Anima – Animale

(Traduzione dal francese di Giuseppe Lampis)

Jean Servier

Negli anni 50 alcuni religiosi dell’ordine dei Carmelitani avevano domandato a C. G. Jung se il profeta Elia, fondatore dell’ordine secondo le loro tradizioni, potesse essere considerato come un archetipo, dal momento che lo si trova presente nella luce segreta di tutte le religioni nate dalla Bibbia: egli è Elijah ha Tishbi, annunciatore della fine dei tempi, ed anche colui che con la sua presenza santifica molti riti di passaggio del giudaismo. Può essere altresì Giovanni Battista, venuto per preparare le vie del Signore, o Giovanni il discepolo molto amato di cui Cristo ha detto: «Se è mia volontà che egli resti fino al mio ritorno, che cosa potete dire?». «Si sparse voce tra i fratelli che questo discepolo non doveva morire» (Gv 21, 23-24). Nell’Islam è  l-Khider (il verde), colui che si manifesta ai prescelti porgendo loro l-Ward (la rosa iniziatica), all’origine di molte correnti mistiche.

C. G. Jung rispose che sarebbe stato propenso a definire il profeta Elia come una costellazione archetipica.

Forse si può impiegare la stessa definizione per Orfeo, anche per lui con intenzionale imprecisione. In realtà, per un etnologo, l’eco dei misteri antichi del Mediterraneo settentrionale ha risuonato molto lontano nel mondo, in Africa, in Occidente, fino ai nostri tempi, proprio nello stesso modo in cui risuonò da una cultura all’altra l’eco di altri canti, di altri miti, di altri misteri più antichi. Cosicché bisogna rinunciare ad assegnare loro un’origine, come invece hanno cercato di fare molti autori, dall’antichità ai nostri giorni: un’origine che non sia quella di un Orfeo velato dalle brume.

Il problema sorge già con i primi tentativi: Pausania vede in Orfeo un mortale, un poeta che con il suo canto ammansiva le fiere. Ken Dowden, rifacendosi a ciò che chiama «le numerose menzogne dei Greci» (IX. XXX. 4), nella sua opera Death and Maiden (1989) parla di un Orfeo wholly mythical e attribuisce il suo rituale Teletai a un certo Melampo che «avrebbe introdotto il culto di Dioniso dall’Egitto in Grecia».

Altri specialisti hanno parlato della culla di Orfeo, in Tracia o in Lidia; e Agave, la madre di Penteo posseduta da Dioniso, chiama asiatiche le Baccanti (Euripide,  Baccanti 1169), Asiades Bacchai. Le differenti origini attribuite all’Orfismo e agli insegnamenti orfici rendono la definizione di C. G. Jung particolarmente pertinente.

Del resto, né la cronologia, né la diffusione dei criteri culturali hanno importanza: una cultura, una civiltà, possono adottare soltanto ciò che sono pronte a ricevere ad un dato momento del loro divenire.

Due menadi presentano una lepre a Dioniso - Anfora Attica 540 a.C.
Due menadi presentano una lepre a Dioniso – Anfora Attica 540 a.C.

Ogni personaggio, anche se mitico, è dotato di una storia e, soprattutto in Grecia, di una genealogia. Orfeo sarebbe nato dalla musa Calliope e dal fiume tracio Oegro, secondo Apollodoro (1. 3. 2). Non è un caso unico; altre muse si sarebbero unite ad altri fiumi e, da africanista, direi ad altri Geni del Fiume: Tersicore o, secondo alcuni, Melpomene ad Acheloo per generare le Sirene e Euterpe a Strimone da cui avrebbe avuto Reso (Apollodoro 1. 3. 4.).

Le muse sono dunque nate dai fiumi, dall’acqua, o sono figlie della memoria (Mnemosyne), la memoria di cui l’acqua è un simbolo costante? Esse sono le manifestazioni del Sapere sconosciuto di cui ci parla Jung: quel sapere che dorme in ciascuno di noi, pronto al risveglio.

Le tradizioni attribuiscono ad Orfeo, nato dalla più antica delle Muse, il potere di far muovere con il suo canto le pietre e gli alberi, di far sognare gli animali che si radunavano intorno a lui. Padrone del verbo creatore, nato dall’acqua, lo troviamo in qualità di eroe civilizzatore, mentre insegna l’arte di guarire e la scrittura, nonché i Misteri che ha trasmesso agli uomini.

Troviamo ormai in lui come un palinsesto ricoperto di troppi commenti e glosse, ma egli resta il Genio civilizzatore nato dal Fiume presente in molte civiltà : Nommo Settimo, presso i Dogon del Mali, od Oannes in Mesopotamia, mezzo uomo mezzo pesce, venuto dal mare.

Orfeo, come tutti i geni civilizzatori che hanno tentato di rendere all’uomo la sua primigenia dignità, si rende colpevole, insegnando agli uomini i segreti degli dei, di aver trasgredito il grande divieto, di aver superato il limite.

In un primo tempo gli animali, così spesso rappresentati intorno a lui, sono il segno di altri Misteri, poiché essi rappresentano per l’uomo delle culture tradizionali il popolo del Sapere segretamente riservato.

In seguito Orfeo supera i limiti del mondo ctonio dal momento che, secondo Euripide, ha affascinato con il suo canto le potenze infernali che tuttavia gli avrebbero lasciato vedere soltanto un’ombra della sua sposa Euridice. In quella stessa occasione sembra inoltre aver trasgredito un altro divieto (forse la conoscenza dei misteri riservati alle donne, misteri ctonii) entrando negli inferi vicino a Demetra; o ad Aorno vicino a Tesprotis, consultando un antico oracolo dove si poteva ascoltare la voce dei morti.

Da allora sembra votato, dapprima a sua insaputa, alle forze ctonie.

Sant’Agostino (Civ. Dei XVIII. 14) scrive: «Tuttavia non so perché Orfeo sia di norma collocato nella città degli empi, alla testa di quei misteri sacri o piuttosto sacrilegi che venivano chiamati inferi». Eratostene (o l’autore che viene chiamato con questo nome) fornisce una versione complementare. Secondo lui Orfeo onorava Apollo. Egli saliva ogni giorno sulla sommità del monte Pangeo a vedere il sorgere del sole (Apollo). Ciò irritò Dioniso che incitò le Bassaridi – un collegio di donne iniziate ai suoi misteri – a dilaniare il poeta, a farlo a pezzi, poiché era divenuto colpevole di un’altra trasgressione.

Cornelius Agrippa nella sua opera I tre libri della filosofia occulta dice del sole: «Si chiama di notte Dioniso e di giorno Apollo». Comprendiamo allora la collera del sole sotterraneo, di Dioniso, contro colui che, votato alle forze ctonie, adorava la luce diurna.

Ma, per un etnologo, ogni uccisione può essere un’iniziazione, come ogni iniziazione comporta un’uccisione simbolica e soprattutto quel dilaniamento che deve precedere la ricostituzione dell’iniziato, la sua individuazione.

Così, presso gli aborigeni australiani recenti, il sacerdote diceva al neofita che lo avrebbe ucciso per aprirgli il corpo e sostituire le sue viscere con dei pezzi di quarzo, simbolo materiale dell’invisibile.

Immerso in un profondo sonno per mezzo di una droga o per essere stato colpito da un pesante pezzo di quarzo, il neofita si svegliava, rinnovato, iniziato.

Appare possibile considerare l’uccisione di Orfeo come conseguenza della trasgressione dei divieti che proibivano l’accesso ai misteri di Dioniso riservati alle donne e dunque anche la sua iniziazione a questi stessi misteri.

Non dimentichiamo che c’era a Bryse in Laconia un tempio di Dioniso in cui solo le donne erano ammesse per compiere i loro riti rimasti segreti. Secondo Pausania, le donne trace avrebbero ordito l’uccisione di Orfeo, in quanto di notte trascinava i loro mariti nelle sue folli corse. Eraclito definisce nyctipoloi(vagabondi notturni) quelli che erano guidati da Orfeo, del resto le folli corse notturne evocano un culto di possessione, allo stesso modo della sua morte simbolica, prototipo di una precedente iniziazione.

Il carattere ctonio di Orfeo si afferma progressivamente. Dopo il suo pellegrinaggio all’oracolo di Aornum, fonda a Egina i misteri in onore di Ecate, la cacciatrice. Ecate, l’ombra di Artemide che guidava la schiera dei morti nel cielo notturno, è all’origine di molte “cacce selvagge” il cui ricordo persiste nelle tradizioni popolari europee.

Ecate si congiunge nella stessa idea con Dioniso i cui misteri prendevano senso (semnotes) dalla celebrazione dei riti notturni, dalle danze frenetiche alla luce delle torce.

Tuttavia, prima di inoltrarci nell’incontro con l’ “entusiasmo” ricordiamoci dell’espressione di Djellal eddin Rumi: «Colui che conosce la forza della danza abita in Dio, abolisce le barriere dell’individualità dell’uomo isolato. Perché dove si sveglia l’amore, muore quel despota che è l’Io».

Oritia, ninfa dei boschi, che danza con un Sileno - Ceramica Attica 525 a.C.
Oritia, ninfa dei boschi, che danza con un Sileno – Ceramica Attica 525 a.C.

Ora, come è noto, il più grande sacrificio è quello dell’io all’angelo; e molte strade portano all’unica pietra del sacrificio, alla morte iniziatica. Zagreus appare nel pensiero orfico quasi a sottolineare ancora il carattere mitico di Orfeo e il messaggio dell’Orfismo.

Non insisto sulla sua nascita, sulla sua infanzia, sulla sua uccisione da parte dei Titani, sulla sua passione, tutte sequenze di uno scenario artificiale e iniziatico che fornirà all’Orfismo un simbolismo capace di spiegare il posto dell’uomo nell’universo e il senso dell’avventura umana.

I Cretesi hanno innalzato al rango di festa il giorno anniversario della uccisione di Zagreo, un nome di origine sconosciuta, tradotto spesso come Grande Cacciatore, ma che a mio avviso potrebbe essere avvicinato a una delle parole che in Kabilia designano il bove (azger), anch’essa di origine sconosciuta. La cerimonia celebrata dai Cretesi era annuale, ma rivestiva un carattere particolarmente sacro ogni due anni, quando riproduceva la passione del dio-bambino. «Dilaniavano con i denti un toro vivente ed emettevano grida nella foresta lamentandosi. Fingevano la follia» dice Firmico Materno (in De errore profanarum religionum). Entravano, in altri termini, in trance.

Al suono di flauti, cimbali e rombi, imitavano il rumore dei “giocattoli” con i quali il bambino era stato attirato dai Titani fuori dal palazzo di Zeus. Lo smembramento del toro, quale commemorazione della passione di Zagreus, si è confuso con la passione di Orfeo. Una omofagia analoga è stata descritta da Henry Jeanmaire in Dionysos (p. 299), il quale riprende René Brune 4. Non insisterò su questo punto già descritto e in parte studiato .

Il lato visibile, che ha suscitato molta curiosità e risvegliato un interesse certo in Marocco, copre l’esoterismo della cerimonia, vale a dire «la conoscenza che trasmettono i membri iniziati della confraternita» (cfr. A. Boncourt, 1960) 5.

In un frammento dei Cretesi di Euripide citato da Porfirio (De abstinentia, 4. 19) un iniziato dice: «La mia vita è stata pura dal giorno in cui sono divenuto l’iniziato di Zeus ideo e il pastore al servizio di Zagreus che erra nella notte. Dopo aver preso parte al pasto di carne cruda e aver portato in alto le torce dei Cureti, sono stato elevato alla dignità sacra e chiamato bacchos», cioè degno di portare il bacchos, emblema di entusiasmo e di ispirazione divina.

Senza dubbio il postulante in trance doveva scegliere il bacchos tra altri oggetti che gli erano proposti (ipotesi che può essere convalidata da analoghi fatti raccolti in altri culti di possessione e in altre culture). Alla conquista di questo oggetto sacro fa allusione la frase «molti portano il tirso, ma pochi sono gli ispirati».

Soprattutto le donne si lanciavano in queste danze disordinate e spossanti, secondo quanto ci dice Euripide nelle Baccanti.

Il loro costume era strano: indossavano bassaras (lunghe vesti al vento, fatte, a quel che sembra, con pelli di volpe) e sopra mantelli di capra e sulla testa delle corna. In realtà sembra trattarsi più di una rappresentazione dell’animalità, quella delle foreste e delle montagne selvagge, che di un travestimento da un particolare animale. Esse si precipitano su animali, senza dubbio destinati al sacrificio, li afferrano e li fanno a pezzi.

Euripide, in numerosi passaggi delle Baccanti, le descrive mentre dilaniano la carne sanguinante e gli organi ancora palpitanti delle vittime. Coloro che prendevano parte a queste danze si tuffavano in una sorta di mania, fino alla  extasis, l’uscita dal corpo che permette il contatto con gli esseri di un ordine superiore, come il dio e gli spiriti che formano il suo corteo.

Alcuni iniziati nascosti rendevano più sensibile la presenza del dio imitando il muggito del toro, certamente con dei rombi.

Coloro che celebrano la festa accorrono per unirsi a lui, spezzando la prigione del corpo mediante l’estasi. Essi fanno parte degli spiriti che circondano il dio che muggisce; partecipano alla vita del dio stesso, ne prendono il nome: sono i bacchoi.

L’estasi del culto dionisiaco non è considerata come un vagabondaggio e un “lievitare” dell’anima nell’illusione. È una ieromania, una follia sacra nella quale l’anima fuggendo dal corpo si unisce alla divinità. L’anima è nel dio e il dio è nel corpo del posseduto (i posseduti sono chiamati e”njeoi: vivono e sono nel dio).

Le manifestazioni più appariscenti, le più frequentemente descritte o rappresentate del culto di Dioniso, non possono riportarsi a semplici crisi di possessione spontanee o finte. Le osservazioni fatte in Africa o altrove mostrano che l’avvicinamento al divino non può essere così facilmente semplificato e ridotto.

In questo avvicinamento al divino, con il quale l’anima umana trova il suo completamento, consiste senza dubbio l’essenziale di tutti i riti. L’anima cerca di ridivenire se stessa fuori dal corpo nel quale è imprigionata.

Un punto che appare importante sottolineare a questo proposito è il posto del mondo animale in alcuni passaggi iniziatici, come anche alcune forme di sacrifici molto spesso fraintese dall’Antichità ai nostri giorni.

Qual’è la spiegazione delle vesti di pelli o di pelliccia, delle nebridi, delle pardalidi, delle bassaras o degli ornamenti rituali che le sacerdotesse cretesi portavano? Per quale motivo personaggi rivestiti di velli appaiono al centro dei riti agrari nel Mediterraneo?

L’uomo ha voluto “rovesciare” la sua personalità e mettere il suo inconscio come fuori di sé anche per essere più vicino al divino?

In proposito, decisamente, bisogna attraversare il Mediterraneo e andare nell’Africa profonda di tempi ancora non lontani, quella delle foreste vergini e delle paludi, per tentare di comprendere i Misteri greci rimasti segreti.

2.  L’insegnamento degli animali

Un tempo la vita spirituale dei Bambara si svolgeva ancora nelle società iniziatiche di cui la prima, il N’domo, è considerata infantile solo perché gli adolescenti che vi entrano sono ancora incirconcisi.

Letterariamente il N’domo designa il giuggiolo, un albero che simboleggia la città degli uomini.

I cinque anelli che formano questa catena iniziatica sono cinque gradi che permettono la progressiva trasmissione di una stessa conoscenza: i leoni, i rospi, gli uccelli, le anatre e i cani.

Secondo la tradizione, il fondatore del grado del leone nel N’domo è N’domadyri, l’antenato dei fabbri. Primo maestro del fuoco e del ferro è colui che gli storici delle religioni chiamano “eroe civilizzatore” o, come sarebbe preferibile, “genio civilizzatore”.

«Il leone si serve degli artigli potenti per raspare il suolo e per dilaniare la sua preda. Ugualmente l’uomo scava con il suo spirito il mistero del mondo per raggiungere la verità. La sua “divisa” è: Il Leone liberatore! colui che dilania i cuori e i fegati freschi…» (cfr. D. Zahan 1960) 6.

Reso esplicito, secondo Dominique Zahan, ciò significa: «Spirito liberatore, tu che conosci la più profonda intimità dell’uomo, tu che manifesti la tua presenza nel cuore dei segreti per fargli compiere cose stupefacenti applicando tutta la tua potenza» (ibidem).

Tuttavia un’altra spiegazione è plausibile: poiché il fegato è nelle civiltà tradizionali la sede dell’anima vegetativa, “del sentimento”, e il cuore quella della volontà, il dio “che dilania i cuori e i fegati freschi” è anche il dio signore dei sentimenti e della volontà, che regna senza limiti sulle anime, attraverso l’iniziazione, senza che sia sempre necessario ricorrere ad un sacrificio reale che comunque, anche se è compiuto, ha innanzitutto un valore simbolico.

L’etimologia del nome dell’ultima e della più alta delle società iniziatiche bambara, il Koré, resta incerta. Questa parola può designare la lumaca, da molto tempo associata alla morte e alla resurrezione.

Il termine Koré è destinato ai profani o a quelli che non hanno ancora raggiunto questa tappa.

Altri termini sono impiegati dagli iniziati: dyow ko muru, il coltello dopo la morte (cioè dopo essere passati attraverso le altre iniziazioni);  o muru ko dyo, la vita dopo la morte (iniziatica); infine sabaliw bla yoro, il luogo del soggiorno degli immortali (D. Zahan, op. cit., p. 138).

Il Koré dugaw, o avvoltoio del Koré, rappresenta in questa società iniziatica il superamento del limite che separa ancora l’uomo dalla sua originaria condizione di immortale. «Questo nuovo stato comincia dall’infanzia» (D. Zahan, op. cit., p. 317) per il nuovo iniziato che ha conosciuto la morte.

In altre civiltà, ritroviamo facilmente lo stesso simbolismo dell’avvoltoio portatore di immagini di morte e di resurrezione. Avendo superato il limite, regredito all’infanzia, l’iniziato è morto alla vita profana e purificato dalle prove. Egli si comporta con affettazione da ghiotto, la qual cosa «significa simbolicamente assumere le forze profonde e nascoste dell’universo», e indica «lo spirito affamato di sapere».

Menade e Sileno - Terracotta 480 a.C. - Museo Villa Giulia Roma
Menade e Sileno – Terracotta 480 a.C. – Museo Villa Giulia Roma

Quanto più i rifiuti di cui si nutre sono fermentati e pieni di vermi, tanto più sono apprezzati dagli iniziati, come dice C. G. Jung (Psicologia del Transfert): «Il Bello e il Bene non risiedono dove capita di trovarli. E nemmeno dove vengono cercati di preferenza: spesso sono tra i rifiuti o sotto la protezione del Drago: In stercore invenitur – lo si trova nello sterco – dice una sentenza magistrale alchemica, e ciò che si trova risulta egualmente prezioso dato che è la prova della loro vitalità ».

Essi sono uno dei segni che provano che il Koré dugaw ha trionfato sulla morte, egli è divenuto “l’uomo più ricco del mondo” avendo conquistato il vero oro, e il vero argento «volendo così dire che la vera saggezza, il vero oro è la proprietà dei Koré dugaw, degli avvoltoi» (D. Zahan, op. cit., p. 177).

Molte tradizioni ritengono che gli animali siano i padroni della saggezza, i padroni del fuoco che hanno donato all’uomo.

Secondo la logica delle civiltà tradizionali recentemente scomparse, la prova di questo dono che distingueva l’uomo al centro della creazione è data dal fatto che gli animali non posseggono il fuoco poiché lo hanno donato. Ciò consente di attribuire loro una saggezza maggiore, poiché, sempre secondo la stessa logica, colui che dà è più ricco, di una ricchezza invisibile, di colui che riceve.

Ciò non deve sorprenderci, abbiamo qui soltanto un’estensione particolare del linguaggio e di alcuni simboli dell’alchimia. In genere gli animali selvaggi sono considerati come i messaggeri dell’Invisibile. Sappiamo, attraverso molti esempi tratti da differenti tradizioni, come il fuoco sia stato rubato agli dei dagli animali per donarlo agli uomini. Gli uomini prendono la forza del fuoco per trasmetterla al ferro, così possono cambiare il secco e bruciandolo lo trasformano in umido, ma debbono pagare un prezzo al fuoco.

In cambio gli animali hanno preso all’uomo il fuoco interiore e possono restituirglielo attraverso l’iniziazione, rendendo visibile ciò che era nascosto.

3. L’anima e la sua ombra

Dobbiamo la conoscenza di una istituzione diffusa nella maggior parte delle società tradizionali, ma più nota in Africa, a un testo di Jean Giraudoux, Les hommes tigres (1926), poco citato. In esso, l’autore – già direttore delle Oeuvres françaises al ministero degli esteri – fa una sintesi dei rapporti amministrativi sugli “Uomini-belva” dal 1912, la cui attualità si è prolungata nel tempo. Ed infatti le testimonianze scritte che possediamo arrivano intorno al 1950.

Anche qui ritroviamo altri Firmicus Maternus, altri Ammiano Marcellino, e testimonianze di uomini e di donne che temevano queste società segrete, che avevano il compito di vegliare sull’antico ordine dell’Africa e di preservare il potere dei re e dei depositari di usi e costumi.

Dagli elementi degni di fede che si possono ricavare dai testi redatti dai funzionari coloniali, dai missionari o dai medici, risulta che presso tutti i popoli africani e altrove si trovano confraternite iniziatiche di uomini-animale: uomini-leopardo nel Camerum o nel Ubangui (dove le donne sembrano essere state ammesse); uomini-pantera nel Gabon, nella Guinea, nel Senegal; uomini-leone nel Tanganyka e nell’Angola; uomini-scimpanzé; uomini-iena nel Medio Congo e negli Imperi Zulù; uomini-caimano nella Costa d’Avorio; uomini-babbuino nella Sierra Leone; uomini-serpente nella Guinea; uomini-squalo delle Nuove-Ebridi.

L’entrata in una società di uomini-belva avviene dopo la circoncisione, generalmente collettiva, che raggruppa, a periodi regolari, a volte di dieci anni, gli adolescenti o i giovani di classi di età vicine.

I circoncisi, divenuti uomini dopo il compimento del rito, prendono il loro posto nel villaggio; in seguito alcuni di loro, avvisati in segreto, annunciano che partiranno per un lungo viaggio. Essi si recano nella macchia, nella foresta, a ricevere un’altra iniziazione più lunga, più rude, che non è un semplice rito di passaggio. Sono sottoposti per la durata di due o tre lune a un duro addestramento fisico le cui prove si svolgono di notte. In una prima fase sono battuti a sangue, reiteratamente, dai loro iniziatori. In seguito si esercitano a portare tronchi d’albero, pesanti come prede, a correre, a saltare sul tetto di una casa e da un tetto all’altro, sempre portando il loro fardello.

Durante questo tempo, i loro iniziatori –  Wahokoko o Anioto – uomini-leopardo già iniziati, nel caso del Congo, cercano di raggiungerli lanciando contro di loro delle zagaglie. La morte o gravi ferite eliminano in tal modo coloro che, secondo gli anziani, non avrebbero potuto divenire veri uomini-leopardo. Gli altri, ammessi a proseguire il loro addestramento, imparano ad usare un’arma a molteplici lame che imita gli artigli della belva, a ruggire, talvolta con l’aiuto di un piccolo vaso di terra, come nell’ex Congo belga (l’attuale Zaire), o di un tamburo a frizione che imita il bramito della pantera mentre caccia.

Infine ricevono le loro insegne rituali di Wahokoko: una pianeta e una cocolla di scorza battuta, dipinte ad imitazione delle macchie oculate della fiera; ed essi le pongono sui loro corpi cosparsi di caolino bianco, il quale in Africa è il colore della morte e dell’Altro mondo.

Dobbiamo a questo punto aprire una parentesi. Secondo il mito di Zagreus, i Titani si erano avvicinati al bambino-dio, ricoperto di scisto o di gesso, a seconda delle traduzioni. Il gesso, e lo scisto da cui è uscito, si chiamano titanos, con lo stesso termine che designa la calce. Il sostantivo titanotos (imbiancato) ha generato confusione tra i due termini di titanos (calce, come traduce Farnell, Cult of the greek states, t. V, p. 172) e titanos (gesso, come traduce M. Eliade) 7.

Il mito di Zagreus potrebbe conservare il ricordo dei riti iniziatici più antichi, dimenticati e poi “reinterpretati”. È certo che i fatti africani hanno colpito l’immaginazione dei rappresentanti delle potenze occidentali in Africa. Sette paramenti completi di Anioto sono esposti nel Museo reale dell’ex Congo belga a Tervueran: cocolle di scorze maculate e artigli di ferro. Tuttavia il carattere simbolico di queste istituzioni, e dunque il loro ruolo sociale, sono rimasti incompresi.

In effetti, gli uomini-belva d’Africa non possono essere considerati come dei criminali, nel senso che noi diamo a questo termine in Occidente.

Non sono le droghe allucinogene a provocare in questi giovani uomini la volontà di discendere agli Inferi, durante le prove di un’iniziazione in cui rischiano la vita, come molti prima di loro in altre civiltà, e di poterne risalire, divenuti padroni della condizione umana.

Il vestito di tessuto è sostituito dalla cotta di scorza battuta, ma sappiamo che in Africa il tessuto è simbolo dell’agricoltura e del verbo. Al suo posto, ecco una scorza battuta che imita il pelo della fiera. L’anonimato della pelliccia o della cocolla nasconde il nome dato al figlio dell’uomo e il suo viso. Egli per un certo tempo esiste solo come belva che porta un nome di iniziato.

Il verbo degli uomini è sostituito dal ruggito, o dal rumore cupo del rombo che fa fuggire le donne e i profani. Le note brevi del flauto, due note tristi e basse, conosciute da essi soli, ritmano la loro processione al passo leggero e silenzioso delle belve in cui si sono trasformati. La loro forza risiede nelle insegne di cui sono rivestiti, negli artigli di ferro consacrati che portano alle mani. Alcuni anziani inquadrano i più giovani al momento delle loro prime spedizioni.

Uno di essi ha dei bastoni scolpiti ad una estremità che riproducono i cuscinetti delle zampe anteriori delle belve; così presso gli uomini-leone del Tanganyka, gli uomini-leopardo dell’ex Congo belga, e altrove con gli uomini-pantera.

Gli iniziati portano dei sandali le cui suole di legno lasciano le impronte delle zampe posteriori della belva. Tutti hanno alle mani degli artigli di ferro ed hanno appreso a marciare secondo il passo speciale degli uomini-belva, poggiando il tallone e incurvando gli alluci per non lasciare dietro di sé alcuna impronta umana rivelatrice. Il numero dei partecipanti attivi varia a seconda dei riti e delle regioni. In Congo erano necessari sette iniziati per fare un “leopardo”.

Ma, un tempo, una confraternita di donne-belva circondava Dioniso e lo pregava:

«– Fa di noi delle belve divoratrici di carne cruda, armate di artigli micidiali.
Affinché, o Dioniso, lo laceriamo con la nostra bocca – .
Esse prendono lo sguardo verdastro dell’animale, la loro mascella è spaventosamente dotata e le macchie dipinte sulla loro schiena imitano la pelle del cerbiatto.
Eccole divenute una specie selvaggia.
Furono esse, spogliate dalla volontà del dio della loro bella forma, divenute pantere, a dilaniare Penteo sull’alta cima.
– Ecco ciò che cantiamo, ecco la nostra fede – .
Ma questi delitti di donne negli anfratti del Citerone, queste madri abominevoli, rese insane da Dioniso, sono empie menzogne dei poeti.»

Questi versi compaiono nell’opera di Oppiano Sulla caccia e sono stati scritti negli ultimi anni del II secolo della nostra era, nel momento in cui si veniva affermando la reazione pagana contro gli attacchi dei cristiani (cfr. P. Labriolle, 1942) 8. In questa epoca alcuni fedeli sentono la necessità di giustificare la loro fede, di affermare la trasformazione attraverso la trance delle donne votate a Dioniso e anche di dare testimonianza dei culti di “possessione” e del loro valore morale.

La “possessione” animale o la nozione di una partecipazione a forme animali sono elementi ricorrenti nei riti che accompagnano l’omofagia e un certo livello raggiunto durante il percorso iniziatico. Indossare la pardalide (la pelle di pantera) è rito antico quanto indossare la nebride (la pelle del cerbiatto).

Tuttavia non sembra che le donne-belva descritte da Euripide rappresentino una specie particolare di animali selvaggi e neppure (per lo meno in epoca tarda) che siano appartenute a “confraternite” specifiche di belve come è stato osservato presso gli Assaua del Marocco.

In realtà esse hanno “uno sguardo verdastro”, “una mascella spaventosamente dotata” e sulla schiena macchie dipinte che imitano la pelle del cerbiatto. Senza dubbio c’era una “preparazione” all’arrivo e all’accettazione della trance.

Allo stesso modo, come abbiamo visto, gli uomini-belva dell’Africa ricevono un’iniziazione: dolorose prove fisiche e un insegnamento impartito nella macchia, lontano dalla comunità degli uomini. Inoltre, se sappiamo poco sugli uomini-belva dell’Africa, non sappiamo nulla sul reclutamento reale delle baccanti e in generale molto poco sulle iniziazioni greche.

L’iniziazione degli uomini-belva d’Africa comprende la presentazione di oggetti sacri, volontariamente ridicoli: la qual cosa evoca per noi i giocattoli (ossicini, una trottola, un rombo) offerti dai Titani a Dioniso-Zagreo, giocattoli che del resto hanno un sicuro valore simbolico e rituale. In Africa, sono gli “spiriti di iniziazione” ad essere presentati ai neofiti:

– il Maduali: un rombo ricordato a lungo dagli autori antichi e presente in molte culture, anche se non hanno conservato il suo valore sacro originario di voce del tuono (cfr. J. Servier 1994) 9

– l’Agbendula: un fischietto fatto con un bastoncino cavo;

– il Nasasa: una rappresentazione del becco del calao, uccello che si suppone essere l’artefice delle incisioni rituali sul petto dei neofiti.

L’ultima cerimonia consiste nell’insegnamento del segreto e nella raccomandazione del silenzio. I neofiti divenuti ormai veri uomini-belva ricevono delle raccomandazioni morali: obbedienza, virtù verso le mogli del padre, rispetto per i vecchi e per gli infermi, doveri nei confronti dei morti, esaltazione dello spirito di fraternità nella sfortuna e nella vendetta.

Infine, al suono degli strumenti sopra citati, i giovani iniziati con gli occhi bendati ricevono nella loro carne i segni della loro iniziazione: le ferite rituali. L’uomo attraverso le sofferenze dell’iniziazione chiederà di conoscere l’ultimo segreto, sul quale terrà le labbra chiuse, e lo farà tenendosi nella zona d’ombra di quell’ “anima” in cui ormai è entrato e che ha fatto sua.

Come sempre, il senso evidente di una funzione, di un rito, di un gesto o di un canto, in seno alle società tradizionali si raddoppia sempre di un significato profondo che, in questo e in molti altri casi, è sempre stato ignorato dagli occidentali, per lo meno nelle loro sfere di influenza.

Se nell’antichità gli iniziati tacevano malgrado i sarcasmi e le derisioni che non hanno potuto toccarli, in Africa gli iniziati hanno taciuto con l’aiuto delle popolazioni che temevano l’atteggiamento beffardo dei funzionari coloniali, inglesi, belgi e francesi, i quali dal canto loro temevano di cadere sotto gli artigli degli uomini-belva. Un malinteso, uno di più tra l’Occidente e l’Africa; molti altri ce ne sono stati tra gli ellenisti e la Grecia.

Secondo le poche osservazioni oggettive a nostra disposizione, si può divenire uomo-belva o per eredità o per alleanza di famiglia. L’uomo-belva viene reclutato da iniziati, la cui qualifica è sconosciuta perfino nel loro villaggio e nel gruppo sociale di appartenenza, in funzione di criteri che non conosciamo.

In quest’ultimo caso, dopo che è stato prescelto, ma soltanto in quest’ultimo caso, l’iniziato deve fornire una vittima. Essa dovrebbe appartenere alla sua famiglia, ma anche questo fatto non è stato stabilito con precisione, come accade d’altronde per molti altri particolari. Così i membri della confraternita della pantera, del Ngo, nel centro-ovest del Medio Congo e all’est del Gabon, erano reclutati tra i capi di famiglia. Essi avevano fama di potersi rivolgere a spiriti temibili, affinché uccidessero le vittime designate da Superiori sconosciuti con procedure segrete.

Inoltre, le credenze popolari spesso attribuiscono agli “stregoni” (ma che cosa significa questo termine in un rapporto amministrativo?) il potere di costringere gli spiriti dei morti a penetrare nel corpo di un animale (serpente o coccodrillo): mondo ctonio o delle paludi che in tal modo diviene loro “familiare”, per riprendere i termini usati dagli inquisitori in Occidente fino al “secolo dei lumi”.

Gli abitanti della Sierra Leone affermavano che per “magia” un uomo poteva trasformarsi in belva e uccidere un nemico. Altrove, per esempio in Kenia, numerosi resoconti attestano la credenza diffusa nella popolazione che alcuni uomini potessero essere cambiati in leoni o in leopardi dall’arte di alcuni sacerdoti (che agivano solo su richiesta di misteriosi mandatari) o trasformarsi da soli. Alla base di tutto ciò, ritroviamo un unico fondo di credenze, fino al lupo-mannaro e alla Bestia del Gévaudan in Francia.

Alcuni “uomini con poteri” possono per un certo tempo, mentre sono ancora vivi, trasgredire il processo della morte e divenire belve, trasgredendo così anche un altro limite, in quanto penetrano il sapere segreto del mondo animale e acquistano la forza delle belve.

La cosa utile da ricavare da questi resoconti è l’affermazione dell’improvvisa apparizione, provocata intenzionalmente, di una personalità animale. L’uomo leopardo preso in flagrante delitto non ammetterà mai di aver ucciso mentre si trovava nello stato umano. Affermerà di essersi effettivamente trasformato in belva e di poter assumere pienamente uno stato animale mediante dei riti; generalmente (si può leggere in un rapporto amministrativo) «confessano le loro azioni senza aver coscienza del carattere criminale dei loro atti».

«Essi hanno una tale fiducia nelle forze soprannaturali ricevute dalla pelle di bestia di cui sono rivestiti che, quando questa è loro tolta o si distacca, si accasciano inerti, impotenti, e non oppongono alcuna resistenza a coloro che li arrestano».

Presso i Bambara, la divisa del leone del Korè è “Leone liberatore, dilaniatore di cuori e fegati freschi”. Ma come non pensare a Dioniso che, fuori dalla Grecia, era chiamato Liber? Questo nome, che significa libero, è stato avvicinato a uno dei soprannomi di Dioniso, Lyaeos (il liberatore, colui che libera); anche omadios (che ama la carne cruda) o antroporraites (il dilaniatore di uomini, vale a dire l’iniziatore).

Constatiamo che in tal modo due serie di fatti sono state intenzionalmente confuse. È certo che il candidato all’iniziazione “muore” ucciso dai suoi iniziatori, proprio spiritualmente; a tal fine viene martoriato nel corpo, segnato dalle incisioni rituali che ricordano la sua “morte” fisica e la presenza invisibile che ormai abita in lui.

I sacrifici umani sembrano essere stati rari nella Grecia antica, per lo meno da quel che si può desumere dall’episodio delle menadi. Penteo infatti è stato dilaniato da loro solo perché aveva tentato di penetrare nei loro misteri. Ugualmente gli uomini-belva dell’Africa hanno ucciso i neri islamizzati (a mio parere in numero esiguo) che hanno partecipato alla tratta degli schiavi, ma anche coloro che si convertivano alle religioni venute dall’Occidente e mettevano in pericolo l’autorità dei capi tradizionali, l’equilibrio spirituale del pensiero africano.

Mai un bianco è caduto sotto i loro artigli. Non voglio qui riprendere la filosofia dell’Orfismo, ma avremmo potuto trovare in Africa un aspetto del pensiero platonico. Secondo gli iniziati africani «l’uomo deve liberare da tutti i legami di questo mondo l’anima che porta in sé, ma anche il genio, il daimon che lo abita e di cui la sua iniziazione gli ha fatto prendere coscienza. È così che sarà debitore della liberazione al dono di un dio liberatore, penetrato in lui dal fondo delle tenebre di un mondo animale sconosciuto».

Che cosa cerca il posseduto se non la sua seconda anima, l’altro se stesso che è quello vero e senza il quale non può esistere?

Sognando di essere una belva, la belva appare in lui, come dice C. G. Jung: «Se l’inconscio fosse solo nefasto, se fosse solo malvagio come si augurerebbero molti, la situazione sarebbe semplice e il cammino chiaramente tracciato: si farebbe il bene e si eviterebbe il male, ma che cosa è bene e che cosa è male? l’inconscio non è solo vicino alla natura e malvagio, è anche la sorgente dei beni più alti.» (C. G. Jung, Psicologia del transfert).

Quando l’animalità dell’uomo si è affermata in Africa ed è stata riconosciuta, gli studiosi occidentali hanno dovuto ammettere il presentarsi improvviso, provocato intenzionalmente, di una personalità animale, non solo simbolica.

Come dice C. G. Jung, questo «doloroso conflitto che comincia dalla nigredo o tenebrositas è stato descritto dagli alchimisti sotto forme diverse: separazione degli elementi, smembramento di un corpo umano, sacrifici particolarmente crudeli di animali.

«... nel corso di questo estremo smembramento, si produce una trasformazione di questo essere, di questa sostanza, di questo spirito che si rivela come il misterioso mercurio (cioè nasce a poco a poco da forme animali mostruose) : una res simplex la quale tuttavia sfocia in una dualità – la doppia natura unificata secondo Goethe – . Ottenere l’uno a partire dal due» ( Jung, op. cit.). 

Gli uomini-belva evitano il contatto con la morte, con le cose che evocano simbolicamente il mondo della caducità e della morte. L’assunzione di carne umana in alcune occasioni sacre è un simbolo che afferma la trasgressione della morte subita, inscritta nel corso dell’avventura umana.

Se il pensiero africano e il pensiero greco hanno potuto incontrarsi all’insaputa di coloro che ne erano i vettori, e per merito della rivista «àtopon», forse ciò accade al crocevia della trance provocata dall’ambiguo Dioniso per i popoli che osano nominare il loro dio, e della possessione, del cavalcamento da parte di Coloro che, altrove, non vengono nominati.

I folli inseguimenti delle menadi e dei bacchoi del dio si ricongiungono in credenze vicine al mondo invisibile. Nel sangue sparso e nei corpi dilaniati nessuno può distinguere le vittime fatte a pezzi dai brani della carne del dio sacrificato.

Dopo aver affrontato, anche se superficialmente, il problema dell’Anima-Animale nella Grecia antica, possiamo domandarci anche cosa rimarrebbe se Orfeo, Dioniso, Zagreus e i loro Misteri fossero stati oggetto di rapporti redatti dai funzionari di un’amministrazione coloniale inglese, belga o francese, all’inizio del XX secolo della nostra era.

Possiamo anche domandarci quale sarebbe la nostra visione delle tradizioni africane di un tempo e forse di oggi se Omero le avesse cantate come ha cantato «Dioniso infuriato e le sue seguaci» (Iliade VI, v. 132 e ss.; XXII, v. 460), se fossero state menzionate da Porfirio (De Abstinentia 2. 55), messe in versi da Euripide e il loro ricordo fosse stato tardivamente raccolto da un Pausania scettico o da un Apollodoro coscienzioso.

Nondimeno gli uomini, da un capo all’altro dello spazio e del tempo, hanno cercato di portare alla luce quella discesa agli inferi che è il confronto con l’inconscio e di rendere più facile il sorgere dell’Anima, sulla base della presa di coscienza dell’anima e dal suo superamento.

Quando l’uomo ritrova il mistero delle sue origini, attraverso l’iniziazione venuta dal mondo muto della fitta foresta, dalle paludi che portiamo in noi, può allora evocare gli animali che vi abitano, portatori del messaggio segreto che essi ci destinano, se lo accettiamo e se diventiamo come Orfeo, signori dell’ombra, capaci dunque di comprendere il messaggio segreto del silenzio e di farlo cantare sulle sette corde dell’arpa attraverso le sette vocali sacre. Giacché Orfeo, forse, ascoltava la voce degli animali risalita dal più profondo di se stesso per integrarla nell’armonia del mondo, ritrovando così la sua anima, persa negli inferi.

Jean Servier

 


Note bibliografiche

1) H-C. Agrippa, La magie céleste, L. III, tr. fr. di J. Servier, Berginternational édit. Paris 1981 p. 217.

2) Pausania, III, 20 – 3.

3) H. Jeanmaire, Dionysos, Paris 1951, p. 272.

4) R. Brune, Essai sur la confrérie religieuse des Aissaouo au Maroc, Geuthner, Paris 1926.

5) A. Boncourt, Rituel et musique chez les Aissaoua citadins du Maroc, tesi inedita, Istituto d’Antropologia e Etnologia di Strasburgo, 1980, I, p. 12.

6) D. Zahan, Les sociétés d’initiation Bambara: le N’domo – le Koré; Mouton, Paris – La Haye 1960, p. 56.

7) M. Eliade, Histoire des Croyances et des Idées religeuses (1975), vol. I, p. 384.

8) P. Labriolle, La reaction païenne, Paris 1942.

9) J. Servier, L’homme e l’Invisible, 3ª ed., Paris 1994, pp. 130 e ss.


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