La verità «non esitante» di Parmenide

Giuseppe Lampis

È necessario che tu apprenda tutto:
e il cuore non esitante della verità perfettamente rotonda
e le opinioni dei mortali senza alcuna verace credibilità.

(Parmenide, Proemio 28–30)

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La dea che accoglie e istruisce Parmenide a lei portato dal carro delle figlie del sole afferma che la verità ha un cuore non tremante, atremes.

L’aggettivo ha un contenuto combattivo e ci presenta la verità nella figura di una forza vittoriosa che tale è per intima repulsione del timore e del dubbio. La verità non esita.

E di fronte a quale pericolo avrebbe potuto esitare se, alla fin fine, apprendiamo che è sola, unica, esclusiva?

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parmenide2 «… ti dirò quali sono le due vie che sole si possono pensare: l’una che è e che non è possibile che non sia… l’altra che non è e che è necessario che non sia» (frammento 2, 3–5)…

Apprendendo che davanti al pensiero si aprono (o sembrano aprirsi) due vie, potremmo credere che il pensiero esiti tra le due alternative. Al contrario, il pensiero non esita e non può esitare per la sua stessa interna costituzione.

Ad ogni modo Parmenide ci dice che la possibilità di pensare il niente è posta in una sorta di bivio di partenza.

Innanzitutto, il pensiero viene presentato come strutturalmente considerante la possibilità (il bivio, appunto).

Il pensiero è per intima essenza verifica ed esso verifica le possibilità. Per verificare le possibilità, le passa in rassegna e scarta l’impossibile.

Ma il punto qualificante di Parmenide è che – a differenza di Leibniz – le possibilità che il pensiero considera sono due soltanto: sono le due alternative radicali nelle quali ogni altra possibilità si riconduce.

Essere o non essere. O tutto o niente.

Il pensiero esamina, prova e verifica. E, nel momento stesso in cui si pone il problema della strada su cui procedere, scopre di non poter affermare di non essere. Esso non può affermare di non essere, di non essere origine.

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L’origine non originata, il principio immobile, il pensiero lampo pensa e forma nell’istante il cosmo.

Esso è l’origine non originata che riempie di sé il tutto e lo tiene a sé. Tale riempimento creativo è nato nell’atto stesso di pensare: sono.

Sono ed è impossibile, dato appunto che sono, che non sia.

Anzi, per l’esattezza non dice «sono», che sarebbe o cartesiano o idealistico, bensì «è»; non ci sono soggetti personali, c’è solo essere apersonale, eguale dovunque in ogni direzione, indifferenziato, omogeneo e continuo.

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Per le ragioni suddette, il pensiero è verifica. E la verifica è verità. E la verità è intrinsecamente verifica.

Non soltanto nel significato di prova bensì anche nel significato di «fare il vero».

Fare il vero, formare il tutto, riempire di sé l’universo, pensare l’essere: questi atti sono una cosa sola perfettamente integrata.

La verifica della possibilità del niente e il pensiero della sua impossibilità rientra nella costituzione stessa dell’origine. Il carattere essenziale dell’essere origine contiene un’alternativa intrinseca. Contiene una dimensione prospettica sottostante nei suoi stessi primordi.

C’è «essere» per la ragione che non c’è «non essere». E «non essere» non c’è perché è impossibile.

L’origine autentica non originata, per esser tale, deve nel tempo stesso (prima del tempo) confermarsi quale origine e verificare la possibilità di sé quale origine di essere.

Parmenide evoca, dunque, il niente all’alba della filosofia greca.

Parmenide assume il niente quale primo e primordiale costitutivo problema che il pensiero dell’essere – e vale a dire l’essere stesso – deve risolvere.

Il niente si è già presentato in forme dissimulate nella speculazione religiosa e nella filosofia dei pitagorici, con Parmenide irrompe messo a tema esplicito, anzi irrompe nella qualità del tema fondamentale.

Il primato esclusivo dell’essere lo esige.

L’essere non sarebbe tale se non fosse esclusivo, infatti. Il problema della sua necessaria esclusività o unicità altro non è, controluce, che il problema del niente.

Parmenide lo risolve, e ne risolve il dramma, assumendolo quale atto interno dello stesso inizio.

6

Gli uomini mortali sono coloro che pensano l’impossibile ritenendolo possibile.

Ossia sono coloro che non pensano, stante che l’unico pensiero valido è quello che si riconnette con il tutto.

Gli uomini possono pertanto commettere l’errore ed essere mortali precisamente in quanto «non pensano» tutto e non pensano, in particolare, il rapporto del tutto con l’origine.

In ultima analisi, essi non pensano in quanto «non sono». La loro condizione non è reale; nell’essere totale e universale, compatto e definitivo, essi sono appena un tracciato che è arbitrario isolare e distinguere.

La condizione di uomini mortali è una «cattiva moira».

E, dato che ogni parte dell’essere dipende dall’unico pensiero che crea ogni cosa e il pieno definitivo ed esclusivo, evidentemente è l’origine stessa ad aver stabilito questa loro cattiva moira.

Inoltre, dato che l’origine (l’essere) non può fare diversamente, è evidente che la «cattiva moira» è necessaria e caratteristica della formazione stessa dell’uomo.

L’uomo ha (è) una cattiva moira per destino costitutivo. Finchè è uomo e insiste a esserlo, la sua è una condizione minore e assurda.

In termini parmenidei, è una via «impossibile».

Tremendo. Tragico.

Ma la via impossibile è, appunto, impossibile: e allora?

7

La dea propone l’alternativa tra le vie dell’essere e del non essere. E dice che sono le sole due vie pensabili.

Una è la via del pensiero possibile e l’altra è la via del pensiero impossibile.

carrodelsoletiepoloMeglio: una la via del pensiero del possibile (che, poi, è l’unico necessario) e altra la via del pensiero dell’impossibile.

Il pensiero dell’impossibile è anch’esso necessario. Esso porta la necessità dell’impossibile. Per la ragione che tutto è necessariamente, l’impossibile è necessariamente impossibile.

Necessario da impossibile, esso è perciò inesistente altrettanto necessariamente quanto è necessariamente esistente il possibile.

8

La dea non avrebbe bisogno di prendere in considerazione questa via impercorribile se si rivolgesse a sé stessa e si concentrasse sulla sfera della pura verità alla quale appartiene.

Se, invece, ne parla, noi dobbiamo cogliere il segno che essa manda con ciò.

La dea si sta ponendo il problema di parlare agli uomini e si avvicina al loro linguaggio. Essa si avvicina al modo con il quale gli uomini vivono il problema.

Nella pura luce della verità non c’è esitazione tra le due vie, la verità a sé è atremes.

La ragione stessa che apre l’unica via valida chiude l’altra. Eppure la dea ne parla, e non per esprimere – abbiamo visto – una sua esitazione o una sua ricerca.

La dea di Parmenide non applica le méthode cartesiano e non si colloca sul piano zero che pretende di precedere ogni verità.

Eppure essa parla della seconda via e parlandone va incontro agli uomini.

Incontro o, più precisamente, contro.

Ne varrebbe la pena? Varrebbe la pena di prendersela con folli e ignoranti illusi e contraddittori relegati in una condizione maligna?

La dea si pone il problema degli uomini, dell’essere degli uomini. In ultima analisi, si pone il problema della posizione degli uomini nell’essere.

Lo sviluppo del suo discorso è l’apertura di un cammino per coloro che errano. Per coloro che, lungi dal non esitare e dal non tremare, tremano ed esitano.

E, in ogni caso, ne viene che il problema degli uomini è il suo problema interno.

9

Ci avviciniamo a una qualche comprensione del motivo per il quale Platone, che ha finto un parricidio per il suo gioco dialettico (Sofista 241d), vede nel maestro Parmenide quel carisma che incute venerazione e spavento ai pensatori.

10

Per conoscere la verità «non esitante» occorre uscire dalla condizione umana e mortale. Occorre uscire da quella condizione nella quale si vedono due strade egualmente attraenti e si «du–bita».

«L’uomo che sa» (Parmenide, Proemio 3) non è più uomo mortale, lo stato mortale è trasceso.

Tuttavia il punto fondamentale si è che il trascendimento è dovuto a un rapimento estatico: sono le figlie del sole ad averlo sollevato e condotto in uno stato transumano, dopo aver doppiato una sequenza di ardue salite con progressive accelerazioni e rotture di stato.

Non c’è accesso alla vera conoscenza se non per un privilegio ed una elezione dall’alto da parte della verità stessa che apre un cammino verso di sé.

Non vale alcun ragionamento o impennata umana, la verità non è la conclusione di un ragionamento, non è la conquista per opera di strumenti mortali, è un lampo assoluto che si impone prima di ogni prova annichilendo ogni opinione contraria e mostrando la caducità del mondo al quale le opinioni appartengono.

Giuseppe Lampis


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