Il cristianesimo e la morte

Indichiamo alcuni paragrafi di riflessione sul tema del cristianesimo
tratti dal saggio Estremadura di Giuseppe Lampis

Giuseppe Lampis

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Come la stella che noi percepiamo ora in una luce pervenuta da lontano che è viva qui ma è già finita laggiù nell’origine, essendosi l’origine svuotata nell’effetto, così le cose che vivono e si modificano si sono propagate allo stesso modo in onde che si allontanano; e tutto vive altrove, perché essere in un modo vuole dire essere innanzitutto e che l’essere è essere sempre, in una continua propagazione, sempre verso la possibilità di essere accolti là dove andremo, entrando nell’orizzonte di altri che a loro volta si saranno mossi e allontanati.

 

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Particolare dal Compianto di Niccolò dell’Arca - foto di Lorenzo Scaramella
Particolare dal Compianto di Niccolò dell’Arca – foto di Lorenzo Scaramella

Differenza tra resurrezione e immortalità. Si tratta di due teorie incompatibili: la prima riguarda la soggiacenza alla morte e l’altra la sua esclusione. Una cosa è lo sciogliersi dalla morte dopo averla subita, altra cosa il non essere suscettibili di morte in quanto partecipi di una natura che la eccede.

Le due figure del risorto e del non mortale sono collegate con le idee rispettivamente di tempo ciclico e di tempo discontinuo, di modo che la differenza che intercorre fra di loro è precisamente la stessa per la quale si distinguono i due tipi di tempo. Una cosa è un tempo che culmina e finisce (colui che ne esce concludendolo si presenta quale immortale) e altra cosa un tempo che ricomincia sempre su se stesso (chi se ne libera, dopo esservi restato dentro nascendo e morendo molte volte, si presenta quale risorto). Quando il tempo non continua e finisce, l’immortale resta intatto e eretto. Quando il tempo prosegue in circolo senza interrompersi mai, e la morte e la vita si susseguono incessanti e incatenano tutti, colui che, eroicamente, sfugge alla morte e alla rinascita nel ciclo dei mortali merita il nome di risorto.

L’idea di resurrezione appartiene a un quadro di forte valorizzazione dell’individuo materiale che si desidera sazio di anni e prolungato in una prole numerosa e infine proiettato in una durata indeterminata. E’ in tale quadro che si sviluppa una nuova intuizione dell’idea di morte, la quale perde l’aspetto di normale avvenimento oggettivo e naturale e assume il carattere di male morale contro il quale occorre battersi. La vittoria sulla morte diventa la principale questione etica. Si potrebbe addirittura sostenere che la nascita dell’autonomia dell’etica dalla metafisica dipenda dal balzare in primo piano della nuova percezione della morte.

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Se Dio si fa uomo, si incarna e si fa mortale. Allora deve anche farsi trapassare dall’inconscio, dal dolore, dalla menzogna, dalla rottura della memoria. E provare la tensione terribile della unificazione della molteplicità.

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La novità del cristianesimo sta nella sua scorciatoia escatologica, nella semplificazione cosmica. Dio è qui, subito, le intermediazioni sono finite, il rapporto si fa diretto. Invece, il culto degli antenati, il culto della lunga catena degli intermediari, appartiene alle religioni del ciclo.

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Fede nei morti e senso della loro potenza (tipici delle religioni più arcaiche) declinano con l’avvento della fede in un solo dio, quale dio di un intero collettivo o popolo (in Omero, potenzialmente già monoteista, i morti sono ombre). La fede in un dio è alternativa alla credenza nel potere dei morti e si dimostra coerentemente collegata con la fede nella vittoria sulla morte. Quando prende il sopravvento la proposta di congiungersi con Dio mediante la propria parte immortale, il destino di diventare un morto esemplare, un antenato, appare pericolosamente negativa.

Eppure con molta probabilità l’idea della resurrezione, che viene celebrata per la sua rarefatta spiritualità, appartiene a un fondo materialistico e deriva da una tarda rielaborazione dell’idea di antenato. Voglio dire che c’è un rapporto di continuità tra la figura del morto esemplare, il quale mediante riti adeguati assume un ruolo benefico nei riguardi della comunità dalla quale proviene, e la figura del risorto. Nelle dottrine arcaiche lo stato di morte viene considerato nella forma di uno stato di precarietà e disagio che deve essere abbandonato e superato, mediante l’aiuto dei riti e delle preghiere dei vivi, fino al raggiungimento di un nuovo stato, lo stato di antenato. L’antenato è un morto che, dopo avere attraversato la morte, ne è uscito in piedi, ristabilito in una condizione di sicurezza e stabilità, ricco di grande potenza.

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Non è il politeismo greco l’avversario in radice del monoteismo, infatti esso considera che nella pluralità delle forme divine circoli a ogni modo una potenza della stessa natura. L’avversario vero è rappresentato dalla credenza che ci siano molte potenze eterogenee, ognuna gelosamente legata a un luogo o a un evento diverso, estranee reciprocamente, separate e esclusive, non mediabili fra loro. In altri termini, dalla credenza negli dei del “posto”. (Questi dei del posto sono forse una rielaborazione dell’idea di antenato?)

Jahvé è uno di loro, gli studiosi lo ritengono il potente dio della tempesta che presiede a una particolare montagna.

Il monoteismo cristiano da una parte costituisce una ipertrofia del giudaismo, cioè della monolatria, dall’altra una intensificazione dell’idea greca dell’uno molti. Sicchè oscilla, ambiguo nelle sue basi, tra universalismo ecumenico ellenistico e radicalismo dei conquistadores.

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Resurrezione della carne per gli ebrei, incarnazione per i cristiani, uno stesso mito risalente alle più antiche civiltà di nomadi cacciatori ispirate al culto dell’animale selvatico.

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Quale sconvolgente esperienza porta a desiderare la resurrezione dei corpi? E di quale corpo, a quale età, con quali colori, quali rughe, quali bisogni?

Apokatastasis, rimessa in piedi, erezione, ripresa della direzione dell’alto, inversione della disposizione al basso.

Tumulare è conservare ciò che va conservato. Il corpo è il problema da risolvere. Tutta la vicenda di Dio, con la sua inserzione una volta per tutte nell’uomo, si svolge con il fine di innestarsi nell’alterità drammatica della morte.

Per quali brucianti motivi si può arrivare a dire che il “cardine della salvezza è la carne”?

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Salvezza e filosofia, salvezza e ricerca della sapienza. E perché mai la sapienza dovrebbe salvare? La risposta sta nel nesso tra nascita della tragedia e nascita dello spirito filosofico. È l’approccio filosofico al mondo che innesca lo spirito della tragedia o il contrario?

Per Nietzsche la filosofia corrompe lo spirito tragico; invece va riconosciuto che entrambi, tragedia e filosofia, si appartengono, e nascono e decadono insieme.

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Piero della Francesca, Resurrezione, 1460 ca.
Piero della Francesca, Resurrezione, 1460 ca.

Capire senza fare più psicologia. Interpretare ha il doppio senso di capire e di recitare una parte e in entrambi i sensi presuppone un centro imprescindibile, il soggetto, l’errore europeo.

Capire, invece, guarendo da questa malattia. Per entrare nella verità bisogna sganciarsi dal piccolo sé.

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Nel mito viene pensata la totalità e la continuità dell’universo. Però il racconto, essenziale per il mito, risulta già segnato da uno squilibrio rispetto all’intuizione più arcaica: esso contiene il desiderio del narratore di rifare la creazione.

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Rito e corporeità, rappresentazione di un reale potente attraverso movimenti e procedure corporee.

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L’indagine sulla struttura più intima della materia scopre la compresenza di mondi paralleli in numero inimmaginabile per l’età del pensiero classico e perfino per Leibniz. Già prima dei fisici questo scenario era stato aperto dalle nuove geometrie e dai matematici (l’infinito in atto di Cantor).

Alcuni fisici sostengono che la infinità dei mondi possibili è una infinità reale, in atto, mentre per Leibniz essi restano tutti impliciti al negativo, semplicemente possibili, dietro l’unico mondo effettivo.

Forse il contrasto è solo apparente, dato che anche per Leibniz i mondi possibili non sono un mero niente bensì il fondo che sostiene il mondo reale.

Ognuno dei predetti mondi paralleli scivolerebbe sull’altro o nell’altro senza incontrarlo, perché si realizzerebbe solo nell’ambito di una propria organica esclusiva coerenza. Le combinazioni sarebbero infinite ma sarebbero date dagli stessi elementi; così, ogni particella parteciperebbe di plurali, infiniti mondi, di molte vite, di molte metafore, di molti sensi.

Ogni mondo di volta in volta riassettato darebbe gli altri, riproposti, rielaborati. Tutto sarebbe in tutto. La antica teoria che con la morte si apra un passaggio verso un altro sistema di incontri troverebbe qui la sua spiegazione scientifica. Dopo il passaggio non si conserverebbe il ricordo del mondo precedente (e compresente con gli altri) perché la consapevolezza avrebbe senso solo all’interno di ognuno dei sistemi, volta per volta.

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Bisogna uscire dalla sindrome di Cartesio, dalla ricerca ossessiva del punto di partenza assoluto.

Per trovarlo Cartesio procedette all’azzeramento del mondo, studiando cosa rimanesse in piedi dopo la finzione della catastrofe. Con una simile procedura si illudeva di togliere via definitivamente ogni presupposto artefatto, mentre ne conservava senza avvedersene uno assai fuorviante, il soggetto pensante, vale a dire proprio l’autore delle finzioni della procedura.

Per Hegel il punto di partenza assoluto deve necessariamente essere un punto di arrivo. Non si può partire dal niente, il luogo delle origini deve comprendere già tutto, e il vero inizio, considerato nella prospettiva dello svolgimento, non può che essere già fine e compimento senza residui.

Osservare una forma nel suo cominciamento non equivale a coglierla mentre emerge dal niente. Ogni nascita deve essere necessariamente preparata nella riserva dell’infinito, che con essa mostra una delle sue potenze. Lo svolgimento di un processo non avviene appeso nel vuoto metafisico, mediante una crescita dalla parte più piccola verso l’intero più vasto, come se la potenza di una cosa fosse sinonimo del niente di quella cosa. Ogni parte presuppone il tutto di cui è parte. Paradossalmente il risultato precede e comprende i suoi fattori.

Partire da un simile punto di partenza non potrà significare, pertanto, che lo si lascia indietro e se ne esce (e in quale maniera si potrebbe uscire dal tutto?) per aggiungere al suo essere altro essere dall’esterno. E fuori del tutto quale mai altro essere c’è? Partire e avanzare potrà solo significare che si segue l’invalicabile inizio in una delle molte direzioni che si svolgono al suo interno, lungo le figure in cui a volta a volta esso si riformula e ripropone.

Il soggetto creativo contiene e conclude l’intero processo e in tale modo, per Hegel, ne rappresenta il vero inizio.

Purtroppo esso resta sempre quel soggetto surrettiziamente ipotizzato da Cartesio, ancorché allargato a comprendere in sé tutto il divenire. Hegel ha risolto correttamente un problema sbagliato.

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Di fronte al morto si può piangere solo ciò che egli non è riuscito a essere. Ciò che è mancato e che non è mai venuto fuori. In definitiva ciò che “non” è stato. E, dato che appartiene alla natura umana di realizzare appena una minima parte di quanto ci si attenderebbe, di fronte al morto si piange per la fine di un’illusione, si piange perché da quel momento in poi diventa flagrante e certissimo che nessuna attesa avrà più senso.

Non altro. Bisogna farsene una ragione. Nonostante i luoghi comuni, non si può piangere la perdita di ciò che egli è già stato: il morto non può risucchiare via con sé ciò che di lui è comunque entrato nella esperienza del mondo.

Egli si porta via, invece, proprio quello che non ha dato. Che non ha dato perché non poteva. E soltanto su quello, in verità, ci rimane da piangere, per il senso di impotenza di fronte a un limite che, alla fine, con crudele indifferenza ha resistito senza cedere.

Piangiamo il molto, presunto o desiderato, che si è sottratto dietro quel limite. Quanto più ricca è stata la massa dei segni che la persona morta ci ha comunicato, tanto più siamo amareggiati dal pensiero della inespressa riserva retrostante che è sfuggita definitivamente. E sentiamo con sgomento che l’angelo della morte ha trattenuto nella sua gelosa custodia proprio questa.

Piangiamo perché temiamo che sarà così anche per noi, disperando di riuscire a consegnare ciò che portiamo dentro.

Eppure dovremmo saperlo che si consegna sempre tutto, anche il non detto, anche il non fatto, oltre al sì anche il no. E che la sorte ci ha dato di vivere anche il silenzio.

Giuseppe Lampis

Estremadura, Mythos, Roma 2008;
dalle pp. 58-65 (cap. IV)

(leggi la Prefazione di Maria Pia Rosati al saggio Estremadura)

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