

In vero, il dio delle antiche tradizioni era separato e assente.

Gli storici delle religioni conoscono un dio creatore otiosus, il creatore che dopo aver dato origine al mondo si ritira inattivo e lascia il posto a dinamismi intrecciati con le vicende umane.

Gli dèi omerici banchettano con l’ambrosia eternamente giovani e, gioiosi nella loro lontananza inarrivabile, non si occupano della sfera degli uomini.

Il dio di Aristotele pensa esclusivamente sé stesso e non contiene in sé alcuna materia residua o alcuna potenzialità ancora da realizzare; in quanto « pensiero di pensiero » è perfettamente separato dal mondo del divenire; motore immobile, il movimento del mondo dipende dalla sua forza immobile di attrazione, un autentico buco nero.

In Eraclito il principio divino produce gli dèi e gli uomini, gli dèi sono dovunque e gli uomini sono guardati da una schiera di dèmoni che si aggira fra loro; ma il divino sfugge e sovrasta, è un pastore che frusta le bestie al pascolo. La presenza del divino sta nell’inferiorità schiacciante degli uomini.

Quando Heidegger parla di assenza di dio intende che l’unico modo di dio di essere presente all’uomo attuale è di essere percepito per assente. La percezione della sua assenza altro non è che la percezione dell’insufficienza della condizione umana.

La condizione umana è aperta all’inafferrabile superiorità di un’altra condizione.

Forse il dio assente è una metafora dell’antico dio superbo della sua gioia e indifferente al male di fronte al quale può stare solo l’eroe.

6
Il dio che muore

La sorte di Eraclito è di essere stato il frainteso per antonomasia, la cosa sorprendente è che invece egli è chiaro, la sua famigerata oscurità non è sua, sono gli uomini che girando la testa dalla parte opposta alla verità, troppo pungente, vedono buio.

Il frammento 62 (« immortali mortali, mortali immortali: viventi gli uni la morte di quelli, morenti gli altri la vita di questi ») esprime un concetto–chiave.

« Immortali mortali mortali immortali » è una catena che continua ad infinitum: se il mortale diviene immortale, l’immortale in cui trapassa è un immortale che si fa mortale.

Dunque, il fatto che il mortale muoia viene spiegato così: il mortale muore perché è un immortale che muore.

Dio muore e l’uomo è il dio che muore.

Dio è morto e simmetricamente noi siamo il dio che è morto. Siamo un dio morto.

7
Morte per logica

Dio è morto per un siluramento intellettuale, per un collasso logico.

Diventato logos (nella teologia) ne segue il destino, il dio muore di logica e per la logica.

E l’uomo che l’ha ucciso, colui che proprio per essere sé stesso lo ha ucciso svolgendo il ragionamento corrosivo (gorgiano), si dimostra fondato e costituito dalla logica che uccide e, coincidendo con essa, ne è corroso.

Ne viene che l’uomo è il dio che si è ucciso da sé stesso mentre – o perché – era alla ricerca (intellettuale) della propria identità, alla ricerca di chi fosse veramente.

8
Fine della storia

Avete voluto smascherare dio? Siete in grado di sopportarne le conseguenze?

Siete in grado di accettare che il mondo, la vita, la storia e la società siano alla mercè di dinamiche non conosciute e non regolabili nella maniera in cui lo erano prima, nell’età della sicurezza teologica?

Risolta l’alienazione, siamo entrati nella età nuova dell’immanenza.

Non ve l’hanno detto, non ve ne siete accorti, eppure le conseguenze e il significato dell’immanenza sono assai pesanti.

In ogni caso, l’età nuova non riguarda noi, il mondo di cui siamo le ultime foglie. Se l’età è nuova, riguarda altri.

Abbiamo risolto l’alienazione per offrirla ad altri, l’opera ci ha esauriti definitivamente, la nostra storia non ha più compiti ed è finita. La storia nostra, beninteso, non quella dei nuovi.

La storia è finita.

È finita perché l’assoluto si è riappropriato della sua alienazione. Adesso dobbiamo finalmente vedercela con noi stessi e non con dio.

Questa è la libertà, una libertà che contiene un vulcano in eruzione.

Giunti nell’età che Eraclito chiama della pienezza (B 67 « il dio è carenza–pienezza »), immersi nella pienezza, siamo coinvolti direttamente nelle sue leggi drammatiche senza schermi protettivi. Chi è fuori è fuori, i deboli e gli sfiniti sono spinti ai margini dai forti in cui si esprime il nuovo organismo.

9
Assenza non è inesistenza

I vecchi, o il vecchio mondo, continuano a vedere il problema della vita dall’angolazione della morte e della perdita di dio, in un suggestivo approfondimento filosofico artistico politico letterario.

Vedono il problema con una simile lente essendo nella sostanza cadenti e depressi.

Il vecchio mondo non ha la visuale per capire ed è schiacciato dal rancore e dall’invidia.

Eppure, il problema di fondo non è un dio morto e un uomo che vive al suo posto. Assente non significa inesistente o fuori dall’essere.

L’« assenza di dio » è l’esperienza di un vuoto, ma il vuoto non è mero non essere, è l’effetto di un’azione, un’azione di svuotamento.

La percezione dell’assenza indica ben altro, è l’effetto di un’azione. Il dio oggi in atto agisce micidiale, fa il vuoto, svuota, rovescia.

Se ci troviamo nel cono d’ombra del nichilismo, è perché il dèmone dominante ci ha cacciato lì dentro.

Il nichilismo è l’angolazione da cui percepiamo il servaggio in cui siamo caduti senza nemmeno riconoscere chi sia il dominatore.

Il nostro nichilismo è il rovescio simmetrico della pienezza di essere di un dèmone che ci tiene nel vuoto e nell’insignificanza.

Gli uomini prendono l’assente per inesistente. La dialettica assente–presente fa nascere l’equivoco di un divenire contrapposto all’essere.

10
La vittima del sacrificio

Dio risolve il suo problema sacrificando l’uomo.

Il sacrificio indica che l’uomo è dio stesso, dal momento che dio si è riversato nell’uomo per risolvere il suo problema.

Ora, l’uomo è nell’immanenza ma l’immanenza contiene il problema di dio e lo deve risolvere sotto pena di perdere l’immanenza stessa e tornare alla lacerazione precedente.

Qual’era quel problema?

Interroghi sé stesso e risponda.

Empedocle cantava di essere un dio fuggiasco e esule. Eraclito, più severamente, chiama in causa l’abisso incandescente che afferra e porta con sé nel fuoco.

Il superamento dell’alienazione della proiezione in dio è una trappola voluta dal dio per ribadire la sua superiorità.

11
La soluzione

Infatti, una volta che l’uomo si è riappropriato del problema di dio, esplode di nuovo e riappare l’abisso dell’incomprensibile ignoto che sovrasta.

Avevano visto giusto i primi pensatori.

Avevano ragione, in definitiva, gli olimpici: l’uomo non può tornare, in quanto uomo, allo stato divino.

Dio è si è rotto definitivamente, una volta per tutte, nel modo tipico di un vero dio. Si è rotto creando e non potendo non creare. La creazione, l’originare, è rottura, secondo che affermava Anassimandro all’inizio della filosofia greca.

E la creazione – che è rottura – si riassorbe soltanto esaurendosi. Morendo.

L’uomo, finché è tale, non risolve alcun problema, la soluzione è il riassorbimento e la fine.

In questo senso e solo in questo, stante che la fine gli è intrinseca, egli risolve. Egli risolve con il proprio finire il problema creato da dio.

È in questo finire che dio ha creato la soluzione del proprio problema: il creato muore e si riassorbe.

Lo sapevamo, a rigore l’assoluto è realizzato quando, dopo essere uscito da sé, torna a sé.

Ma – appunto – colui che torna a sé è dio, non è l’uomo.

L’uomo è un episodio di un racconto che non ha scritto lui. Il significato lo potrà conoscere solo chi saprà leggerne la fine.

Giuseppe Lampis


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