Giovanni Reale
Rizzoli, Milano 1998, pp. 365
Anche Reale si cimenta con Havelock1 (il titolo del libro non fa trasparire la sua sostanza).
A suo avviso Platone non può essere l’uomo della scrittura perché afferma programmaticamente che le cose serie non si debbono scrivere. Il vero Platone si trova nella dottrina non scritta e Havelock si sbaglierebbe e in sovrappiù per fare tornare i conti cambia i dati di fatto (p. 29). L’accusa, come si vede, non è leggera.
Ovviamente Reale non nega che la crescita della filosofia sia connessa con quella del concetto universale astratto.
Egli non può negare che il processo di astrazione ci sia stato e che sia culminato in Platone, e che proprio i concetti e il lessico della famosa lezione sul Bene-Uno del Platone segreto orale e non-scritto costituiscano un vertice di astrazione e di completo dominio del concetto filosofico-scientifico. E’ del tutto evidente che anche un pensatore che comunichi solo oralmente dovrà pur sempre adoperare il lessico ormai prevalente.
Così, Reale dirige il tiro sulla natura del concetto: il concetto universale è sì una astrazione (che è la tesi di Havelock: a esempio, una cosa è Ettore in battaglia, altra cosa è il coraggio , ecc.) ma non nel senso dell’empirismo.
L’astratto di cui parla Havelock non è un reale (pp. 189 ss.), mentre il concetto-forma universale di Platone è il realissimo, il fondamento ultimo della realtà. Si tratta quindi a suo avviso di due concetti di differente natura, tale che quello platonico non dipenderebbe dalle nuove leggi della comunicazione scritta.
Sta qui il punto essenziale del libro.
Sembra di essere tornati per un attimo alla medievale disputa sugli universali, se essi siano solo nomi o anche realtà .
Eppure ciò è ininfluente sulla struttura logica del concetto. Se si ammette che gli universali hanno sostituito il lessico concreto immaginifico della poesia il gioco è fatto. Parlare di nuova oralità (pp. 57 ss.) risulta fuorviante.
La sintassi e il lessico della cui formazione tratta Havelock, pur culminando in Platone, non si esauriscono solo in quelli suoi peculiari e del resto non tutta la filosofia greca pensa all’universale come a un esistente di per sé. Né dobbiamo ritenere, a causa di ciò, che ci siano tante oralità quante le diverse dottrine dell’universale.
Reale fraintende la vita del linguaggio e delle sue leggi con le singole soluzioni filosofiche. Non ci sono tante gambe quante sono le diverse direzioni che si percorrono.
Infine, è proprio vero che un’idea si può sganciare dalla tecnica di comunicazione che determina il contesto generale in cui essa acquista il suo significato? E se si può, come ritiene Reale, come fa poi questi a invocare il circolo ermeneutico di Gadamer trascurando la forma effettiva in cui si esprime il circolo stesso?
La tecnica non è solo una veste estrinseca del logos e l’accusa di empirismo sorvola sul punto di fondo.
Il quale invece consiste nel fatto che Havelock si è fermato sulla soglia del vero problema.
La sua scoperta era inevitabile e forse non è neanche una scoperta; che ci sia un rapporto intrinseco tra il pensatore e il suo pubblico non era affatto una novità neanche nel 1963 quando il libro uscì.
Nota 1
Eric A. Havelock, Preface to Plato , Cambridge, Mass.– USA, 1963; tr. it. Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone , Roma – Bari 1973