Maschera e daimon (da àtopon Vol. IV)

Giuseppe Lampis

1. Potenza della maschera

Uno dei fenomeni più caratteristici dell’epoca in cui viviamo consiste nella disinvolta diffusione dell’uso di maschere e mascheramenti. Invece di essere circoscritto e attualizzato in un tempo e in uno spazio speciali, l’uso di maschere viene banalizzato quotidianamente. Donne e uomini di questa epoca celebrano, grazie anche a questo presuntuoso maneggio di un oggetto molto misterioso, un arrogante trionfo del proprio potere soggettivo. Ma, così facendo, essi divengono potenti effettivamente?

Africa, Costa d'Avorio - Maschera di N'gere Wobe
Africa, Costa d’Avorio – Maschera di N’gere Wobe

Al contrario, la maschera indossata senza precauzione e senza preparazione adeguata, si vendica inesorabilmente di chi la usa con indegnità : gli uomini presumono di disporre del potere della maschera con facilità e, invece, è la maschera che si impadronisce di loro, svuotandoli ulteriormente. Essi pensano di possedere le maschere, mentre sono le maschere a possedere loro.

Si badi bene: l’uomo moderno non cade in errore per il fatto che attribuisce grande importanza alla manipolazione dell’aspetto esteriore. D’altronde, non sono tipicamente moderne né l’importanza assunta dalla dimensione teatrale della vita né l’idea che comunque acconciature e cosmetici, divise e paramenti, e in generale ogni travestimento, abbiano il potere di introdurre nel personaggio e nel ruolo etico-sociale in cui si desidera essere riconosciuti. Lo sviamento a cui accenniamo va ricercato piuttosto nella illusione di poter usare i sembianti a piacere come se fossero gusci neutri e vuoti, involucri senza realtà, oggetti senza profondità e spessore, accidentali e indifferenti, distaccabili da ogni connessione sostanziale retrostante.

La superficialità, la disinvoltura, la faciloneria dell’adozione delle maschere si unisce agli altri segni del disorientamento dell’uomo moderno.

Non è questa la sede per ripetere per esteso le analisi circa la moda che molti, a partire per esempio da Georg Simmel, hanno sviluppato. Ricordiamo solo che l’intensificarsi dell’importanza sociale di tale fenomeno, assurto alla dimensione di una vera e propria ossessione di massa, ha corrisposto al farsi sempre più acuto di un problema di identità e di ruolo.

Alla radice della frenesia della moda è stato giustamente intravvisto il rifiuto di adottare un punto permanente di equilibrio e il soggiacere al fascino della rottura e dello spostamento continuo del centro. Avviene così che il bisogno di un rinnovamento continuo dello stereotipo dell’apparire si faccia sempre più imperioso; le masse consumatrici inseguono le classi alte le quali a loro volta, per sfuggire alla presa dell’omologazione, sono sospinte a imprimere un’ulteriore accelerazione al rinnovamento. Un sofisticato sistema industrial-finanziario dell’immagine e della moda interpreta con prontezza la corrente e ne amplifica scaltramente gli effetti.

Tuttavia la questione di fondo non è data dal fatto che gli uomini siano divenuti preda di poteri economici alienanti, bensì dall’equivoco che li ha preliminarmente disarmati. Essi credono di disporre delle maschere come se fossero oggetti da supermercato ed invece sono caduti in una trappola.

Così, anche nella inadeguatezza di chi usa senza cautela e preparazione la maschera, si presenta un effetto del nichilismo dell’epoca e del suo specifico modo di rapportarsi con la realtà.

La maschera contiene una carica di forza e perciò anche di pericolo. Essa è come la faccia del sole: il suo viso non si fa guardare direttamente e i raggi che diffonde sono sì benefici e vitali, ma anche mortali e malefici.

La forza della luce che al tempo stesso rende visibili e permette di vedere è anche una forza che può produrre l’effetto di oscurare e accecare.

Non c’è nessuna soluzione di continuità tra l’apparenza e la realtà che si consegna nell’apparire. L’apparire è indissolubilmente connesso con una realtà concreta retrostante.

Nell’apparire si fa strada una potenza che è quella stessa che riesce a dare origine alla realtà. Nel mondo e nella dimensione dell’apparire, nella vicenda dei molteplici fenomeni, si fanno avanti segni, tracce e presenze provenienti da una straordinaria riserva di potenza. Potenti forze produttrici di realtà entrano ed escono dal campo dell’apparire, mostrando a volta a volta qualcosa di loro, e con ciò aprono passaggi e accessi, ancorché difficili, verso il loro livello.

Le maschere non guardano agli uomini, non parlano agli uomini; succede così per quelle dei Dogon, come ancora per il volto dell’Afrodite di Milo. Esse sono rivolte in un’altra direzione: verso il luogo in cui si tengono e vivono le forze che sostengono ed orientano il mutevole divenire delle apparenze. Dietro la maschera si indovinano le potenze dell’azione e gli dei fondatori.

Colui che indossa la maschera, mediante essa, chiama il dio, ma deve essere capace di avvicinarne la potenza senza restarne schiacciato. Il vero attore sulla scena della danza e del mimo è il dio: l’uomo che lo chiama deve perciò essere un uomo sacro, un sacerdote, uno capace di fungere da mediatore. Non tutti riescono ad essere portatori di un dio; indossare degnamente la maschera è segno di aver superato una prova iniziatica e di aver compiuto un salto di livello esistenziale.

La maschera, infatti, provoca una trasvalutazione e una trasformazione dell’uomo che la usa, in quanto non si può adottare senza un effetto di possessione. Essa concede e impone un’altra forma, introduce in un altro stato, riporta all’origine e ai primordi.

Le maschere non solo rappresentano ma sono anche effettivamente – per il nesso inscindibile che salda tra l’apparire e l’essere – gli antenati e gli dei della morte. Dal momento che solo i morti e gli dei della morte possono guidare nelle regioni delle origini, ora nascoste, attraverso di essa – e in compagnia di quelli – si torna all’inizio della creazione.

La maschera ha il potere di mettere in contatto con l’aldilà e, esercitando al tempo stesso la funzione sia di rivelare sia di nascondere, si colloca sul punto di passaggio tra il visibile e l’invisibile. Se qualcosa si rivela, vuol dire che se ne stava nascosto: ma essere nascosto non vuol dire non esserci affatto e, piuttosto, vuol dire esserci già da prima e poterci essere ancora nel dopo. L’invisibile è potente perché in esso si raccoglie la riserva della realtà che via via si manifesta. L’essere, che nel presente si manifesta e si fa visibile, in illo tempore era invisibile e tale tornerà ; per questo motivo, ciò che si mostra appartiene ad un mondo più potente e più ricco di realtà che lo possiede e lo esprime.

2. La Gorgone

All’ambivalenza della simbologia solare si riconduce una delle maschere più inquietanti della grecità : il volto di quella Gorgô che, sola tra le tre sorelle, trova la morte. Il suo nome, Medousa, che vuol dire la Sovrana, al maschile ricorre come attributo del terribile multiforme oscuro Poseidon, l’unico che sia riuscito a congiungersi con lei.

Dato che la luce dei suoi occhi ha la forza di trasformare in pietra, ovvero in morti, il volto di Medusa non si può, o non si deve, guardare. In ciò, oltre che tornare dannoso esso può rendersi anche utile: il gorgoneion sul colmo del frontone greco arcaico svolge infatti una preziosa funzione apotropaica.

Vulci - 490 a.C. - Riproduzione di Gorgone alata su anfora dio ceramica
Vulci – 490 a.C. – Riproduzione di Gorgone alata su anfora dio ceramica

Invero la stessa funzione apotropaica altro non è che un aspetto essenziale della signoria esercitata sugli spiriti inferi, signoria che mantiene tutti i caratteri dell’ambiguità di cui andiamo dicendo, perché tali spiriti, come possono essere frenati, così possono essere scatenati; del resto, la loro natura è sia distruttiva sia costruttiva dal momento che il morire è presupposto del nascere e il nascere se ne alimenta. L’apposizione della maschera sul colmo del tempio non testimonia la certezza di un automatico effetto apotropaico, ma si fa segno di una chiamata in aiuto e alleanza di potenze delle quali si riconosce la forza tremenda e alle quali ci si sottomette. Esse ci sono, sono più forti, possono tornare, la morte ha il potere di tornare e irrompere fra i viventi. Tutto ciò va regolato, per così dire, affinché il mondo dei viventi non ne risulti travolto; insomma, la regola che dispone i rapporti tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi va scoperta, riconosciuta, accettata, celebrata. I viventi non sono certamente essi a tenere a bada i morti, a spingerli lontano, a regolarne la presenza: ciò dipende dall’invocazione di una legge più alta che governa tutti e due i livelli.

Medusa, come il sole, è ambigua e polarizzata, bellissima e mortifera. Le tremende sorelle Gorgoni hanno mani di bronzo e di oro, squame di drago, zanne di cinghiale, chiome serpentine. Abitano lontano, vicino alla terra del tramonto e della notte, e Perseo può raggiungerle solo oltrepassando l’oceano che infatti circonda il sole.

Della testa invincibile di Medusa si approprierà Athena e la stessa primordiale Artemis, signora delle fiere, potnia therôn, ha talora la testa della Gorgone. La potenza dello sguardo insieme creativo e distruttivo dimostra una funzione di valore cosmico che ben appartiene alla grande dea che genera e domina i viventi.

La doppia valenza, oscura e luminosa, di Medusa è segnata dalla congiunzione con Poseidon: essa partorisce attraverso il collo mozzato Pegaso, il cavallo alato: e il cavallo è un animale tipicamente infero e mediatico.

Perseo riesce a tagliarle la testa guardandola solo indirettamente attraverso una superficie riflettente offertagli dalla divinità dell’intelligenza e della prudenza. Questo mito illustra ancora di più il carattere originario e principiale della Gorgone: il principio non si può guardare direttamente perché non è oggettivabile, e perché ad esso si può risalire soltanto attraverso le sue proiezioni. Lo stesso accade per il centro del labirinto, altro importante simbolo solare, il quale non può essere raggiunto direttamente, bensì soltanto attraverso le volute serpentine1. che da lui irradiano. Anche in tal caso, quella Ariadna che conduce l’eroe e gli offre lo strumento per arrivare al principio di ogni discesa nella manifestazione è una delle figure della Grande Dea.

La situazione dell’eroe solare che nello specchio può guardare alla maschera abbagliante è la stessa dell’iniziato ai misteri dionisiaci che compare sugli affreschi della famosa villa pompeiana: lì il mystes rinasce a nuova vita e compie un salto di esistenza allorché nel catino vede riflesso il potente dio signore del divenire che incombe alle sue spalle.

Nella complessa stratificazione della figura della Gorgone si ripercuote un simbolo riconosciuto in molte tradizioni. Per Leo Frobenius, la Gorgone Medusa è il risultato delle metamorfosi del simbolo solare del leone in posizione frontale sotto l’influsso dei motivi dell’uccello e dell’uomo a forma di swastika (la «corsa in ginocchio» del sole, tipico simbolo « polare», che ridà il movimento dell’aprirsi del cosmo da un centro che simultaneamente lo trattiene). L’immgine del leone in posizione frontale è documentata nell’Europa occidentale e nell’Africa nordorientale fin dal Paleolitico superiore (Frobenius 1933, tr. it. Storia delle civiltà africane, Torino 1991, p. 140): travestito da sorcier campeggia nella grotta-santuario di Trois Frères in Dordogna sulla serie di animali coperti di spiculi e cioè consacrati alla morte.

Tradizioni di popoli dediti alla caccia hanno individuato nel leone una inquietante ierofania. L’ora del leone è segnata dal silenzio degli altri animali che si ritirano; egli è il più maestoso degli spietati felini, il grande predatore capace di vedere nelle tenebre e di prevalere con la forza dei suoi occhi sugli altri viventi. La assimilazione della sua faccia a quella del sole traduce il senso cosmico della potenza del suo sguardo. Si tratta di un modo esemplare con il quale il pensiero arcaico comprende le più intense manifestazioni della natura; lo stesso modo fa da base all’elaborazione del valore della maschera, nella quale il primitivo a volta a volta raccoglie e interpreta proprio le potenze da cui si sente circondato e diretto. In tal senso, lo sguardo del leone finisce per rappresentare simbolicamente lo sguardo per eccellenza, la forza di penetrazione di una luce in cui si esprime una potenza che governa i viventi senza subirne la vicenda. Un fuoco che non si spegne mentre si immerge nella notte, quale quello di cui diceva Eraclito: «Di fronte a ciò che mai tramonta chi potrebbe nascondersi?» (fr. 16).

Ciò di cui bisogna essere consapevoli, tuttavia, è che la simbologia solare rientra in una drammatica dialettica di chiaro e oscuro. Riassume così Károly Kerényi: «Il sole nel ciclo dell’antica mitologia solare deve essere fatto a pezzi, dalla figlia, dalla sposa, dalla sorella, affinché possa rinascere». Una figlia del sole, Medea, potente incantatrice, uccide ovvero occulta i propri figli per renderli immortali, rende immortale nascondendo; ed in un’altra figlia, Circe, si riconosce la italica lupa aggirante, seduttrice e divoratrice, tessitrice del mondo con il filo d’oro della luce.

Nell’universo greco arcaico, il sole è circondato e chiuso da Oceano, sfondo della tenebra indistinta (à peiron) onniavvolgente genitrice di tutti gli esseri. Ancora L. Frobenius riporta (op. cit., tr. it., p. 236) la figura di un disco di legno intagliato che i Somali della costa collocano nel centro della capanna, «nel mezzo è ancora chiarissima l’immagine del sole; intorno, per due volte, la treccia dell’oceano; nella corona esterna, la quadripartizione secondo i punti cardinali».

Le vicende del Minotauro e di Osiride, tipiche divinità solari, propongono la dialettica indissolubile di giorno e notte, nel quadro di una intensa riflessione sulla morte e la rinascita o resurrezione. Questi nessi sono al centro della religione solare sia egizia sia cretese, e sembrano essere richiamati nelle maschere d’oro mortuarie dei re micenei (tra l’altro, il fondatore leggendario di Micene si tramanda che sia l’arcaico eroe solare Perseo) nonché dai ritratti sui sarcofagi egizi, ritratti che non hanno nessun intento verista e si riferiscono piuttosto al risorto trasfigurato vivente in eterno. Tali maschere e tali sarcofagi sembrano pertanto basati sulla simbologia del rapporto tra volto regale e faccia del sole.

In conclusione, si può dire che nella maschera della Gorgone si esprime la potenza divina nella sua inafferrabile e accecante natura di coincidentia oppositorum. La congiunzione del motivo del serpente e dell’aquila fa della Gorgone un simbolo della totalità che misteriosamente raduna non manifesto e manifesto, inesplorato ed esplorato; di quella totalità che in lei si presenta nel volto inavvicinabile e travolgente2.

3. La maschera e l’invisibile

Ciò che si mostra richiama un aliud che gli sta dietro. Per questo motivo il sembiante ha sempre la natura del simbolo. Esso trascina con sé la potenza dell’invisibile al quale è indissolubilmente connesso e che gli è presupposto. Il sembiante non è superficie vuota senza profondità, bensì sigillo di un potente contenuto; dietro la visibilità della luce, senza soluzione di continuità c’è il sole; e la presenza del sembiante comporta la presenza di una potenza reale.

Indiani nativi americani (1825-1875) - Maschera sciamanica di Tinglit
Indiani nativi americani (1825-1875) – Maschera sciamanica di Tinglit

Alla figura corrisponde un archetipo; non c’è soluzione di continuità fra visibile e reale, tra apparire ed essere: eppure l’apparire entra ed esce, rispetto all’orizzonte della nostra portata, lasciandoci indovinare che esso va e viene da un mondo realissimo anche se a noi invisibile.

Una realtà durevole e potente soggiorna in una dimensione a noi familiare e interagisce con noi; essa tuttavia non vi si trattiene: è entrata e si è avvicinata a un certo punto, ad un altro punto ne uscirà. Lo stare con noi, rendendosi visibile e facendosi percepire, rappresenta soltanto un episodio di una vicenda più ampia.

Però tutto ciò che si mostra proviene da una riserva di vita e di potenza e ne porta con sé un grande carico di ricchezza. Il volto archetipico della maschera trattiene sovrumani centri di forza tanto che colui il quale riesce a catturare il visibile accede al possesso dell’invisibile.

Lo stesso volto umano comporta una dimensione sovrumana. Cosa si manifesta effettivamente nella luce del vero volto dell’uomo? Più un volto è un vero volto, un volto autentico, e più esso esprime le potenze dell’origine che danno avvio alla manifestazione3.

Del resto l’intero corpo può fungere da maschera e trattenere una straordinaria mistica potenza. L’espressione del volto, nella quale si manifesta un ethos, può dunque aprire un mondo, una cultura, un destino; così come il gesto dell’intero corpo, sia esso immobile e ieratico sia esso danzante e signore del movimento, può ridare la statua vivente del dio. Inoltre, per mascherare un volto, sono sufficienti pochi tratti di colore e piccoli cambiamenti materiali, il che conferma che la trasformazione essenziale riguarda la sua espressione.

La natura della maschera è di essere doppia. La doppiezza è tanto un suo carattere fondamentale che senza di essa la maschera è inspiegabile. In primo luogo, si tratta della doppia polarità dei suoi versanti: essa si affaccia verso l’esterno e verso l’interno, verso il mondo degli uomini e verso quello degli dei, verso il mutevole e verso il duraturo, verso il grossolano e verso il sottile, verso il visibile e verso l’invisibile.

Ma alla natura della maschera, nel suo fondo, oltre alla doppiezza, appartiene anche di tenere uniti i due versanti e la doppia polarità.

Naturalmente, questa sua ambivalenza nelle due direzioni risponde alla convinzione che le due metà dell’universo, ancorché correlate, abbiano bisogno di essere mediate. Insomma, la maschera ha senso soltanto a condizione che l’ “esterno” e l’ “interno” corrano il rischio di non corrispondersi; che tra il visibile e l’invisibile sussista un varco e un passaggio, ma altresì sussista il rischio di non trovarlo e che comunque esso non sia garantito come una ovvia certezza.

Senza questo rischio la maschera non avrebbe senso. La maschera contiene una potenza formidabile proprio a condizione che l’universo si presenti con una pericolosa tendenza alla divaricazione fra le sue parti. In tale universo, l’uomo ha bisogno di mascherarsi e di truccarsi da animale, perché ha perdutol’animale. In esso, l’uomo deve trasformarsi, perché non ha più la forma vera e reale4.

Ecco che la mimesis acquista statuto di sacramento, di azione sacra capace di conferire realtà a colui che l’ha perduta e di fargli ritrovare l’unità che si è infranta.

La maschera affronta simbolicamente un grande problema metafisico. Essa insegna che si può “essere simili”, vale a dire che si può puntare sulle tendenze verso l’unità e invertire quelle verso la dispersione.

Imitare, assomigliare, cogliere il simile si pongono come azioni ricche di sacralità in quanto comportano di invertire la tendenza alla frammentazione e all’irrigidimento e di tornare alla vivente unità del reale scoprendo via via la strada dell’identità e della convergenza fra le cose.

In questa visione, le apparenze non sono vuote ombre abbandonate a se stesse, ma conservano un rapporto misterioso con il centro da cui irradiano e che si manifesta in loro. Quando l’apparire viene finalmente inteso e decifrato come un “essere simile a”, come un richiamo, improvvisamente lo si vede e riconosce come un ponte gettato verso il centro e il mondo dei principi. Anche se l’apparire fosse un rovesciamento ed un mistero, in esso scenderebbe pur sempre una corrente che a certe condizioni si potrebbe anche risalire.

4. Maschera e persona

Nel tema della maschera confluiscono in modo esemplare i vari aspetti del tema della unità e della pluralità della persona.

Dicendo “persona” non si vuole trattare qui, naturalmente, della sua idea moderna, formulazione recente e circoscritta al pensiero europeo degli ultimi due secoli. Del resto, già lo stesso Dasein di Heidegger non vi corrisponde più e, in un certo senso, rappresenta un ritorno indietro ad un principio antimoderno.

L’identità di soggetto individuale e di persona si chiarisce come una versione recente anche in un senso più generale, perché risulta connessa con la formazione dei grandi monoteismi, e con la elaborazione giudaica dell’idea di un unico dio-persona. La stessa teoria dell’anima immortale in Platone rispondeva ad un’altra esigenza, anche se finì utilizzata nel quadro monoteistico cristiano-islamico. Anzi, tale teoria affermava proprio che l’anima è indipendente dal soggetto individuale e che il loro rapporto è soltanto provvisorio.

Nella visione anteriore ai moderni monoteismi, la persona precede l’individuo e mantiene nei suoi riguardi una certa indipendenza: si può affermare che l’individuo ha la facoltà di richiamare e comprendere una o più persone, ma a patto di intendere che sono esse a farlo diventare un soggetto reale.

211 a.C. circa - Raffigurazione di Giano bifronte su moneta
211 a.C. circa – Raffigurazione di Giano bifronte su moneta

Questa idea di base sta inscritta nel simbolismo della maschera: l’individuo può realizzare più persone, purché si faccia assumere da loro per realizzare un destino più alto. Il mondo delle persone precede, sovrasta e domina l’individuo, di modo che l’individuo non ha altra strada da percorrere che quella di acquisire una persona per divenire reale.

Si tratta di una teoria che comporta un quadro tendenzialmente già dualistico, nel quale il problema dell’origine dell’uomo, ovvero dell’uomo delle origini, ovvero del rapporto dell’uomo con l’origine, acquista un rilievo prevalente. Come abbiamo visto a proposito del senso della mimesis nella maschera, la forza del significato sacro della maschera si intreccia con lo sfondo di una problematica di tipo dualistico e drammatico.

L’etimologia che fa risalire il termine latino “persona” all’amplificazione del suono della voce dell’attore prodotto dalla maschera teatrale è ingegnosamente fantastica e va ricondotta ai giochi interpretativi e simbolici in cui gli intellettuali antichi erano assai versati (se ne veda uno dei massimi esempi nel Cratilo di Platone. E ai tempi nostri, in alcune delle sconvolgenti traduzioni di Heidegger). La radice della parola latina è invece da riportare quasi sicuramente a una voce etrusca che designava un demone (phersu), probabilmente uno di quelli che incarnava il “doppio”, la potenza invisibile complementare.

Il fatto che la civiltà etrusca contempli una numerosa popolazione di maschere e demoni è ben noto, ma anche i Romani hanno un grande dio della maschera, anzi della doppia5. maschera: Giano, dio delle “porte”, sia della casa sia della città.

Egli è il giovane-vecchio, colui che apre e chiude le porte del ciclo dell’anno, il dio bifronte del passato e del futuro, il signore delle due vie o delle due direzioni, ma anche l’esoterico signore del triplice tempo.

Eppure come spiega René Guénon, il suo vero volto è il terzo, invisibile e inafferrabile, il volto che raccoglie sotto il suo sguardo tutto il tempo nella simultaneità dell’istante eterno. Questo volto, vero ed occulto, è quello per il quale il mondo dello scorrimento temporale viene distrutto e trasformato nell’eterno. Non si tratta però di una vera distruzione, bensì della rivelazione e dello scoprimento della sua realtà profonda: il tempo, cioè il mondo delle apparenze, svela di avere una radice eterna; il tutto veramente tale non consiste nel continuo rinnovamento del ciclo bensì nell’eterno presente e nell’istante atemporale della simultaneità integrale.

Giano, janua, sta dunque per la porta dell’eternità. La doppia maschera introduce e inizia6 al mistero dell’apparire. Del resto, l’istante è inafferrabile e, in un certo senso, in contraddizione con questo mondo, come un autentico átopon (Platone, Parmenide 156d). La facoltà di questo dio che può guardare nei due sensi equivale alla facoltà di guardare l’immutabile.

Egli presiede le corporazioni dei mestieri che, in tutte le civiltà tradizionali, sono depositarie di segreti iniziatici e di chiavi riservate. La chiave d’argento e la chiave d’oro, strette nelle sue mani, sono rispettivamente riferite ai piccoli e ai grandi misteri, dei quali i primi fanno accedere al paradiso terrestre e i secondi a quello celeste.

Come si vede nello studio di R. Guénon, nella struttura di questo grande dio del Volto ricorrono gli elementi fondamentali della densità simbolica della maschera in tutte le tradizioni.

L’occhio che vede tutto è il terzo occhio; mentre quello sinistro (la luna) vede il passato e quello destro (il sole) vede il futuro, esso è l’occhio frontale di Shiva e soprattutto, l’eterno –  aiôn – in cui tutte le potenzialità sono contenute e raccolte.

Nell’ebraico e nell’arabo non c’è una voce verbale per designare il tempo presente. Il tempo presente compete solo a Dio, perché esso indica “potere”: «Io sono» lo può dire solo chi può effettivamente essere; l’uomo può dire «io ero» o questo o quello oppure «io sarò», ma non «io sono».

5. Arcaicità della maschera

La maschera può venir costruita solo da chi conosce l’arte di cogliere l’essenziale e solo un’arte e una mente arcaica possono risalire all’essenziale e definirla. Per cogliere la maschera occorre una penetrante capacità di sintesi, perché bisogna riuscire a captare ciò che non muta e permane sotto ogni trasformazione.

Qual è il vero volto, quello giovane o quello carico di anni? Ce ne è uno nel quale gli innumeri volti di una lunga vita possono riassorbirsi e ricapitolarsi7? Qual è il volto della resurrezione e dell’immortalità ? L’artista arcaico della maschera pensa metafisicamente che ogni volto è per sempre, purché sia – naturalmente – un volto vero ed esprima un daimon.

Se quel volto ha catturato il daimon, esso ha trasceso l’effimero ed è diventato perdurante memoria. Se il volto eterno è quello dell’estasi, la maschera è il volto estatico.

La maschera deve riuscire a trattenere ciò che tende a disperdersi e a sfuggire. Essa deve garantire dalla continua dispersione nel molteplice temporale della manifestazione e consentire di attraversare indenni la varietà dell’apparire che periodicamente si consuma.

La maschera stringe, fissa, protegge: portando in primo piano l’essenza, respinge in basso i lati deboli della soggettività, quelli dispersivi e caduchi.

Il volto che si definisce impenetrabile e impassibile come una maschera è sia quello marziale di chi domina i sentimenti, sia quello sacerdotale di chi se ne è staccato. Ma anche quando la maschera rappresenta in modo enfatico le forze negative e distruttive, di queste essa incarna soltanto la dimensione permanente.

In ogni caso, la maschera rappresenta il volto di chi è diventato altro da quello che era, conquistando grazie ad essa un sé essenziale. Per questo motivo, la maschera vuol essere il volto capace sia di esprimere sia di conservare l’invisibile, in altri termini, il volto simbolico che resiste alla frammentazione e alla dispersione.

Una forma acuta e dolorosa della dispersione è quella della morte e la maschera ne affronta il problema cercando di trattenere quella fra le anime che viene ritenuta errante. Essa interviene per impedire che il soffio vitale o “doppio”8. abbandoni bruscamente il corpo. Per l’uomo arcaico, non si muore mai all’improvviso, ovvero non si muore in un solo momento definito, perché la morte è un processo di congedi, soste e ritorni per gradi successivi. Pertanto, la maschera si può mettere sul viso del defunto per trattenervi il “doppio” e regolarne l’uscita.

Dei dell’origine e dei della morte abitano nello stesso mondo, dal quale – facendo indossare la loro maschera a un sostituto degno – possono essere via via richiamati; l’attore mascherato evoca lo spirito e la potenza vitale del trapassato che nella sua nuova – anzi, nella sua vera ed antica – veste garantisce la continuità e la partecipazione con la sede della vita.

La prima maschera di cui abbiamo notizia è forse quella di uno sciamano mascherato da cervo che danza in mezzo a un branco, raffigurato nella parete della grotta di Trois Frères (Frobenius, op. cit., pp. 104-106)9.

Maschere di animali e di volti umani con animali sono peraltro ben noti presso i popoli a prevalente cultura di caccia. Queste maschere appaiono, evidentemente, a condizione che la potenza e gli dei della potenza siano gli animali: anima – animale10.

L’animale è ritenuto trovarsi in uno speciale rapporto diretto con la vita. Esso porta con sé la vita direttamente e senza cicli di mediazione temporali come, ad esempio, una pianta alimentare. Il dramma della caccia sembra pertanto inserire in una speciale solidarietà con le forze vitali. Del resto, quello della caccia non è soltanto un espediente per procurarsi il nutrimento ma piuttosto un mestiere iniziatico che richiama un quadro metafisico in cui il cacciatore si identifica con l’animale.

Nella metafora arcaica colui che sembra l’animale è l’animale, di modo che la cattura del sembiante garantisce l’accesso all’essenza. Così, quando gli dei si presentano sotto le specie di animali, è da animali che ci si maschera e sono gli animali ad essere imitati11.

6. Riconoscere la maschera

Per indossare la maschera si impone che l’uomo sappia affrontare la prova di porsi come mediatore tra il visibile e l’invisibile. A tal fine, è necessario passare sostanzialmente attraverso due gradi.

Dato che la maschera è un daimon, bisogna criticare il mascheramento moderno e rovesciarlo. Il primo passaggio consiste, perciò, nello smascheramento. In questa prima fase, deve entrare in crisi la rigidità estrinseca, ovvero la rigidità dell’estrinseco, diventa necessario imparare a vedere e ad essere visti; bisogna imparare a farsi e vedere e riconoscere.

Si tratta di un percorso arduo e rischioso, che comporta il superamento di una prova angosciosa, quale è quella del raggiungimento della capacità di accettare la crisi delle proprie apparenze attuali.

Un mito che racconta e illustra questo passaggio è imperniato sulla figura del Socrate platonico. Nel Simposio e nel Fedone, Socrate rappresenta una maschera che dischiude la visione di una realtà più densa di significato oltre le apparenze. Egli fa questo attraverso l’ironia e l’eros. Egli viene paragonato al Sileno che ci mostra nel distacco ironico una dimensione più vera oltre il visibile; ed insieme figura come colui che, attraverso l’eros per il visibile stesso, trova la strada per quella dimensione trascendente.

Il secondo passaggio consiste nella scoperta del proprio daimon. Bisogna imparare a riconoscerlo e, una volta riconosciutolo, essere preparati ad evocarlo e ad assumerlo come proprio centro di forza. Il daimon sta a guardia della porta stretta per l’aldilà ed è necessario saperlo affrontare per ridurlo ad alleato.

Solo allora la maschera, da estrinseca rigidità nichilista, potrà tornare ad essere simbolo di una capacità mediatrice di vita. Essa cesserà di convogliare la presenza di un dio maligno, signore di una creazione negativa antagonista, di nani, mostri e larve; e rappresenterà il gesto riproduttore dell’armonia e della bellezza. Sarà un simbolo usato al positivo, in un gioco creativo e in una danza fondatrice.

Odisseo e le sirene - Rappresentazione su ceramica (475 a.C.)
Odisseo e le sirene – Rappresentazione su ceramica (475 a.C.)

Un alto centro di forza direttivo e ispiratore potrà manifestarsi ed esprimersi nel modo con il quale l’uomo costruirà ed orienterà la sua vita. Il senso generale della vita sarà dovuto alla presenza di un essere che appartiene al mondo degli dei; la continuità e l’unità sensata della vita degli uomini saranno segno della presenza di un daimon.

Già da prima l’uomo non è estraneo al mondo popolato da dei e demoni: così uno di essi abita in lui e in lui si fa tradizione e destino concreti. êthos anthrôpô daimôn, dice Eraclito (fr. 119).

Vuol dire tutto ciò che l’uomo sia una marionetta degli dei? L’uomo non può scegliere il proprio daimon perché lo stesso scegliere e lo stesso decidere si determinano in una situazione culturale e all’interno di un modo di vita che, dal canto loro, sono sorti per la presenza e l’influsso del daimon. In verità il destino dell’uomo è di essere maschera di un dio, quale che sia la maschera e quale che sia il destino.

Dunque, l’uomo non può essere padrone di sé, almeno non in senso antropocentrico. Quello che viene riconosciuto e adottato come il proprio destino preesisteva, quale precondizione della scelta, nel mondo invisibile delle potenzialità. C’è un mito a conclusione della Repubblica di Platone12. nel quale le anime scelgono via via secondo un turno tutte le vite che da sempre sono disponibili, e le prime non scelgono necessariamente le migliori per il fatto di essere le prime.

Il daimon che aiuta a decidere coincide alla fin fine con il destino stesso, il quale riporta nolenti o volenti, in un mondo che c’era da sempre. Si tratta di un daimon che riporta gli uomini nella loro tradizione, quella che da sempre era nel loro orizzonte e che da sempre li aspettava.

êthos anthrôpô daimôn: incarnarsi in una tradizione concreta è il destino dell’uomo.

7.  Odisseo

Ormai giunto alla spiaggia di Itaca, quando deve prepararsi ad affrontare la rischiosa prova del combattimento finale, Odisseo deve farsi straniero e spogliarsi di quanto gli è fino ad allora appartenuto13. Affinché sia reintegrato in casa sua e possa riacquistare i suoi beni e la sua sposa e, in breve, affinché rivesta il destino che gli appartiene, Odisseo deve deporre la sua figura consueta. Da guerriero terribile e da kshatriya, re splendido e forte, a quel punto egli diviene un mendicante debole e vecchio, la larva e il contrario di se stesso.

La sua maschera abituale, il suo ethos, deve essere cambiata e un’altra deve indossarne, come se egli debba superare la prova di riuscire ad essere davvero quel “nessuno” con cui si nomina.

Del resto, il destino di ogni uomo sta già racchiuso proprio nel suo nome secondo le tradizioni arcaiche.

Inoltre, il tornare povero contiene un significato ancora più primitivo perché equivale alla riconquista di una condizione originaria e vivere di elemosina equivale a vivere di ciò che la natura spontaneamente fornisce in uno stato primordiale. La regressione alla povertà costituisce un tipico passaggio necessario alla preparazione di una nuova nascita, quasi una morte rituale dalla quale potrà rinascere l’uomo vero realizzato e integrale. La prova di Odisseo non si riduce a una banale gara, ma assume il valore di una situazione archetipica ineluttabile: la lotta contro il male per diventare se stessi.

Dietro il suo mascheramento, che in ultima analisi consiste nella perdita del mascheramento e della condizione abituali, c’è la potenza di un dio. Quando la sua figura attuale sarà stata accantonata, gli resterà comunque il dono della divinità che lo sostiene e gli promette la realizzazione definitiva e integrale, come una natura originale che non gli si può togliere. Succede allora che

«…con una verga lo toccò Atena;
e gli avvizzì la bella pelle sulle agili membra,
i biondi capelli fece sparire dal capo, una pelle
da vecchio antico gli fece attorno alle membra,
rese cisposi gli occhi prima bellissimi;
e un lucido cencio gli buttò addosso e una tunica
stracciati, sporchi, neri d’orrido fumo;
sopra gli vestì una gran pelle di rapida cerva,
spelata
…»

(Od. XIII, vv. 429-437, trad. R. Calzecchi Onesti).

Questa umiliante trasformazione equivale a una morte rituale, indispensabile per la bellezza e la vittoria. In primo luogo, Odisseo deve rendersi irriconoscibile dalle forze malefiche: quando avrà già trafitto la gola di Antinoo, i suoi nemici ancora non si renderanno conto di chi veramente egli sia e crederanno solo che abbia sbagliato la mira come si conviene ad un mendicante.

Ma nella saga omerica riusciamo a vedere anche un altro messaggio, ben più importante. Il travestimento di Odisseo non dipende da qualcosa di estrinseco e di indipendente, non consiste in un oggetto fisso e rigido che egli sovrapponga a se stesso; al contrario, esso si compenetra nella persona e nella mente dell’eroe e per questo può divenire uno strumento di accrescimento e di conquista di un livello più alto. La forza di quel travestimento (del resto Odisseo è l’eroe dei travestimenti) sta nel fatto che esso fa tutt’uno con una dote naturale, quale l’astuzia e l’intelligenza. In questo caso l’intelligenza si presenta non solo come capacità di riconoscere e penetrare gli altri, ma anche come capacità di impedire che gli altri lo riconoscano e penetrino. Per il cacciatore arcaico in ciò risiede la vera intelligenza, simile a quella delle fiere che insegue, e che ad esse rende simili e fa partecipare della loro forza divina; «…come leone che torna dall’aver divorato un bue selvatico» (Od. XXII, 402).

Anche qui, e in modo particolarmente esaltante, il travestimento realizza la presenza di un dio. La natura profonda del travestimento e della trasformazione che protegge e prepara Odisseo risiede nell’intelligenza e nell’astuzia, e in queste qualità non c’è niente di materialistico e di volgare, al contrario in esse splende il favore e la potenza magica di una divinità che rende simili a una forza invincibile della natura.

L’inclinazione alla dissimulazione e al mascheramento di Odisseo rivela, comunque, una struttura polimorfa ed infera incacellabile nel fondo di questo eroe. D’altro canto, tutto ciò si deve intravvedere già nel suo stesso nome, dato il rapporto che il pensiero arcaico instaura tra nomen e imago: il senza nome è un senza figura; nessun nome, nessuna figura.

All’ “inizio” egli è quasi un fantasma. Conseguentemente, Odisseo viene attratto dall’immortalità offertagli da dee meravigliosamente e permanentemente giovani e soggiorna a lungo presso di loro. Ma il suo vero destino lo porta a rivolgersi con nostalgia a colei che tesse di giorno e disfa di notte14.

Odisseo è sospinto a non rinunciare alla condizione di partenza che ne fa un “nessuno” ed un fantasma; però questa dimensione umbratile gli conferisce spessore e plasticità. Il fondo oscuro e mortale che gli appartiene intrinsecamente rende la sua vita più ricca e complessa della indifferenziata e informe giovinezza eterna offerta da Calypso.

Egli ritroverà la realizzazione integrale del proprio ethos con Penelope al termine dei viaggi, di quelli reali e di quelli narrati (gli effettivi e i raccontati si sono sempre intrecciati e sovrapposti in un’unica esperienza estatica). Solamente con Penelope vita vissuta e vita raccontata svelano di aver sempre avuto lo stesso centro, come una trama e un ordito compongono lo stesso tessuto.

Non è sostenibile che Odisseo cerchi la morte diversamente da quello che vuole Gilgamesh, perché la sua figura richiama e reinterpreta direttamente quest’eroe. Anche il greco come il sumero ricerca l’immortalità : e sarà colei che tesse a conferirgliela. Un’immortalità diversa da quella offerta dalle varie Circe, Sirene, Calypso, dietro le quali egli riconosce il profilarsi di altrettanti gradi dello stesso itinerario iniziatico e che ad una ad una decifra come prove da superare. In definitiva, le decifra ognuna come una diversa modalità dell’aggressione della folla dei morti, di quell’inafferrabile pericolo cioè dietro il quale – allorché si affaccia sulla soglia degli inferi – si camuffa il volto della Signora dell’altro mondo che impietrisce.

L’avvicinamento alla vera vita l’eroe Odisseo lo guadagna nelle due ultime tappe del nostos, nascendo ignudo “prima” con Nausicaa («tu mi hai salvato», «ricordati di me, perché a me per prima devi la vita»), ed “infine” con la grande tessitrice.

In un lungo viaggio iniziatico, che appare come una ampia nekyia a più tappe e gradi, che prende le mosse dalla discesa verso la oltremondana cittadella di Troia, l’eroe combatte così contro tutti i demoni che lo vogliono trattenere, per riuscire a raggiungere il suo autentico daimon.

Giuseppe Lampis

 


NOTE:

1) Il serpente designa simbolicamente non solo l’oceano, ma anche il corso del sole.

2) Richiamiamo qui una annotazione, degna di approfondimenti ulteriori, a proposito di Dionysos, per il quale è ben nota e documentata la identificazione proprio con il Minotauro, assai spesso raffigurato nella sopracitata posizione della corsa con il ginocchio levato (Copa dell’ Acropoli, di Epitteto, V sec., Atene). Una precisa traccia di questi nessi simbolici risuona nettamente nell’Antigone di Sofocle, laddove in quello che è uno splendido inno al dio ricorre «O tu che guidi il coro degli astri» (v. 1147: chorag’ astrôn).

3) C’è una metafisica del volto da cui prende avvio il paradigma dell’icona. Peraltro si tratta della stessa intuizione che sta alla base della speculazione sull’ “Imm”, o volto di Dio, della gnosi islamica.

4) Gli individui animali sono particolarmente simili gli uni agli altri e ripetono spontaneamente il modello identico; essi sono il modello vivente.

5) La maschera bifronte è un topos fortemente arcaico, il quale sviluppa ed esplicita la natura ambivalente della stessa maschera con un volto solo.Un esempio di testa africana bifronte davvero impressionante proviene dagli Ekoi della regione del fiume Cross, nell’interno della Guinea, (cfr. Frank Willett, African Art, London 1971, tr. it., Torino 1978, p. 63).

6) Il radicale *i sta alla base dello stesso nome di Janus.

7) Una qualche eco di questa esigenza filtra persino in certe fotografie “arcaiche” delle nostre campagne di quando ancora non erano state raggiunte dalla modernizzazione. Quei ritratti si facevano una volta nella vita, in prossimità di occasioni uniche e culminanti (spesso quelle che i tedeschi chiamano Hochzeit).

8) Il cosiddetto “soffio delle ossa”, secondo la tradizione cinese, ma anche ebraica. Gli è analogo il Ka egizio e il “corpo sottile” indù. Ritorna altresì nell’anima vagante di sogno siberiana e africana, sorta di alter ego depositario della vita, mobile e volante.

9) Ma anche M. Eliade, Histoire des croyances et des idées religieuses, vol. I, Paris 1975, tr. it.,  Storia delle credenze e delle idee religiose, Firenze 1979, p. 29.

10) Affinché il rapporto con le potenze animali, il loro accoglimento e l’attivazione delle forze latenti che vi corrispondono possano segnare l’uscita dai limiti della condizione umana, occorre che si esercitino sotto la garanzia di una cultura di superiore spiritualità.
La trasmutazione, ricercata dalle società segrete tradizionali di maschere, presuppone una durissima ascesi, senza la quale non si perviene al dominio della ritualità necessaria per mediare le spinte alla disintegrazione della personalità dovute all’aggressività del dio-animale antenato.
Nell’ultimo paragrafo si vedrà come, a proposito di Odisseo, il contatto con forze non-umane, costituendo una minaccia devastante, possa essere sostenuto e trasvalutato solo per il contrappeso della presenza soccorrevole di una grande divinità dell’intelligenza e del sapere.

11) Nella stessa grecità ricorre frequentemente l’associazione di dei e animali.
Uno spunto di grande interesse può essere tratto dalla tesi di Hegel sul profilo greco (cfr. Hegel Vorlesungen über die Aesthetik, tr. it., Estetica, Milano 1967, p. 814), la cui struttura simbolica consisterebbe nella subordinazione del naso e della bocca, organi tipici della bestia, ma pur presenti nell’uomo, alla fronte e agli occhi, sedi di funzioni nobili ed alte.

12) Il mito di Er, in Platone, Rep., X, 614A-621D.

13) Vedi l’interpretazione di Porfirio, allievo di Plotino, in De antro nympharum, ripresa anche da Titus Burckhardt, Il ritorno di Ulisse, in La maschera sacra e altri saggi, tr. it., Milano 1988, pp. 43 e ss.

14) Già K. Kerényi (Töchter der Sonne, Zürich 1944, tr. it., Figlie del Sole, Torino 1949, p. 73) aveva colto in Pênelopeia il convergere della simbologia della grande tessitrice e della figura dell’anatra selvatica che si affaccia nel suo nome – pênelops è la querquedula, la marzaiola delle nostre campagne –, cosicché in lei risulterebbe un’eco di una preomerica «grande dea dell’origine della vita e della morte».
In effetti, molteplici elementi avvisano della presenza in Penelope della natura di una autentica signora della my, vero centro riposto di ogni possibile viaggio di riavvicinamento.
Fra gli altri, richiamiamo l’attenzione sulla strana genealogia che la vuole madre, per un amore adulterino con Hermes, del grande Pan. In quella occasione il dio alato, per unirsi con lei avrebbe assunto la forma solare dell’ariete, cosicché i due corpi configurerebbero le parti complementari di una coppia cosmogonica, trattenendo in loro stessi peraltro l’ambivalenza chiara ed oscura del sole. La grande mobilità del complemento maschile di Penelope propone inoltre una sorta di controprova ulteriore della intercambiabilità tra Odisseo ed Hermes.
La connessione simbolica con i valori solari sussiste anche attraverso il nome di anatra di questa “dea dell’origine”. La pênelops, una sorta di anitra selvatica, tipico uccello di passo che si presenta con il rinnovarsi della primavera, è la “marzaiola” simbolicamente associata al percorso del sole, come del resto accade ad altri migratori eccellenti.
Nel suo viaggio post-mortem il Faraone-Sole si trasforma tra l’altro anche in oca selvaggia (cfr. M. Eliade, op. cit., p. 140).
Ma il valore solare di talune specie avicole sembrerebbe altresì trovarsi impresso come un prestigioso sigillo nella conformazione della loro zampa, la quale stampa una particolare orma tripartita, accolta ad esempio presso i Bambara quale segno delle posizioni del sole nel movimento attorno alla terra (il «crocicchio a zampa di gallo», cfr. D. Zahan, La religione dell’Africa Nera, in H. Ch. Puech (a c. di), Histoire des Religions, Paris 1970, tr. it.,  Storia delle religioni, vol. 18/I, Bari 1978, p. 48.
Un’erudita rassegna dei significati assunti dall’orma della gruiforme otarda, specie non migratrice, in varie dottrine tradizionali, è riferita da Jean Servier (cfr. L’homme et l’invisible, Paris 1964, p. 64 ss., tr. it., L’uomo e l’invisibile, Torino 1967), il quale la riconosce ripetuta come un archetipo geometrico guenoniano, dal vajra di Shiva alla maschera kanaga dei Dogon.


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