Con questo titolo intendo sottolineare che l’immaginario non è una delle tante discipline, bensì un tessuto connettivo tra le discipline, il riflesso – o la riflessione? – che consente di caricare sul banale significante un ulteriore significato: il richiamo del senso.
Fino ad oggi (come ho ancora una volta ribadito in un mio recente scritto, L’imaginaire…,‘94) l’iconoclastia ostinata dell’Occidente ha bandito dalle sue filosofie progressiste il Museo delle immagini: un immaginario rifugiato qua e là in depositi autorizzati (per non dire in discariche), musei e cantine di museo con tutte le immagini passate e possibili prodotte dall’Homo sapiens sapiens. Tutto ciò implica un pluralismo ma anche una struttura sistemica del loro insieme.
Ora, il XX secolo ha assistito ad un progressivo e gigantesco ribaltamento dei valori trascurati dell’immaginario. Per un effetto perverso generalizzato la chimica dei supporti (N. Nièpce, C. Zeiss, L. Daguerre, G. Eastman, ecc…) e la fisica delle comunicazioni (H. R. Hertz, E. Branly, G. Marconi, A. Popov, ecc…) hanno permesso la nascita di ciò che viene convenzionalmente chiamato la Civiltà dell’immagine, lontana ormai dalla Galassia Gutemberg e soprattutto dalla Galassia epistemologica fondata sulla logica aristotelico-cartesiana. Di conseguenza non ci sono più soltanto specifiche discipline a cui è permesso offrire la minima percentuale tollerata di produzioni immaginarie, ma al contrario è l’immaginario stesso a premere dall’interno di ogni settore del sapere.
Mentre l’immagine invade la nostra civiltà iconoclasta, l’ipotesi di un immaginario sistemico, ricco di tutto il suo pluralismo, si infiltra, poco a poco, in tutte le discipline.
Una tale rivoluzione non è avvenuta simultaneamente nelle differenti discipline nate dal vecchio trivium e quadrivium. Prime ad avvertire il cambiamento sono state le lettere, ultime le scienze dure sulle quali si è modellata l’iconoclastia della nostra cultura. Tra le due si sono collocate progressivamente le discipline morbide, a cominciare da quelle meno condizionate dal positivismo sorto dallo storicismo e dalla sociologia del XIX secolo.
Lettere e arti di ogni tempo sono state il rifugio tollerato dell’immaginario. Dalla retorica dell’antichità – ricordiamo che la parola retore è divenuta molto presto un peggiorativo, proprio come la parola immaginario –, dall’integrazione culturale delle rappresentazioni figurate (Lascaux, Altamira), dalle simbolizzazioni da svelare (sepoltura della Chapelle aux Saints con i resti Cro-Magnon) si articola una autentica ricerca di mondi dell’immagine, mentre l’artista – compreso lo scrittore – ha grande difficoltà a liberarsi dalle regole strette dello scriba o dell’artigiano. L’immaginario appare all’inizio, nella retorica o nell’atelier del pittore, come un insieme di ricette artigianali alle quali si darà tuttavia ancora un notevole spazio nel trivium medievale. Le riflessioni sul senso dell’immagine erano infatti gelosamente riservate agli intellettuali, ai chierici, ai teologi, ai politici.
Abbiamo dimostrato (op. cit., 1994) che in Occidente i periodi storici in cui alle immagini sono stati concessi maggiore libertà e maggior peso (XIII sec. francescano, Rinascimento e Barocco, Romanticismo, Simbolismo e Surrealismo) coincidevano con quelli della valorizzazione e della emancipazione sociale dei creatori di immagini: pittori, scultori e poeti.
Tuttavia un manierismo tecnologico ed erudito (sicuramente rispettabile, dal momento che ogni arte è prima di tutto mestiere, dunque maniera) fa spesso derivare dal suo proprio luogo l’immaginario, le arti e le lettere. Per queste ultime il manierismo si è manifestato soprattutto attraverso lo storicismo letterario di cui, nei nostri insegnamenti, G. Lanson è stato il paradigma. Solo recentemente le famose Nouvelles Critiques – di cui Gaston Bachelard e Northrop Fry sono stati i pionieri – spesso confortate da frequenti scambi interdisciplinari con la psicoanalisi e il cinema, poterono portare alla luce distintamente i sostrati immaginari delle opere letterarie.
In Francia, sotto questo aspetto, la scuola di Grenoble fondata negli anni 60 è esemplare. Senza entrare nelle dispute interne alle Nouvelles Critiques – segno della loro vitalità – si può dire che tutte hanno posto come primo piano del semantismo e della comprensione letteraria l’immaginario e i meccanismi o gli organismi di coesione di immagini, puntando asintoticamente a ciò che si augurava Bachelard: arrivare a vedere le immagini, liberate dai loro impedimentabiografici e storici, in grado da sole di “spiegare le immagini”.
Questi nuovi metodi e prospettive letterarie e artistiche hanno costituito, tra gli altri, i punti fermi della mitocritica. Ma l’immaginario che si scopriva e si strutturava nelle lettere e nelle arti, doveva di nuovo trascendere questo primo e naturale terreno.
Già la nozione di mitocritica, attraverso il mito che ne è il nucleo, finiva per trovarsi in un ambito comune con le scienze del mito, da lungo tempo occupato dall’etnologia o dall’antropologia culturale e dai suoi parenti: paleontologia umana e preistoria. È paradossale che non sia stato così per la psicologia, troppo ingolfata – malgrado la precoce e molto contestata avanzata della psicoanalisi – negli sterili modelli di una psicofisiologia e di una psicofisica i cui presupposti meccanicisti e positivisti erano scientificamente esauriti, dopo l’avvento della teoria della relatività e dalla meccanica quantistica.
Si è lasciato all’etnologo – fortemente marginalizzato dalle istituzioni universitarie e dalla superbia colonialista –, irridendolo un poco, il pensiero primitivo (C. Lévy-Brhul), l’alogico della partecipazione (J. Przilusky), le superstizioni pagane, in breve il “pensiero selvaggio” (C. Lévi-Strauss) di cui l’immaginario con le sue articolazioni simboliche costituisce uno dei germogli.
Dal momento che l’etnologia e le discipline ad essa connesse sono state viste come il luogo privilegiato del selvaggio e del marginalizzato dalla nostra cultura, cioè dell’immaginario, si andava istituendo al suo interno (lo aveva già presentito il Durkheim delle forme elementari) una mitoanalisi (di cui Roger Bastide è l’iniziatore) che avrebbe assorbito quella stessa sociologia a sua volta interessata al mana quotidiano (G. Auclair), alle “genti da poco” (P. Sansot), ai fantasmi del quotidiano (L.V. Thomas), alla conoscenza ordinaria (M. Maffesoli). All’analisi delle saghe e dei miti cosiddetti selvaggi si accompagnava l’analisi delle saghe del quotidiano e dei cosiddetti bilanci di vita (Catani, Berteaux). Così, seguendo il modello dell’etnologia, la sociologia, fino a quel momento punta di lancia del positivismo, modificava il suo volto inoculando germi di teologia e di superstrutture superflue (secondo A. Comte e K. Marx) al cuore dell’analisi sociale delle nostre società moderne e contemporanee. Edgar Morin, conosciuto soprattutto per i suoi lavori di filosofia epistemologica, è stato tuttavia uno dei pionieri di queste sociologie dell’immaginario, fin dal 1956 con Le Cinéma ou l’homme Imaginaire.
La psicologia – troppo asservita a modelli quantitativi, ispirati alle scienze cosiddette sperimentali – si è trascinata a lungo stancamente per poi storcere il naso presumendosi come l’unica davvero scientifica, di fronte alle scoperte capitali di Freud e dei suoi successori Adler e Jung. Questi ultimi dovevano per primi collocare l’immaginario al centro dell’organizzazione psichica. Le topiche e le fasi della cura psicoanalitica in Freud, nonché le fasi del processo di individuazione in Jung, permettevano la costituzione di una sorta di anatomia e di fisiologia (completamente metaforiche) dell’immaginario.
Di fronte a questa rivalutazione delle immagini quali fondamento dei procedimenti della psiche, la psicologia sperimentale metteva a punto batterie di testsproiettivi (H. Rorschach, Artus, R. Mucchielli, Y. Durand, Le Men) che esaltavano l’importanza diagnostica delle immagini. Molto presto si stabilirono ponti interdisciplinari tra nuova psicologia, etnologia e scienza della letteratura (ad esempio con la psicocritica di Charles Mauron). Come spesso accade nei meccanismi della pluridisciplinarità, l’avanzata di una psicologia dell’immaginario e di una sociologia del mito dovevano provocare nelle scienze affini una forte attenzione per i problemi della simbolizzazione.
Per le scienze del comportamento animale ed umano, l’etologia (con i lavori di Adolf Portman, e i lavori divenuti celebri grazie al premio Nobel del 1973, di K. Lorenz, N. Tinbergen e K. von Friesch) accertava l’esistenza nell’animale, per lo meno nei vertebrati, di un “immaginario” costituito in modo tale che per ogni specie (pesce spinarello, rettile lucertola verde, uccello oca cenerina) un ventaglio di Urbilder mostri l’esistenza di relazioni simboliche specifiche.
Tutti questi lavori erano stati in qualche modo preceduti dai riflessologi della scuola di Leningrado (Betcherev, Oufland, Ouktkomsky) che hanno individuato in alcune specie animali l’esistenza sia di riflessi dominanti (che inibiscono gli altri riflessi), sia di riflessi vicari (Pavlov) provocati da stimoli visivi, sonori, olfattivi molto prossimi agli Urbilder degli etologi.
Ben presto d’altronde sono apparsi gli studi di neurofisiologia delle immagini sul Sapiens sapiens, con i celebri lavori di Théodule Ribot (Les maladies de la Mémoire, 1881) e del suo avversario Bergson (Matière et mémoire, 1889) sull’amnesia progressiva. L’attenzione veniva sempre più attratta dal fatto che il grande cervello umano (H. Laborit) e soprattutto il neoencefalo, o cervello noetico (P. Chauchard), collocava l’homo sapiens in una situazione cognitiva unica in rapporto agli altri animali.
Il sapiens utilizza costantemente la sua capacità di superare i semplici legami simbolici dell’animale attraverso la ricchezza spontanea delle articolazioni simboliche complesse (J. C. Tabary). Ogni pensiero del sapiens, grazie alla sua dotazione cerebrale, è rappresentazione: la presentazione di un’immagine stimolante nell’uomo è immediatamente circondata da un corteo di possibilità di articolazioni simboliche. L’immaginario dell’uomo è sempre simbolico (cfr. G. Durand, L’imagination symbolique, 1964).
La neurofisiologia del cervello umano permetteva ugualmente di specificare alcuni meccanismi del funzionamento immaginario, per esempio di differenziare un funzionamento più sintattico e più analitico (che R. Sperry situa nell’emisfero cerebrale sinistro) da un funzionamento più intuitivo, quel cervello muto (P. Chauchard) che sarebbe il luogo delle immagini non sottomesse alla logica delle sintassi (musicali, pittoriche, ecc…).
L’avanzamento degli studi sulla facoltà simbolica e le diversificazioni dell’immaginario del sapiens ci hanno permesso (1950-1960) di suddividere il campo dell’immaginario umano in due regimi (diurno, notturno) oppure in tre (collegati con i tre riflessi dominanti del sapiens: posturale, digestivo, copulativo). Ma soprattutto questi studi pluridisciplinari ci mostrano l’emergere progressivo di un campo assolutamente trasversale che possiede una sua oggettività e una sua articolazione interna. Inoltre gli stessi neurologi (J. F. Lambert, J. C. Eccles, ecc.) arrivano, attraverso studi molto precisi, all’induzione di un non-luogo paracerebrale, sede dello spirito.
Con la neurofisiologia gli studi sull’immaginario hanno raggiunto lo stesso livello delle scienze esatte. Tuttavia, per quel che riguarda le scienze inesatte, un settore si mostrava particolarmente refrattario essendosi sempre posto tra le scienze umane come modello di oggettività e di chiarezza; mi riferisco alla storia. La cronologia dello storico è stata presentata come l’incontestabile dato obiettivo del progresso, positivista o materialista, dell’umanità.
Ma la superbia etnocentrica di Hegel, di Comte, di Marx, non ha resistito alle smentite inflitte dalla storia stessa. Persino alcuni filosofi della storia (Spengler o Toynbee) registravano con più modestia la decadenza, il declino, la morte delle civiltà. Il dubbio si è accentuato presso Henri Marrou, Jean Chesneaux, Michel de Certeau e soprattutto Paul Veyne. Con quest’ultimo la storia si demistifica, collocandosi a poco a poco in una letteratura storicizzante in cui il margine tra romanzo e racconto storico si è molto ristretto.
Dopo l’irritazione manifestata da Claude Lévi-Strauss nei confronti dell’intoccabile storicismo, dobbiamo a coloro che hanno destrutturato le false evidenze del discorso storico a vantaggio delle certezze mitiche l’introduzione dell’immaginario nel suo santuario.
Certamente si deve a George Dumézil (che ha mostrato pazientemente come la storia di Tito Livio sia tributaria dei miti indoeuropei) il colpo decisivo contro il colonialismo monocefalo degli storici occidentali. L’ampiezza di questa rivoluzione si misura dall’onda di ostilità feroce che ha scatenato presso positivisti e marxisti. Gli stessi Certeau e Chesneau erano già perfettamente coscienti del problema e denunciavano le manipolazioni ideologiche degli storici.
Nel solco di Dumézil questa ideologia – diremmo piuttosto questo immaginario – è riconosciuta, e appare anche ineluttabile.
Ogni composizione storica – consciamente se si tratta di propaganda, inconsciamente nel caso dell’appartenenza ad uno o ad un altro bacino di ricettività (H. R. Jauss) – risulta da un’opzione per un insieme mitico. I bei lavori sull’immaginario della latinità (J. Thomas) portano un esempio del mescolamento, nell’impero augusteo e grazie a Virgilio, tra la politica di Augusto e il mito di Enea. La storia ritorna così nel vasto dominio dell’immaginario attraverso la mediazione delle propagande (Ch. Amalvi).
Si possono osservare (P. Sorokin) grandi svolte e fasi ben distinte nello svolgimento temporale dell’immaginario di una cultura. A tal fine non c’è bisogno di logica dialettica o di dialettica materialistica, care ai filosofi della storia astratta, ma lontane dalla comprensione di quello che concretamente è stato fatto in un’epoca.
A queste costellazioni di immaginario abbiamo dato (1980) il nome di bacino semantico e abbiamo tentato di discernerne le fasi.
L’appercezione di questi bacini, del loro sostrato immaginario, avrebbe permesso alle scienze esatte e ai loro storici di scoprire l’immaginario alla radice stessa delle concezioni teoriche che, sotterraneamente, hanno fatto la scienza. In una prospettiva post-bachelardiana si può far luce sull’emergere di una teoria scientifica, a partire dalla sua e-ducazione [dal latino e-ducere, n.d.T] poetica e mitica.
La formazione dello spirito scientifico non si fa, come aveva pensato H. Corbin, unicamente ripudiando le immagini, ma anche aderendo, spesso in modo fanatico, a una costellazione di immagini, cioè a un mito.
Certamente questa relazione positiva tra il pensiero scientifico e l’immaginario era stata presentita da numerosi ricercatori scientifici ed epistemologi: F. Bacone nel XVII sec., Poincaré o Hadamar nel XX, Michel Foucault, Abraham Moles, G. Canguilhem. Eppure fu il fisico Gerald Holton (1870) ad impegnarsi con maggior competenza nell’esame dei thémata immaginari dal cui scontro nascono le grandi dispute scientifiche. In particolare egli dimostra che la celebre contrapposizione tra Einstein e Niels Bohr fu provocata dalla radicale cesura tra l’immaginario einsteiniano e i suoi thémata del continuo, dell’onnipotenza teologica, dell’ordine, e l’immaginario di Bohr che adopera i thémata del discontinuo, del salto, del contraddittorio costitutivo di ogni sistema, mutuandoli dai suoi compatrioti: lo psicologo Harald Höffding (discepolo di W. James, teorico delle molteplici vette del flusso di coscienza) o Kierkegaard che proclama fermamente il valore della contraddizione contro la troppo facile sintesi hegeliana.
Questa constatazione, meticolosamente costruita, non solo accentuava la scoperta bachelardiana di una filosofia della negazione alla radice dello sviluppo scientifico, ma sosteneva inoltre che le teorie più dure della fisica, poggiano in fine sull’iniezione (D. Bohm) di una realtà velata (B. d’Espagnat) dietro il cammino fatto di passi matematizzabili.
Abbiamo brevemente indicato come nella nostra modernità – che innalza a giusto titolo la bandiera dell’insurrezione postmoderna – si è costituita una interdisciplinarità che infiltra l’immaginario e le sue diverse articolazioni: thémata, immagini primordiali (Urbilder e archetipi), costellazioni organizzate da regimi, fasi di bacini semantici. Nel cuore stesso delle discipline accademiche, un collegamento generalizzato emerge mano a mano che vanno a regime le differenti discipline. Tuttavia l’emergere dell’immaginario non va a costituire una disciplina in più: questa esplorazione passa attraverso la pluridisciplinarità e l’interdisciplinarità. In maniera coerente, emerge dalle ricerche di etnologi, sociologi, psicologi, neurofisiologi, etologi, storici ed epistemologi, il modello di un’interdisciplinarità più spinta.
Ci si potrebbe domandare (come è stato fatto a Venezia nel 1986, e forse già a Cordova nel 1979, tentando di conciliare le due letture dell’universo) se questa interdisciplinarità spinta al confine delle nostre conoscenze, il metasapere (“Entre-Savoirs” del quale ci siamo interessati a Parigi al Colloquio dell’ Unesco del 1991) non rappresenti in definitiva il tessuto connettivo – o meglio l’ossatura – di ogni sapere.
Questo sapere di ogni sapere che si pone dunque ai confini di ogni conoscenza, non è forse degno del nome (paolino, insistiamo su questa accezione ortodossa) così spesso avvilito e vilipeso di gnosi?
Ogni gnosi – e cioè lo studio del fondamento di ogni sapere – evidenzia infine un ordine che trascende ogni sapere (trascendente o semplicemente trascendentale?) perché li collega tutti.
Lo zoccolo dell’interdisciplinarità è indispensabile alla scoperta del transdisciplinare.
Molti nostri colleghi hanno mostrato a proposito dei prodotti delle tecniche della nostra società – media (M. Mathieu), sviluppi tecnologici dell’informatica (Berger, Ph. Quéau, G. Guelfan), coerenza sistemica dei livelli oggettuali (B. Nicolescu, A. Judge e K. Popper) – quanto la complessità interdisciplinare delle loro procedure richiami un luogo trascendente di coerenza.
Malgrado la preziosa pertinenza di questi approcci, ci pare che l’interdisciplinarità da cui è emersa storicamente la nozione d’immaginario – senza essere la nozione per eccellenza – è tuttavia la nozione più adatta (la più accessibile e la più economica) sul finire del secolo per localizzare il metasapere e i disegni di una gnosi complessa a tutti i livelli, condizione di ogni presenza reale, secondo la calzante espressione di George Steiner.
Dal 1959 abbiamo costatato vari livelli in seno al vasto repertorio delle immagini, dai sintemi (R. Alleau), che restano i più dipendenti da fattori esterni al processo di immaginazione, fino agli archetipi verbali, passando attraverso i semplici simboli, gli archetipi sostantivi, gli archetipi epitetici…
Esoprattutto contro la tenace e sospetta (perché linguisticamente troppo ellenica) teoria dell’essere – che sta a fondamento della maggior parte delle filosofie dell’Occidente e che è giunta persino a infettare una dottrina così incarnazionista come il Cristianesimo – abbiamo sempre constatato che l’essere in quanto essere, grazie alle epifanie delle immagini, scende dal suo piedistallo astratto, e al limite impensabile, per incarnarsi nel castigo dei desideri e dei timori, nei paradisi e negli inferni che costituiscono le strutture dominanti dell’immaginario.
Siamo decisamente “iconoduli” [veneratori di immagini, n.d.T], e, dato che non abbiamo a suo tempo constatato un pensiero senza immagini, non possiamo oggi ammettere che la fabbrica delle immagini sia una tentazione idolatra e illusoria. L’illusorietà sparisce davanti al filosofo che si è arreso, accettando di essere un sapiens sapiens di cui ogni verità – e forse ogni via e ogni vita – può essere trasmessa solo attraverso le parabole, i simboli, l’immagine. Condizione umana specifica e ineluttabile in cui, secondo la bella espressione di G. Martelet, l’altrove dell’uomo è a lui immanente.
Ma è proprio necessario con J. F. Lambert, come già con il mio maestro Henry Corbin, stabilire accanto all’ordine dei saperi – che per noi è l’ordine delle immagini – un altro ordine di realtà ? A nostro parere collocare a vari livelli i saperi non significa provocare cesure. Passare da un livello all’altro implica un salto, una discontinuità, che diversifica le acquisizioni dei saperi. Eppure queste rotture, questi no, indicano una continuità asintotica in ciò che si potrebbe chiamare la passione ermeneutica del sapiens.
L’immaginale o lo spirito non è che l’assenza (Lambert parla dell’assenza come testimonianza di una presenza), il vuoto significativo – cioè simbolico – dell’essere. Nella più umile immagine, nell’immaginario più incoerente, lavora già la radice dell’immaginale o dello spirito. In questo senso si può parlare di una predestinazione del sapere umano. Una dicotomia, certamente, ma nel senso della dualità e non del dualismo. Il non-luogo spirituale di cui parla Lambert è inteso come non-luogo concreto – e non come nulla – cioè come senso che simboleggia ogni luogo.
Il trascendente può essere pensato soltanto come traccia nell’immanenza. Vestigia, immagine o perfino somiglianza, secondo San Bonaventura, di questa trascendenza. L’immanenza è itinerario obbligato verso la trascendenza. Questo indicano le nostre discipline isolate, così a tenuta stagna, soprattutto quando le si mette nella relazione di interdisciplinarità, una transdisciplinarità che non corrisponde per forza all’io dell’io penso – come affermano tutti i personalismi – bensì allo spirito di ogni sapere.
Conclusioni
Abbiamo mostrato nel Colloquio del 1991 quanto la multidisciplinarità, cioè l’accesso al metasapere, sia indispensabile all’avanzamento di ogni disciplina. Qui faremo un altro passo in avanti: constatiamo che l’interdisciplinarità fa sorgere una transdisciplinarità, una reale presenza (come dice di ogni opera letteraria George Steiner) al di là delle realtà che le singole discipline forniscono.
Attualmente si pone, proprio attraverso le moderne discipline, il richiamo della transdisciplinarità e la questione metafisica del senso stesso dei confini transdisciplinari. La nostra civiltà occidentale, abbandonata a tutte le sue inquietanti derive, sarebbe la sola, da quando esiste l’uomo, a non essere più capace di intravvedere, nei simboli che costituiscono il funzionamento più specifico del nostro pensiero umano, altro che collezioni eterogenee di simbolizzanti? “Quando il saggio mostra la luna con il dito lo stolto guarda il dito” dice un proverbio cinese.
La nostra superbia occidentale è forse votata all’imbecillità ?
Dal momento che l’interdisciplinarità mette a nudo in ogni sapere la trama del simbolo e la catena del mitico, non si deve ora intravvedere all’orizzonte di questo immaginario, l’aldilà transdisciplinare che organizza le costellazioni di immagini e le sintassi del mito? L’aldilà ultimo tesse il destino di ogni nostro sapere: sia esso il mundus imaginalis caro a Corbin e ai suoi maestri Sohravardi, Molla Sadra Shirazi, o il mundus religiosus messo in grande evidenza da M. Eliade, J. Vidal, Julien Ries, o il luogo dello specchio di Lima de Freitas e di tutte le tradizioni, dalla Cabbala allo Shinto.
Un luogo che dà un’immagine che, pur simile a ciò che riflette, ne è tuttavia completamente diversa a causa del rovesciamento, della conversione che propone: la lezione dello specchio ci mostra che ogni immagine ha un rovescio e annuncia l’evidenza del nascosto.
Abbiamo affermato che l’immaginario non è una disciplina. L’immaginario trae le sue motivazioni dall’aldilà, dalla realtà del mundus imaginalis che, come dicevo paradossalmente a proposito del simbolo, è epifania di un mistero, e mostra l’invisibile attraverso i significanti, le parabole, i miti, i poemi. In tutte le culture che sono riuscite a sopravvivere a lungo, esistono delle tecniche dell’invisibile, come scrive Jean Servier.
Ma cosa è divenuto, nella nostra cultura materialista pietrificata e pietrificante, il magistero supremo del sapere? Lo specchio è per noi ormai spezzato per sempre?
Nota: L’articolo è uno sviluppo della comunicazione fatta al Primo Colloquio mondiale sulla Transdisciplinarità che si è tenuto sotto l’egida dell’Unesco al Convento di Arrabida (Portogallo) dal 3 al 6 Novembre 1994. Il titolo originale è: L’imaginaire, lieu de “l’entre-savoirs”. [Abbiamo reso ‘entre’ con ‘meta’; n. d. T.]
Traduzione dal francese di M. P. Rosati.
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