Eros e il comico

Maria Pia Rosati

Introduzione

Opera fotografica di Lorenzo Scaramella
Eros e Psiche
Opera fotografica di Lorenzo Scaramella

Nel Simposio di Platone, quando per Aristofane, il prestigioso e geniale comico ateniese, arriva il turno di “tenere in lode di Eros il discorso più bello che può” (177 D), egli svolge il mito che segue.

Gli esseri umani dei primordi non erano conformati come quelli dell’età attuale ma erano rotondi. Sul tronco doppio, risultante da fianchi e spalle disposti a forma di cerchio, spuntavano quattro gambe e quattro braccia con le relative quattro mani. Sul collo cilindrico e sulla testa una e duplice, due facce identiche rivolte in direzioni opposte. Doppi, come tutta la loro natura, i sessi. E questi erano di tre generi: duplice maschio, duplice femmina, androgino.

La loro rotondità ripeteva per somiglianza quella dei loro genitori, dato che il maschio discendeva dal sole, la femmina dalla terra, l’androgino dalla luna.

Il seguito del racconto mette capo a una scoperta inquietante: è improprio affermare che tali esseri primordiali fossero doppi, come si è dovuto dire per poterli descrivere; infatti, la loro conformazione costituiva esattamente una unità intera e completa. Semmai, sono gli esseri successivi da loro derivati a costituire dei mezzi. A rigore, gli uomini androginici e gli altri, gli andro-androici e i gino-ginici – per chiamarli così –, non risultavano dalla aggiunta di due unità intere e perfette tanto da arrivare a formare un doppio in senso stretto. Al contrario, essi formavano già un intero proprio nello stato in cui si trovavano all’inizio mentre gli uomini attuali – quelli monosessuati, per intenderci – sono dei frammenti.

L’uomo attuale esce così come lo vediamo da una brutale frattura, inferta da Zeus in illo tempore ai suoi terribili antenati.

Cos’era accaduto?

Quelli esseri d’eccezione, “terribili per forza e per vigore”(190 B), potevano camminare sia eretti sia saltando a ruota su mani e piedi come fanno gli acrobati (190 A). E, montati in superbia per tanta potenza, tentarono la scalata al cielo con l’ambizione di spodestare gli dei, come i giganti.

Gli dei, sotto la presidenza di Zeus, discussero sul modo di respingerli. Il loro imbarazzo era tuttavia supremo. Tali uomini mostruosi dovevano sì venire fermati ma non bruciati dal fulmine come i giganti, perché in tal caso sarebbe venuto a mancare il nutrimento necessario di onori e sacrifici che giungeva da loro agli dei (190 C).

Ricorre anche qui irresistibile l’idea antica che i destini di uomini e dei fossero fin dal principio legati intimamente e che anche gli uomini detenessero la chiave della vita e della morte degli dei, come questi reciprocamente quella degli uomini.

Alla fine Zeus trovò il sistema di indebolire gli uomini e decise di tagliarli in due, dando l’avvio alla sessualità dell’età attuale.

Il modo con il quale Zeus si esprime, ormai soddisfatto per la sua trovata, lo mostra nel tempo stesso crudele e beffardo: “(…) li taglierò ciascuno a metà, così diventeranno più deboli (…). Se mostrano di insistere (…) li taglierò ancora a metà, cosicché per muoversi debbano saltare su una gamba sola” (190 D).

La situazione che si determinò contiene caratteri comici elementari, decisamente crudeli e beffardi: Zeus cominciò a tagliarli “come si fa con le sorbe prima di metterle sotto sale o quando si tagliano le uova sode con il capello”(190 D-E), e intanto Apollo – patrono paradigmatico dei medici e dei chirurghi – procedeva via via a una plastica ricostitutiva, rovesciando la loro faccia dall’altro verso e tirando la pelle tagliata “come si fa con le borse strette in un nodo”(190 E), del genere delle sacche – si suppone –, fino a stringerla sull’ombelico.

Tutte le rughe furono spianate con uno “strumento simile a quello che usano i calzolai quando sul piede di legno spianano le pelli”, avendo cura tuttavia di lasciarne qualcuna “sul ventre, a ricordo dell’antico evento”(191 A), per monito e non certo per benevolente celebrazione nostalgica.

Né l’opera si fermò lì. Infatti tali uomini, dopo il trauma, morivano per fame perché le due metà, che angosciosamente si erano ricercate e ritrovate, una volta riabbracciatesi non sapevano fare altro.

Zeus allora escogitò un nuovo stratagemma, e stavolta per pietà. Dato che l’essere rotondo primordiale portava il sesso rivolto ovviamente sul versante esterno della sua rotondità, era accaduto che i nuovi uomini derivati dal taglio si trovavano con la faccia (ormai rovesciata dalla plastica di Apollo) nel verso opposto al sesso. Questa svista di Zeus (o di Apollo?) comportava che l’incontro delle due metà riuscisse insoddisfacente e sterile.

Non era la prima volta che l’artefice dell’umanità attuale si dimostrava goffo e inetto; se ne ritrova ampia notizia in sede etnologica e presso i miti di moltissime tradizioni arcaiche, così come peraltro presso gli stessi Greci. Riferisce un racconto forse di Protagora (Platone, Protagora, 321 A-E) che Epimeteo, gemello e collaboratore di Prometeo nella formazione dei primi uomini, non riesce a rifornirli delle difese naturali, avendole assegnate per sventatezza tutte in anticipo in dote agli altri animali. Inoltre, gli uomini, ridivenuti potenti per il furto-donodel fuoco da parte di Prometeo, saranno di nuovo indeboliti con la nascita della donna, vale a dire della sessualità.

L’arcaizzante Platone non vuole, forse, con il caso dell’essere originario spezzato in due, farci trovare di fronte a una situazione originariamente comica? L’espediente pietoso, il mechanê, consistette nello spostare le pudende sul davanti, costringendo i nuovi esseri a subire la spinta della loro nuova natura.

Da ciò conseguì che l’incontro del maschio (derivato dalla divisione o dell’androgino o dell’essere maschio-maschio) con la femmina (a sua volta derivata dalla divisione rispettivamente o dell’androgino o dell’essere femmina-femmina) portava alla prosecuzione della specie; mentre invece dall’incontro tra due metà egualmente maschili si ingenerava un senso di completezza capace di liberare le energie da dedicare alle altre grandi attività della vita.

Il racconto di Platone, a questo punto, si è fatto sovranamente ellittico. Cosa era cambiato in effetti per l’uomo-uomo e la donna-donna rispetto a prima, salvo un diverso allineamento del sesso sul davanti insieme con il volto?

Eppure a questo espediente il racconto ha voluto attribuire l’effetto di ricostituire quel senso di interezza e di pienezza necessario a proiettarsi nelle attività creative. Queste saranno coltivate con esiti tanto più importanti quanto più l’incontro sarà perfezionante e soddisfacente. Dato che ognuno cerca la “contromarca (symbolon) di se stesso”(191 d), solo quando l’avrà trovato, ritornando così a quella sua natura originaria che era l’intero, diverrà capace di grandi cose.

Aristofane lo dice con chiarezza: “non sembra assolutamente trattarsi del rapporto sessuale, come stessero insieme l’uno accanto all’altro con tanta passione in vista di questa soddisfazione; in realtà è evidente che l’anima di ciascuno dei due desidera qualcos’altro, che non sa esprimere, eppure presagisce ciò che desidera e lo dice in forma di enigmi”(192 c-d).

Così, la ricerca amorosa (la stessa attività sessuale in sé non significa niente e è enigmatica e rinvia a altro) si mostra intrinsecamente simbolica e esprime una carica trascendente. Tuttavia per poter sviluppare il suo potenziale deve svolgersi secondo il verso giusto (in questo pare consistere il messaggio di Platone), mediante l’allineamento del volto e del desiderio. In sostanza, la proposta platonica non consiste nell’elogio della mutilazione e dell’ascetismo forzoso, bensì nella realizzazione di tutte le finalità implicite nella spinta erotica.

Slancio verso il destino dell’uomo e ubbidienza a Eros fanno un tutt’uno. Ma vanno perseguiti fino in fondo senza fissarsi su di un solo gradino intermedio.

Il racconto di Aristofane è molto fugace circa le propensioni delle “donne che derivano dal taglio di donne”, mentre si dilunga su ciò che accade a “quelli che sono dal taglio di maschio”.

Dell’incontro, poi, di quelli che derivano dall’androgino se ne parla per dire che essi sembrano presi da necessità elementari, che li portano irrefrenabilmente all’infedeltà e all’adulterio, e – come abbiamo detto prima – sembrano servire prevalentemente alla riproduzione.

Gli esseri dei primordi ebbero come genitori gli astri rotondi, rispettivamente il sole i maschi, la terra le femmine, la luna gli androgini. Successivamente gli esseri derivati dal taglio punitivo e ancora con i genitali rivolti verso l’esterno si riproducevano “non già fra di loro, ma in terra, come fanno le cicale”(191 d).

L’incontro di maschi e femmine, quale che sia il taglio da cui provengano, dopo il compassionevole ultimo intervento di Zeus, inaugura la modalità generativa attuale e costituisce il punto di partenza di una lunga risalita.

Nel racconto di Aristofane, fatto un cenno fugace alle donne che cercano le donne, si elogia la propensione per il proprio sesso da parte di coloro che derivano dal taglio del maschio originario, che “non fanno questo per impudenza, ma per arditezza, per fortezza e per virilità ”(192 a).

Gli uomini dei primordi non provavano desiderio dato che erano già completi. Non si dice se il loro numero fosse completo fin dall’inizio o se gli astri loro genitori ne riproducessero a più riprese.

Quello che invece risulta dal prosieguo del racconto è che una moltiplicazione consegue di certo sia al taglio punitivo sia alla successiva congiunzione carnale dei dimezzati.

Nella fase intermedia, subito dopo la punizione, gli uomini appaiono sommamente goffi e ridicoli. Dopo la frattura, non sanno riprodursi mediante la congiunzione tipica dell’età attuale; e non tanto per una difficoltà morfologica ma perchè non lo hanno mai fatto: non avendone mai avuto bisogno in illo tempore, non sanno cosa sia. Sarà allora che Zeus, vedendoli annaspare e morire abbracciati improduttivamente, li costringe – in un certo senso – a farci caso con la soprariferita operazione.

Gli uomini attuali hanno bisogno di imparare tutto dagli dei, come i buoni selvaggi amerindi hanno bisogno che un missionario suoni la campana a una certa ora della notte per rammentare loro che è il momento di adempiere ai doveri coniugali, secondo la nota di Hegel2.

La nascita della sessualità effettiva interviene a rimedio di una situazione penosa e ridicola. Non siamo al dramma satiresco, ma la grande meditazione metafisica presente nel messaggio si accompagna a una indissociabile atmosfera di beffarda comicità e di compassione ironica.

Anche questo serve a farci comprendere la natura metasessuale della sessualità. Qui non si vuole provocare un riso irriverente sulla sessualità, ma indicare che la sessualità va trascesa, perché sorge da un’astuzia compassionevole per uomini spezzati e deboli.

Comunque, se non potesse ripartire da lì, l’intera umanità si troverebbe nell’impossibilità di imboccare la strada che la riconduce a se stessa, alla sua antica e vera natura.

Eros e il comico

Platone, particolare della Scuola di Atene di Raffaello
Platone, particolare della Scuola di Atene di Raffaello

In una delle case più prestigiose dell’Atene del V sec. a. C. – il secolo d’oro delle arti, della filosofia, della potenza politica – si riuniscono a cena alcuni degli uomini più rappresentativi dell’élite cittadina, i migliori, i più famosi e i più raffinati. Naturalmente non potrà mancare Socrate, il ricercatissimo Socrate. L’occasione è una di quelle che si attendono per una vita e che devono perciò celebrarsi con lo splendore adeguato, affinché se ne possa conservare il ricordo e tramandarlo, e riandarvi continuamente per attingerne soddisfazione e compiacimento.

L’ospite magnifico e i suoi amici convitati vivranno in effetti una serata indimenticabile. Il grande medico Erissimaco, il politico di successo Pausania, il famoso uomo di teatro Agatone, il letterato alla moda Fedro e l’elegante Alcibiade, giovane politico e militare, tutti si ritrovano a casa di Agatone, il quale vuole e deve celebrare la sua prima vittoria nella gara fra gli scrittori di tragedie che, per l’appunto, si tiene in quel tempo di festa sacro a Dioniso.

Bisogna riandare a quel clima e ravvivarlo con l’immaginazione per cogliere più da vicino il senso della situazione.

Passati due anni interi, all’arrivo del terzo il dio tornava ancora, con le Grandi Dionisie a lui dedicate. L’articolazione della festa era complessa e si distribuiva lungo l’arco di cinque giorni; nei tre giorni centrali il popolo ateniese si recava a teatro per assistere alla rappresentazione delle tetralogie (tre tragedie e un dramma satiresco), una al giorno dall’alba al tramonto, degli autori scelti dallo speciale comitato di stato che presiedeva ai festeggiamenti. Colui che vinceva la gara acquisiva una fama e un prestigio tali da dover essere iscritto in perpetuo negli archivi ufficiali della città e da essere premiato con la corona di edera sacra a Dioniso.

Tutta la durata della festa era segnata dalla partecipazione a una forte emozione collettiva. Il ritorno del dio della vita e della morte rompeva la quotidianità, introduceva un’altra dimensione e rivelava un altro mondo, più vero e sconvolgente. E, proprio per questo, la rivelazione provocava un effetto liberatorio.

Ogni avvenimento pubblico e privato di quei giorni si inscriveva nel clima della festa e della sua commozione. Gli atti previsti dal rituale a maggior ragione dovevano interpretare con rigore la propria parte. Gli stessi festeggiamenti che il tragico, vincitore dell’agone, teneva prima con i coreuti e poi con i suoi amici rappresentavano un atto liturgico voluto dalla tradizione e dovevano anch’essi svolgersi sotto il segno del grande dio della maschera.

In quella cornice, l’eccitazione di Agatone vincitore della gara che lo consacrava in perpetuo agli occhi del dio e della città doveva essere alle stelle e grande doveva essere la sua felicità nel ricevere invitati di tanto valore.

Un racconto di Platone eternizza quel banchetto. Quel racconto, che nella finzione si svolge molti anni dopo, conserva le cose importanti come accade alla distanza. Ed importanti erano i discorsi che quegli uomini eminenti tennero fra di loro e la dinamica dello scambio reciproco.

Quello del Simposio è certamente uno dei racconti più profondi e sottili, condotto con arte leggera e delicata. Non siamo certo in presenza di un dramma tragico, del quale mancano le morti, il conflitto, lo scacco. Il raffinato sorriso di Platone avvolge tutta l’atmosfera, che resta sospesa in una luce metafisica; una intera nottata fino all’alba passata a discutere, come fosse questo il sommo dei piaceri. Leggermente frastornati dalle bevute precedenti, i commensali congedano la fanciulla addetta a suonare la musica e si propongono di moderare l’uso del vino. Né sobri completamente, né tuttavia travolti dall’ebbrezza, discorrono assegnandosi un tema che non doveva essere estraneo – evidentemente ­ all’atmosfera della festa: l’eros.

La parte centrale del simposio si trova chiusa tra un’assenza condizionante e una presenza nuova che irrompe.

Tutto questo riesce tipico dell’andamento di una commedia. Lo abbiamo già detto prima, manca il conflitto, manca la morte. Il distaccato sorriso ironico del racconto di Platone tocca le figure a una a una e le fa vivere in un’atmosfera sospesa e inclinata verso una scoperta liberatoria. Socrate, soprattutto, interpreta il ruolo con cui si introduce la contraddizione che accende la tonalità comica.

Dice Aristotele nella Poetica che la commedia ebbe origine da coloro che cantavano i canti fallici. Ora, qui, non vogliamo certo ragionare sull’origine della commedia bensì richiamare lo spirito del comico e mostrarne l’intrinseco profondo collegamento con l’ebbrezza dionisiaca e l’avvento di una verità nascosta che rovescia le ovvietà e le scontatezze del quotidiano.

Riconoscere la componente dionisiaca del comico equivale a riconoscerne il collegamento con l’irruzione di un demone nascosto che evocato compare e disorienta. Quando arriva lui, il mondo quotidiano si sgretola e l’animo si sente liberato e ride.

Il demone del Simposio riveste le fattezze di Socrate. Il vero demone al quale si rende omaggio è Eros, ma Socrate ne è la maschera che lo rappresenta alla perfezione, egli che è – come dimostrerà lo sviluppo del dialogo – il “perfetto amante”.

Si è fatto tardi, i commensali sono arrivati tutti e manca solo Socrate; Agatone, il festeggiato, dimostra impazienza; i servi hanno già annunciato il filosofo che però non entra. A che cosa sarà dovuta l’esitazione improvvisa? Forse è stato trattenuto da ammiratori importuni? Niente di tutto ciò, Socrate si è fermato in piedi a seguire un pensiero che gli era arrivato, senza badare a dove stesse e senza sentirsi obbligato a proseguire verso la meta alla quale era diretto. Agatone manda il servo a sollecitarlo ma senza successo: Socrate non vuol venire. Una situazione davvero strana! Non insolita per Socrate probabilmente, tanto che nessuno si offende più ormai; la cosa viene subita ed accettata come un accidente di natura, un’azione intrinsecamente consustanziale con la personalità di Socrate, il quale viene tanto ricercato proprio da chi abbia desiderio di incontri fuori del comune.

Eppure, la circostanza getta la sua luce avvolgente su tutta la scena, la condiziona, la determina, la attira e solleva nella sua particolare angolazione. L’arrivo di Socrate a metà convito imprimerà una curvatura decisiva all’incontro dei convenuti e l’attesa di Socrate serve a prendere le distanze da ciò che fino a allora è accaduto e a rideterminare il centro dell’attenzione.

Non si esprime così l’ironia? L’ironia infatti, alla base, consiste nello spostamento dei pesi e dei valori che si ritenevano assodati e acquisiti; consiste nella loro levitazione e destabilizzazione. Si pensa di stare con i piedi sul fermo e invece si manifesta un nuovo baricentro nei confronti del quale le premesse vacillano, e tutto viene preso dalla vertigine e rovesciato.

Socrate, per il modo in cui balza fuori a tutto tondo dai ritratti di Platone, incarna precisamente l’ironia, nel profondo significato metafisico che essa comporta. Significato di rovesciamento delle apparenze di questo mondo in forza dell’avvento di una prospettiva prima nascosta, la quale – mostrandosi – revoca le verità precedenti e le riclassifica come errori che cadono di fronte alla nuova verità che si rivela.

“Signore, Socrate sta fermo nell’atrio dei vicini e non vuole venire”. “Un vero atopon, dici”(175 A).

Francamente, la situazione contiene un risvolto comico.

Ma come! Ti invito alla mia cena, ho vinto l’agone tragico, sono l’uomo del giorno, qui nella sala da pranzo tutti sono già sdraiati ai loro posti, ho lasciato per te libero il posto accanto al mio, e tu stai fuori per ore, in disparte, perduto nei tuoi pensieri?

Una cosa proprio fuori dal mondo! Traducendo in questo modo la parola atopon, alla lettera, ben si conserva l’ambivalenza sostanziale dei suoi significati, sia nella sfumatura seria sia in quella comica.

Socrate d’altronde passa per essere un tipo strano. E proprio uno degli eminenti invitati lo aveva introdotto nelle sue commedie con i tratti della più netta comicità. Intendiamo riferirci ad Aristofane. Questo dominatore del teatro comico ateniese per decenni aveva collocato Socrate in un cesto appeso in alto – perduto nelle sue speculazioni sul cielo – sulla scena della commedia Le nuvole, rappresentata nel 423, già molti anni prima della data possibile della circostanza (la vittoria nell’agone tragico da parte di Agatone) nella quale si tiene il simposio raccontato da Platone.

Una simile caratterizzazione di Socrate non viene lasciata affatto cadere da Platone, anzi egli la richiama e attualizza nella sua reinterpretazione. Il Socrate che interviene al simposio ha proprio le caratteristiche già colte con penetrazione dal geniale commediografo: egli è davvero uno che se ne sta fuori, uno che si pone da una prospettiva fuori del comune.

In quella posizione egli appare ridicolo o comico, ma è anche vero il rovescio, e cioè che dalla sua posizione il mondo comune appare reciprocamente a sua volta ridicolo o comico.

Il comico, annunciato e interpretato dal genio di Aristofane, corrisponde all’irruzione di una prospettiva non ordinaria e fuori del comune, all’avvento di una forza che si mette in contraddizione con il mondo consueto.

Platone richiama esplicitamente questa dimensione del Socrate aristofanesco e burlesco fin dall’arrivo del pensatore alla festa. Inoltre, in seguito il richiamo a Aristofane si fa addirittura letterale e si corona di una precisa citazione tratta proprio dalle Nuvole.

Quando, nello scorcio conclusivo del dialogo, l’ebbro Alcibiade svolge – come gli altri hanno già fatto per Eros – il suo inno-elogio indirizzato a Socrate (il quale non viene proposto anche per questo quale perfetta presenza sostitutiva del grande demone?); quando arriva a lodarne il coraggio sul campo di battaglia, ricorda: “o Aristofane, per usare la tua espressione, che anche lì camminasse come qui, a testa alta e storcendo gli occhiNuvole, 362)”(221 B), manifestando così quella fierezza dell’impavido che intimorisce i nemici. (

In sostanza, ci pare chiaro che Platone non solo non abbia trascurato il ritratto voluto da Aristofane ma che lo abbia fatto proprio e tirato dentro il suo affresco filosofico.

Platone, cioè, dà atto a Aristofane di essere stato interprete sottile del valore riposto di Socrate. Il fatto che quell’immagine sia divenuta un vieto luogo comune e che nella città certamente la si usasse per derisione da parte del pubblico non toglie niente del suo spessore a più strati.

Lo dice lo stesso Platone, attraverso il padrone di casa, il festeggiato Agatone, che si schermisce con Socrate temendo il giudizio degli astanti: ”Non mi vorrai credere così fissato sul teatro da non sapere che chi ha un po’ di sale in testa si lascia impressionare più da pochi intenditori che da una massa di sciocchi”(194 B).

Medesima cosa pensava certamente l’aristocratico Aristofane. D’altronde il comico sgorga da una contraddizione, e la più immediata e di più facile presa è quella tra le consuetudini consolidate e le novità volgari, che vengono prese di mira.

Ma il comico risiede in ben altro, più in profondità. Perché ciò di cui si deve ridere e da cui ci deve liberare ridendo non si restringe alla novità dei costumi, che è offa sugosa per l’invidia del grosso pubblico, bensì è il mondo stesso, o – meglio – quell’attaccamento al mondo che ne amplifica l’importanza e impedisce di vederne il rapporto con l’altro.

In definitiva, si può ridere di qualcosa soltanto se la si trascende. Di modo che – come vedremo – solo il vero filosofo sarà vero comico (e vero tragico).

Platone ci lascia intendere che si può partire dal ritratto comico di Socrate e, guardando sotto la sua superficie alla quale si fermano i più semplici, arrivare a trovarvi il messaggio per i saggi. Socrate non è l’uomo con la testa per aria, il distratto, il sofista assorto e perso nelle sue elucubrazioni (tutto ciò appartiene allo strato superficiale), o almeno non solo questo, bensì l’uomo partecipe di un altro mondo.

L’uomo che sa vivere nel rovescio di questo non è più, certo, il Socrate aristofanesco quanto piuttosto già quello trasfigurato da Platone. Eppure Platone ha voluto che si vedesse che aveva ragionato sull’intuizione di Aristofane e che vi aveva cercato cosa ci fosse di vero. Per farlo ha preso le mosse proprio dalla natura demonica del comico, del quale il Simposio ci consegna l’interpretazione a cui è pervenuto. Tale consegna avviene in modo indiretto e implicito, con la sovrana eleganza che contraddistingue l‘arte di Platone.

Del resto, la lettura dell’arte di Aristofane fa parte integrante del tema principale. E questo si capisce meglio se poniamo mente al fatto che sussiste un rapporto essenziale tra l’eros e il comico. E infatti Platone inquadra programmaticamente il comico nello spirito dionisiaco, orgiastico, folle, liberatorio, di rottura del mondo, di irruzione del demone della verità.

Ora, come avrebbe potuto Platone immaginare un discorso di Aristofane, del comico Aristofane, senza che in esso si esprimesse inevitabilmente quel carattere? Come avrebbe potuto Platone, in una situazione così paradigmatica, volere che il comico non facesse un discorso tipico del suo modo di essere artista, e cioè un discorso comico?

Se tutto ciò rischiava di non apparire a noi ben chiaro e se scandalizza e sconcerta che, per esempio, il mito degli androgini possa venire inteso come facente parte di un racconto radicalmente comico, ciò dipende soprattutto da quell’irrigidimento dei nostri schemi culturali che ci ha fatto smarrire e avvilire il significato originario del comico, e del dionisiaco.

Aristofane, giunto il suo turno, non riesce a parlare e deve far luogo al medico Erissimaco. Egli non riesce a parlare perché afflitto dal singhiozzo e il medico lo consiglia: “Mentre io parlo, tu prova a trattenere il respiro… fà dei gargarismi. Se il singhiozzo è molto ostinato prendi qualcosa per solleticare il naso e starnutisci”(185 D).

Allorché Erissimaco finisce di svolgere il suo discorso, Aristofane è ormai guarito mediante la pratica dello starnuto e è finalmente pronto a sua volta, meravigliato che “l’armonia conveniente (to kosmion) del corpo richieda simili rumori e solletichi (gargalismos)”(189 A).

Cosa ci ha voluto dire Platone inquadrandone così il suo intervento in onore di Eros?

Aristofane, il comico, non riesce a parlare, la sua voce resta compressa e impedita da un difetto della respirazione, la sua gola è interrotta da un meccanismo coatto che non riesce a interrompere e dominare per poter liberare la sua parola. Anche se sappiamo bene che il singhiozzo appartiene ai sintomi dell’ubriachezza, qui Platone non vuole mettere alla berlina il famoso uomo di teatro; tutti sono un po’ ebbri, come abbiamo visto, come non potrebbe non accadere durante la festa di Dioniso.

Quello che Platone intende è che il singhiozzo, dato che impedisce di esprimersi, si presenta come una malattia – sia pure non drammatica – dalla quale bisogna curarsi e guarire. Il singhiozzo è un rumore animalesco indistinto che bisogna vincere. E, nel caso in questione, esso va vinto al fine di potere liberamente svolgere un discorso comico da comici.

E c’è di più: il singhiozzo appartiene alla sintomatologia del riso e insieme – particolare non secondario – del pianto. Un riso convulso trascinante elementare non si distingue da un pianto altrettanto convulso e rotto dai singhiozzi: stesse lacrime, stesse contrazioni dei muscoli facciali e del diaframma, stessi scoppi della gola.

Esiste insomma un fondo oscuro, indistinto, elementare, nel quale riso e pianto si confondono nello stesso ceppo. Ciò fa nascere il sospetto che forse abbiano una comune natura anche a livelli più alti. Nelle battute conclusive del Simposio, giunta ormai l’alba, il resistentissimo insonne Socrate costringe Aristofane e Agatone, il comico ed il tragico, prima che stramazzino arrendendosi sia a lui sia al sonno, a ammettere “che lo stesso autore deve saper comporre e commedie e tragedie” (223 D).

Con l’articolazione della parola, quando si sarà usciti dal dominio di quel fondo indistinto, il riso apparirà distinto dal pianto, eppure è da lì che prorompono entrambi.

Comunque da quel fondo non se ne può uscire senza quella esplosione, quella rottura, quello strano rumore dello starnuto. Tra il singhiozzo che strangola il respiro e la libertà della parola parlata si passa attraverso uno starnuto, rimedio e guarigione.

E, per guarire, si deve procedere al “solletico”, pratica che – ciò è fin troppo evidente – provoca proprio il riso, oltre che il singhiozzo consigliato dal medico.

Alla fin fine tutti questi – singhiozzo, solletico, starnuto, racconto comico – appaiono a poco a poco, a ben vedere, come i vari gradi, a loro modo iniziatici, verso il riso liberatorio e metafisico.

Se già il parlare, essendosi emancipato dal meccanismo primordiale (il singhiozzo) che bloccava l’immissione nella giusta via, dimostra che è intervenuta una guarigione preliminare, la vera guarigione ce la dona però solo Eros.

Dato che amore è il nome che si dà al desiderio e alla ricerca dell’intero, se ci renderemo cari al dio e ci riconcilieremo con lui ritroveremo la parte dalla quale siamo stati divisi per la colpa commessa in illo tempore.

Avviandosi al termine del suo discorso, Aristofane dice proprio questo; e sottolinea con benevola ironia che non si riferisce ai noti amanti Pausania e Agatone, bensì a “tutti, uomini e donne”. “Per questa via la nostra specie raggiungerebbe la felicità, se cioè conducessimo l’amore al suo fine e ciascuno incontrasse il proprio amato, ritornando all’antica natura”(193 C).

La restituzione dell’antica natura ci farà beati e felici, perché equivarrà alla guarigione dal nostro male.

In che senso un tale discorso sia un discorso da comico resta in gran parte sottratto alla nostra vista, diseducata dagli stereotipi. Eppure sentiamo che Platone ha toccato una verità più forte e che deve esserci una ragione profonda perché lo stesso dio possa adeguatamente venire celebrato dai tragici, con il pianto, e dai comici, con il riso.

Allo stesso modo sentiamo che deve esserci una ragione perché entrambe le espressioni si trovino a partire da una comune radice, nella quale sono in origine intrecciate indistintamente.

Si tratta di un livello nel quale l’uomo non ha ancora acquisito il potere della parola. Quando l’avrà acquistata, dovrà badare a farne buon uso, come di tutto ciò che gli sarà stato affidato, per realizzare il suo fine profondo che, in sostanza, è quello di tornare da dove è venuto.

Dal parlare deve tornare al riso; dalla voce deve tornare al silenzio assorto di Socrate, il folle satiro.

Maria Pia Rosati


Articoli correlati