La natura della vista interiore e i paesaggi dell'illuminazione

(da Àtopon Vol. IV)

Raffaele Milani

Nota (*)

In Te è la sorgente della vita,
nella Tua luce vediamo la luce.
Salmo XXXVI, 10

Quello stato in cui il pensiero,
tenuto a freno dall’osservanza dello yoga, trova riposo:
in cui uno, vedendo il sé con il sé, si rallegra nel sé.
Gîta 6, 20

Molti sono attratti dalla metafisica, sono appassionati delle cose dello spirito senza che ciò comporti per loro una rinuncia al pensiero critico e pragmatico. Muoviamo da questo difficile ma invitante equilibrio, col quale si può anche continuare ad essere credenti dopo aver accettato le grandi rivoluzioni scientifiche, per porre alcuni problemi legati alle visioni estatiche, ai rapimenti mistici, a quel particolare stato di abbandono del corpo e dell’anima, di estinzione del dolore e delle passioni da cui si risorge pienamente quietati contemplando la vuotezza dell’essere. Si tratta di una condizione di “annullamento dell’io”, ma tale condizione non è un allontanamento dell’io, un viaggio della coscienza altrove privilegiando un itinerario immaginativo e onirico.

Se, nel nostro caso, parliamo di immaginazione, dobbiamo farlo riferendoci all’origine dell’immaginazione come Urphänomen (primario) legato alle immagini archetipiche. Come ha dichiarato Corbin, c’è un’obiettività del mondo immaginale che ci viene suggerita da figure o emblemi simbolici (cabala, mandala) e tali raffigurazioni possono produrre effetti magici sulle immagini mentali; fino a divenire realtà, obiettività. Troviamo così, su questi punti, per estensione, una profonda connessione tra profezia e illuminazione; il nostro itinerario si rivela un passaggio verso la più alta conoscenza del Sé come uscita da sé. Si disperde la coscienza, nel suo ordinamento mirante all’attività e alla vita quotidiana, e ci si muove fuori di essa promuovendo un incontro con l’assoluto. Affiora in questi temi il problema junghiano dell’eterno Trascendente e della sua inattingibilità.

Entriamo in una prospettiva d’analisi ontologica dell’immagine dove, comunque, l’immagine interiore si annuncia archetipo della mente umana e non, come invece pensava Sartre, fatto casuale o, come poteva per tanti versi sottintendere Merleau-Ponty, fatto puramente esperienziale di tutto il corpo in un complesso atto sinestetico. Una prospettiva nella quale indubbiamente si mostrano i paesaggi dell’inconscio nella loro complessa simbologia cosmologica: paesaggi che sono stati oggetto di attento studio da parte di Jung.

Ma ciò che si vuole, per sommi capi, mettere in luce ora è, proprio in forza delle argomentazioni junghiane, l’importanza di tale straordinaria visione secondo l’obiettività archetipica annunciata da Corbin.

Nel cammino religioso delle civiltà e nella storia del pensiero teologico emerge viva, tra i popoli, la testimonianza di tali visioni estatiche che siamo portati spontaneamente, nella nostra vita quotidiana, a confrontare con la trasformazione operosa della natura.

Mandala1Frye, riprendendo da una riflessione di Blake e riformulando un’antica dicotomia, osserva l’esistenza di un linguaggio spirituale (dietro cui si nasconde il principio che il significato della religione consista nella metafora e nel mito) e di un linguaggio naturale fondato invece sull’idea che ciò che è letterale è descrittivo. Tuttavia egli conclude che, tra mondo spirituale e mondo naturale simultaneamente presenti, la duplice visione di Dio mira a un’armonia di tali opposti. Questa differenza che nasce spontaneamente in noi può però anche condurre a domandarci come accada che ciò che un tempo era principalmente legato ad aspetti di potere magico o rituale sia poi divenuto oggetto esclusivo di trattazione sperimentale, positiva, scientifica. Ma c’è però un itinerario storico e culturale lungo il quale questi elementi si evolvono senza significare o comportare necessariamente un dualismo. Passo importante per poter cominciare a cogliere questi fenomeni.

Già Koestler, tra gli altri, aveva riconosciuto in un suo ampio studio sulle concezioni dell’universo l’esistenza di una Gestalt del destino cosmico che influenzò anche Keplero, interessato alla prova sperimentale dell’astrologia. Keplero pensava che l’anima individuale portasse virtualmente l’impronta dell’intero cielo, reagisse alla luce dei pianeti secondo i loro angoli, secondo armonie e disarmonie matematiche come l’orecchio ai suoni.

Nella sua interpretazione l’anima possiede, per il rapporto tra i due aspetti, uno mistico l’altro causale, la facoltà d’essere risonatore cosmico. E recentemente Seimour, un celebre astrofisico, ha cercato di sostenere l’esistenza di una sensibilità alle vibrazioni della ragnatela di linee dell’universo la quale può ricollegarsi al registro akascico, espressione del pensiero induista che indica la traccia di luce astrale contenente ogni pensiero, idea, emozione, evento; tale sensibilità avrebbe anche connessioni con il simbolismo archetipo indagato da Jung e con il serbatoio cosmico delle memorie descritto da William James. A questo proposito ricordiamo, per la sua folgorante sintesi poetica, un pensiero di Blake:

Vedere un mondo in un granello di sabbia
e il cielo in un fiore di campo,
tenere l’infinito nel palmo della mano
e l’eternità in un’ora

Pensiero che si rivela subito fiore della meditazione e della preghiera, senza ovviamente confondere l’una con l’altra, la liberazione o purificazione con l’invocazione; il loro accostamento riguarda forme di raccoglimento per una possibile visione estatica.

Abbiamo posto, in sostanza, l’urgenza di evitare il dualismo tra spirito e natura. Affrontando in particolare il nostro tema emergono allora alcune questioni specifiche. Si pensi che certe forme di meditazione ispirate a religioni (o filosofie) orientali oppure certe tecniche dello yoga presuppongono una direzione non dualistica e uno stato di non sforzo della mente.

Ecco allora, a maggior ragione, risaltare certi interrogativi. La natura della visione interna è in rapporto con la macchina della visione, con la vista esterna? Come funziona, quali paesaggi (ordine di forme, colori, luci, simboli) tale visione interna crea o afferra?

È un fenomeno preso in esame assai poco da psicologi e neurobiologi. Possiamo domandarci se, nel vedere interno (per lo più a occhi chiusi), una volta eliminate dalla nostra analisi le patologie e le disfunzioni della vista e del cervello, vi sia, come per la vista esterna, un comportamento determinato, descrivibile; un comportamento che, come nel caso della macchina del vedere umano, usa conoscenze implicite e innate in rapporto a regole generali che presiedono alla formazione dei movimenti del corpo. Sembra che nel vedere esterno vi sia una sorta di anticipazione, da parte del cervello, rispetto alla prensione dei gesti o, per meglio dire vi sia una distinzione istantanea nel percepire la differenza dei movimenti dei corpi che si presentano all’occhio.

Il cervello, per complessi procedimenti che uniscono informazioni non visive a informazioni visive, ci permetterebbe di vedere subito, nell’immediatezza, come si differenziano vari tipi di movimento. Inoltre il corpo umano in generale si comporta come una macchina elettrica il cui operatore centrale è il cervello. Questi elementi potrebbero avere relazione con certi stati di forte concentrazione della mente alla quale è connessa la produzione interna di immagini. Alla radice della condizione estatica c’è, anche se in modo particolarissimo, l’effetto trance.

Dunque un qualche collegamento con le osservazioni positive della percezione potrebbe forse trovarsi. L’attuale rivoluzione scientifica della macchina della visione sarebbe per certi versi in grado di offrire prove sperimentali e ipotesi importantissime. Anzi, potrebbe proporsi come strumento utilissimo per scoprire l’origine psicologica o neurofisiologica di tali stati emotivi, al di là del loro significato propriamente spirituale, profondo.

Comunque tali fatti dovrebbero essere analizzati, lo ripeto, in senso non dualistico. Che influenza può avere infatti la prova di Land dimostrando, diversamente dalla tradizionale ottica fisiologica, che i colori degli oggetti non sono determinati dalla lunghezza d’onda della luce che essi rimandano all’occhio e che il vederli non può essere il risultato di elaborazioni cerebrali superiori? Sempre partendo dal fatto che in sostanza non occorre l’intervento del nostro cervello nel suo insieme, quale peso può avere la ricerca condotta da Zeki sul rapporto tra flussi luminosi? E l’analisi dell’esperienza sinestetica elaborata da Cytowic, con la tesi di un sopravvento delle strutture sottocorticali (sede delle emozioni, dell’attenzione e della memoria) su quelle corticali (sede del linguaggio e del ragionamento), avrà dei legami con le manifestazioni di cui parliamo? Si consideri infatti che nelle visioni estatiche sono implicate complesse reti di corrispondenza tra colori, forme, suoni, odori, sentimenti ecc. Quale ruolo inoltre può avere la memoria?

Non pare così azzardato tentare di conciliare, di unire, alla luce di questo impegno, recenti indagini scientifiche con la tesi dell’unità del tutto che, in un profilo essenzialissimo (con Pitagora, la scuola Eleatica, il neoplatonismo, Scoto Eriugena, il buddismo zen, i mistici cristiani, il sufismo, Meister Eckhart, Giordano Bruno, Spinoza, Kant, Schelling, Schopenhauer) si è proposta in opposizione alle teologie dogmatiche.

Partiamo dall’unità del tutto, dall’energia cosmica, dall’essere che si vede in tutte le cose viventi (e non da tutte le cose che si vedono nell’essere). Alla base di tale principio sta la vita e la funzione della vista interiore, la meditazione yogica (soprattutto postclassica), il raccoglimento estatico della preghiera. Tale condizione, per seguire Schopenhauer sulla traccia del pensiero induista e buddista e lungo il percorso essenziale sopra ricordato, è l’espressione di un contatto con ciò che è, non con ciò che illude di essere cercando di unificare le apparenze. Di fronte al mondo illusorio perché soggetto al pensiero, la via è tradurlo nella concretezza; attraverso il suo superamento nell’esperienza della meditazione, nell’itinerario del nulla, fuori dell’artificio della presenza, dell’inganno di ciò che ci circonda, per un contatto con l’infinito. Ritorna l’obiettività di Corbin per la quale il vedere interiore non è mera introspezione, né effetto d’empatia.

Sul sentiero della immaginazione estatica dove predomina l’interiorità, troviamo anche consonanze estetiche.

Shelley diceva che «La vita macchia il bianco splendore dell’eternità come una cupola di vetri dai molti colori» (Adonais, LII, 462-463).

E Goethe dichiarava: «E allora, che il sole mi resti alle spalle!… soltanto nei colori del suo riflesso ci è dato possedere la vita» (Faust, II, I, 4715-4727).

Mandala2In quest’impresa mentale ci distacchiamo dall’occhio esterno col suo mondo multicolore e le sue forme apparenti, per favorire, secondo la ribadita lezione di Schopenhauer, lo sguardo interno portato dalla meditazione profonda: quello sguardo che, procedendo con altri colori e forme, va, come i sogni, oltre l’esperienza e i concetti astratti da essa derivati, per giungere al contatto con la volontà, l’energia formativa del mondo vegetale, animale, dei corpi, degli uomini, della civiltà ; per giungere a un punto nascosto dove si trova il nocciolo di ogni individuo e del tutto, alla volontà (vista dall’interno), alla percezione del brahman coincidente con il sé (atman) di ogni essere. Fuori da ogni concezione dualistica, ognuno è direttamente cosciente della propria individualità nella propria esistenza, dove il conoscitore e il conosciuto sono la stessa cosa, nell’estinzione della paura della morte e nell’assenza dei desideri e dei piaceri. Qui sorge una consapevolezza nel grado dell’illuminazione, per un percorso di annullamento e rinuncia. Di fronte alla molteplicità e varietà degli individui come semplici figure della scena del mondo, effetti del mio modo di pensare, sperimento il mio io autoconsapevole. Tace l’individuo temporale per far posto a una coscienza indipendente; non ci sono più leggi di tempo e spazio, né leggi di causa ed effetto.

Queste esperienze non vengono descritte e analizzate dalla psicologia della Gestalt né dalle neuroscienze. Se da esse risultasse che questo contatto con l’assoluto (o questo desiderio di contatto) nasce da un puro delirio, da uno stato di esaltazione e suggestione della mente, da un comportamento alterato del cervello, da un’eccitazione o anomalia programmata delle cellule nervose o dall’attività elettrica del cervello, non importa. Perché comunque il nostro punto di partenza è l’esplorazione delle cause allo stesso tempo fisiche e psichiche (neurofisiologiche e spirituali) di tali processi della mente umana in rapporto anche a quel concetto di risonanza cosmica cui abbiamo accennato.

Crick, in un recente studio sperimentale della coscienza a partire dalla consapevolezza visiva afferma che la mente umana può essere spiegata come l’interazione fra le cellule nervose e le molecole ad esse associate, come una particolare forma di connettività neurale. La sua analisi della coscienza, necessariamente e deliberatamente circoscritta al vedere esterno, non considera la coscienza nella trance. Ma un ampliamento di questa ricerca potrebbe offrire un fertile studio sperimentale, utile alla precisazione del nostro stato.

Ciò di cui parliamo è un puro gioco, una libera e casuale fantasticheria? Dobbiamo stabilire un contatto con un’effimera gioia estetica, con le vibrazioni dei sensi? Su questi ultimi interrogativi sappiamo che la letteratura e le arti sono state influenzate negli ultimi secoli dalle scoperte tecnico-scientifiche. Ma ciò non riguarda il nostro vedere interno che non può essere confuso con le fantasmagorie luminose ispirate a fenomeni (reali o immaginari che siano) elettromagnetici.

Quel che preme rilevare è un’altra idea di natura attraverso uno slancio nella contemplazione. Una forma che non può essere messa in relazione con il soprannaturalismo delle percezioni dei paradisi artificiali, con l’uso della droga. L’ottica fantastica e gli allucinogeni sono fattori culturali dell’immaginazione estetico-artistica e tentano sì di vedere l’invisibile ma la loro natura per lo più ludico-esistenziale è diversa da quella dell’illuminazione qui presentata ruotando attorno al pensiero di Schopenhauer.

Certamente, dal romanticismo ad oggi, si possono leggere molte opere e autori alla luce di fatti vicini al nostro territorio per magie visionarie: sogno, mesmerismo, studi sul magnetismo e l’ipnosi, esplorazione dell’inconscio, traduzioni fantastiche delle scoperte scientifiche. Ma nell’ambito di una prospettiva circoscritta a percorsi mistici di varie religioni e filosofie della vita, quel che distingue la visione interiore è la conoscenza del divino, del sacro, attraverso uno stato di percezione dell’assoluto, del tutto. Questa è la sua natura: una natura di luce le cui qualità, come distingueva James, sono ineffabilità, passività, noesi, transcience.

Gli accostamenti al tema della luce sono d’altronde pienamente giustificati dato che la teoria della conoscenza è legata da sempre, originariamente, al predominio del modello ottico; si parla in questo senso di conoscenza perfetta come visione, illuminazione, rivelazione. Così dobbiamo pensare e inquadrare la natura di tali fenomeni senza escludere l’importanza sociale e psicologica degli altri fenomeni sopra accennati.

In sostanza l’interno e l’esterno non sono soltanto in rapporto univoco di scambio metaforico e mitico o in un gioco di allucinazioni. Il punto metodico di partenza è l’equilibrio e l’armonia, non lo sconvolgimento e la dipendenza.

Il cuore di tali rapimenti, indipendentemente dalle loro forme tra Oriente e Occidente, è il misticismo dove si muovono potenti motivi originari dell’anima umana, come ci ha anche insegnato Fornari discutendo dell’estasi cosmica. Qui la visione interna non è un esercizio della fantasia ma un’alienazione, come indicavano già Leone l’Ebreo ed Equicola; alienazione portata dallo stato contemplativo come immersione nell’inconscio, vale a dire, nel nostro contesto, nella fonte della creatività. In questo spazio sconfinato della mente cui siamo spinti da una coscienza dissolta in immagine psichica, l’anima (junghianamente descritta come personificazione dell’inconscio) si unisce alla Divinità. Parallelamente, come ci istruisce Otto, si uniscono Brahman e atman.

Dobbiamo infine affrontare la descrizione dei paesaggi dell’anima senza dimenticare la disciplina dello spirito monastico che non rende impraticabile un confronto tra arte sacra orientale e arte sacra occidentale quali espressioni dell’ascetismo, nelle rispettive connessioni simboliche e metaforiche con i colori, le forme, i caratteri ecc. Perché è l’arte ovviamente ad essere designata a trasmettere i paesaggi delle visioni estatiche.

Comprendere la funzione del cervello, la sua saldezza comportamentale in questi stati mentali che vanno oltre l’autoipnosi, significa, in uno sforzo comune della ricerca scientifica e spirituale, tentare di raggiungere la descrizione del delicato nucleo biologico dell’energia cosmica dietro cui si cela l’ipotesi di un sistema universale della mente che governa la percezione e interagisce con il mondo fisico.

Il senso di questa area energetica viene assunto e sentito dai fisici con perplessità, riluttanza e a volte ironia mentre viene percepito dai metafisici con la profondità di un contatto divino. Ma dobbiamo augurarci nuove nozze tra aspetti concettuali e problematici della metafisica (di una metafisica non dogmatica e non dualistica) e della scienza (sperimentale).

Nell’oscuro rapporto di consonanza tra l’uomo e l’infinito sembra allora prendere giusto rilievo un sentimento di contemplazione della vita, fuori del dominio della morte. La meditazione è purificazione, o anche una specie di epoché radicale circa il mondo su cui però non si vuole più tornare a pronunciarsi, un gioco di continue sottrazioni per sciogliere il corso d’intenzionalità e liberare da un punto zero immagini altre, eidola dell’invisibilità che giacciono in noi. Nel suo essere percezione extrasensoriale, comunque, sempre visione psichica, incorporea, essa è un passaggio all’origine.

Non si confonda questo estinguersi dell’io con «l’immagine dell’intimità » di Bachelard che cerca di scoprire qualcosa dietro il mascheramento della vita; non ci troviamo calati in un’immersione inconscia che ci permette di abitare oniricamente le cose e anche i nostri stessi organi. Non adottiamo la prospettiva delle tenebre interne delle cose ma quella trascendente del sacro, senza ridurre tale prospettiva a mero panpsichismo (critica di Popper-Eccles).

Abbiamo detto che bisogna esplorare la natura della visione anche in rapporto alla macchina della visione e che dobbiamo coltivare l’idea di una collaborazione tra le recenti scienze sperimentali e le concezioni legate al misticismo. L’invito a fare ciò ci viene da più parti.

Si ricordi che Capra, venti anni fa, cercò di vedere nel misticismo (orientale) una struttura coerente in cui potevano trovare posto le più avanzate teorie del mondo fisico. Egli, nonostante le perplessità che può suscitare, ha esposto le basi per un’armonia tra aspirazione spirituale e prove scientifiche. L’unità del tutto veniva letta nel segno di una vibrazione dell’energia cosmica. Egli ha sostenuto che quanto più profondamente entriamo nel mondo subatomico tanto più ci rendiamo conto che il fisico moderno (coi suoi modelli quantistico-relativistici), parimenti al mistico orientale, è giunto a considerare il mondo come un insieme dinamico di componenti inseparabili, interagenti e in moto continuo e che l’uomo è parte integrante di tale sistema. Il mondo risulta essere una complessa trama di eventi in cui si alternano, sovrappongono, combinano diverse specie di connessioni determinando la struttura del tutto.

Emerge da ciò l’immagine di una rete d’energia cosmica di cui l’uomo è parte. Il mondo esterno, lo avvertiamo nelle visioni interiori, non esiste separatamente da noi, c’è una complementarità degli opposti e un dissolvimento della distinzione mente-corpo, soggetto-oggetto che mostrano il relativismo spazio temporale e portano alla luce una specie di quarta dimensione.

Nella meditazione profonda possiamo percepire che il vuoto contemplato è paragonabile al campo quantistico della fisica atomica. Il vuoto del misticismo orientale, come il campo quantistico, genera secondo Capra una infinità varietà di forme che sostiene e alla fine riassorbe. Splende qui una massima buddhista di grande importanza: la forma è vuoto, e il vuoto è in realtà forma.

Per questi ragionamenti possiamo intravvedere d’ora in poi un cammino comune delle ricerche umane nell’idea, come ha dichiarato Zolla, di favorire le «facoltà dell’uomo futuro», oltre l’invenzione e l’inconscio stesso. Abbiamo infatti sottolineato l’urgenza di mettere a fuoco questi particolari stati della mente umana soprattutto se usciamo dai cammini finora tracciati separatamente dalla psicoanalisi, dalla fisica, dalla neurobiologia. Perché le visioni di cui abbiamo parlato nascono dalla bellezza di un sonno profondo che è oltre il sonno in cui si visitano gli dei.

Raffaele Milani

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NOTE:

(*)Fachinelli diceva che è necessario superare il disconoscimento dell’estatico per cogliere in esso, secondo un’esigenza antropologica, un movimento originario di molteplici esperienze, soprattutto di quelle più creative. Egli sosteneva anche che l’abolizione dell’io nelle esperienze estatiche può forse contribuire a salvare questo stesso io dal rischio di essere assorbito nella Ragione tecnica, scientifica, burocratica. Si apre così il territorio della mistica come zona irriducibile.

Con questo articolo ci si è posti nella stessa direzione di ricerca pensando che l’abbandono del corpo e dell’anima causato da esperienze “straordinarie” riveli stati della mente presenti in aree culturali e religiose differenti. Inoltre questi stati sono qui osservati da una posizione intermedia, tra scienza e metafisica, invitando a un loro sempre maggiore reciproco coinvolgimento.

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